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La poesia in inverno: Tre fili d’attesa di Maria Pina Ciancio

 


“Siamo nidi sfilacciati sugli alberi d’inverno/ le guance rosse e gli occhi aperti al cielo/ oltraggiati dalla pioggia/ schermaglie di bambini/ senza un grido/ […]”

La silloge poetica “Tre fili d’attesa” della poetessa lucana Maria Pina Ciancio è suddivisa in due parti, la prima è più corposa ed è stata scritta nel 2006/2007 mentre la seconda parte consta della sola lirica “Siamo nidi sfilacciati sugli alberi d’inverno” scritta nel 2011.

Ne “Tre fili d’attesa” l’inverno è protagonista indiscusso, ogni poesia è un richiamo alla stagione dell’attesa nella quale il gorgogliare della vita riposa.

“Il ricorso all’espressione dialettale non è mai ornamento folkloristico, ma è strettamente collegato alla precisione del dire, tensione risolta efficacemente in un dettato poetico nitido, limpido, […]” ‒ dall’introduzione di Anna Maria Curci

Maria Pina Ciancio ci dona un affresco della Basilicata, un poemetto che omaggia gli abitanti di San Severino Lucano ‒ il luogo natìo della sua famiglia ‒ che la poetessa nata in Svizzera guarda con occhio antico per scorgere le peculiarità della millenaria cultura che ininterrottamente ‒ così come il ciclo delle stagioni ‒ si rinnova nella terra di Lucania.

“Dopo la guerra dell’inverno/ c’è chi parte e c’è chi resta/ (…)/ Gennaro e Vincenzino/ sillabano il tempo/ in anelli di fumo irregolare/ e aspettano i ritorni/ tra la ringhiera scorticata/ e i gerani smarriti al grande cielo”

Nella silloge si incontrano Gennaro, Vincenzino, zio Pietro, Mariuccia, Giacomino, Antonella, Vituccio, zia Marietta, un figlio nato muto, i vecchi con la schiena stanca, padre e figlio ad una cena, un cane a tre zampe, un gatto nero, bambini, rane e farfalle: ognuno di loro è interprete di un ricordo, di uno spettacolo rievocato affettuosamente in virtù del verso.

“Non fanno rumore i paesi d’inverno/ e il giorno e la notte/ passano zitti”

 

Maria Pina Ciancio, di origini lucane, è nata a Winterthur in Svizzera nel 1965. Ha lavorato per molti anni come insegnante a Chiaromonte in Basilicata, recentemente si è trasferita a Roma nella zona dei Castelli Romani. Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia alla narrativa e saggistica, vincendo importanti premi letterari. Ha fatto parte di diverse giurie letterarie ed è presente in svariati cataloghi e riviste di settore; dal 2007 è presidente dell’Associazione Culturale LucaniArt. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “Il gatto e la falena” (Premio Parola di Donna, 2003), “La ragazza con la valigia” (Ed. LietoColle, 2008), “Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro” (Fara Editore 2009), “Assolo per mia madre” (Edizioni L’Arca Felice, 2014), “Tre fili d’attesa” (Associazione Culturale LucaniArt 2022 con stampa dell'artista Stefania Lubatti), “D’Argilla e neve” (Ladolfi, 2023).

 

Written by Alessia Mocci

 

Info

Per maggiori informazioni clicca su Oubliette Magazine

https://oubliettemagazine.com/2023/12/28/tre-fili-dattesa-di-maria-pina-ciancio-non-fanno-rumore-i-paesi-dinverno/

 

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D’argilla e neve di Maria Pina Ciancio: una silloge che racconta la Basilicata



“Ritorno nella mia isola del sud/ A ogni chilometro che si riduce/ un’arrendevole quiete/ ferocemente si espande/ Ciò che temo di me/ è questa fragilità/ ogni volta rinnovata/ lo spavento dei nidi scoperchiati/ l’osso spolpato nella neve/ la riduzione già saputa/ della vita” ‒ Maria Pina Ciancio 

Abisso e quiete. 

Come può l’abisso che richiama un concetto comunemente considerato sfavorevole esser accostato alla quiete che, invece, evoca lo stato mentale che i più bramano ma che pochi hanno la possibilità di conoscere? Eppure l’abisso è connesso alla quiete, se la torre che si erge verso l’alto rappresenta simbolicamente la necessità umana di infinito, di luce e di silenzio; l’abisso non può che essere il suo corrispondente contrario, un pozzo che sprofonda verso l’interno, nell’oscurità del caos. Infatti, soltanto con l’attenta introspezione ‒ successiva all’immersione nel flusso ‒ il poeta trova una via unica, la propria.

Ciò avviene con la silloge “D’argilla e neve” (Giuliano Ladolfi Editore, 2023), titolo che propone il basso e l’alto, la terra ed il cielo, il pozzo e la torre. L’autrice, la poetessa lucana Maria Pina Ciancio, sin dall’incipit ‒ in una sorta di nota ‒, si confida con il lettore: “Questi versi nascono urgenti e necessari/ dentro i luoghi dell'appartenenza.”

“Avevo sette anni e un sogno:/ quello della terra rossa dentro al petto/ Arrivammo con la Calabro-Lucana ch’era maggio […]” 

La Lucania ‒ la Basilicata ‒ è il luogo di appartenenza; poco oltre nella lirica la ferrovia Calabro-Lucana viene contrapposta a “La Svizzera lontana”, il luogo di partenza. La condizione di essere figli di emigrati, di nascere in un Paese differente rispetto a quello della tradizione genitoriale crea un conflitto che dirige verso una prossimità desiderata ed innata ‒ la “terra rossa dentro il petto” ‒ trasmessa dagli stessi genitori che hanno scelto ‒ per urgenza e necessità ‒ la via dell’emigrazione. Questo aspetto di scontro/incontro culturale è sottolineato nella prefazione di Andrea Di Consoli: “Si parla della Svizzera, Paese dove entrambi abbiamo avuto la sorte di vivere in quanto figli di emigrati.”

“D’argilla e neve” è suddiviso in quattro parti: la prima dà il titolo alla silloge, segue “Andata e ritorno senza traccia”, “Il riparo della neve” e “Cinque poesie in dialetto lucano”, quest’ultimo compare in copertina come sottotitolo. Nella scelta del titolo e sottotitolo e nella composizione delle parti si intravede netta l’esigenza del cerchio che richiama ancora una volta la simbologia dell’abisso e della quiete, del pozzo e della torre, della ricerca interiore per assimilare la realtà esteriore: un percorso atto all’udir il canto per poi esplorare il foglio, grattandolo con la penna, sino all’istante in cui tutto tace.

“Insegnami la casa/ l’audacia del vento/ l’acqua del torrente che indugia tra i sassi/ […]”

Nei luoghi interiori la misura del tempo perde valore e la ricerca della propria identità, intesa sia come ricerca del Sé sia come riappropriazione delle proprie radici, diventa basilare. 

Nell’imago anche lo spazio, similmente al tempo, si dilata e “La Svizzera lontana” compare nuovamente ma in contrapposizione ad un’appartenenza materiale: “i pomodori già maturi dell’orto”. 

Il lettore, inoltre, scorgerà altre suggestioni con le quali confrontarsi: ricordi di infanzia ed affetti familiari (“P’m’ scippá stu mali i capi/ mamma meja jetta acqua e sale/ pa’ finestra/ e pu mi stringe u core/ […]” ‒ “Per strapparmi questo mal di testa/ mia madre getta acqua e sale/ dalla finestra/ e poi mi stringe il cuore/ […]”), la problematica dello spopolamento dei piccoli centri urbani non solo per il fenomeno dell’emigrazione ma anche per le crepe della terra (“[…] Quella che tiene e quella che frana e cede sotto i passi e spacca in due il paese e gli incroci troppo stretti della vita. Qui, sull’orlo slabbrato della crepa ho incontrato facce e sguardi che dicevano di affanni e di paure. Di abbandoni e silenzi millenari. […]”), il bisogno di tradizione in un mondo tecnologico che avanza repentino e spoglio della nozione di sincretismo (“[…] Tutto passa e accade come sempre/ come ogni sera/ la mollica masticata sulla panca/ il fuoco che si abbassa/ il fazzoletto largo stretto in testa/ la vita che si arrende al sonno e trema// […]”).

In chiusura Maria Pina Ciancio dedica “D’argilla e di neve” al padre “che in questo periodo di resistenza alla malattia/ ha ridato luce ai ricordi/ e alla memoria collettiva/ di un paese”. Un resistere donato alla figlia mentre cercava “impaziente una zolla da amare” nell’Altrove. 


Maria Pina Ciancio è nata a Winterthur in Svizzera nel 1965. Ha lavorato per svariati anni come insegnante a Chiaramonte in Basilicata, recentemente si è trasferita a Roma nella zona dei Castelli Romani. Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia alla narrativa e saggistica, vincendo importanti premi letterari. Ha fatto parte di diverse giurie letterarie ed è Presidente in svariati cataloghi e riviste di settore; dal 2007 è presidente dell’Associazione Culturale LucaniArt. Tra le sue pubblicazioni si ricorda: La mongolfiera azzurra (I fiori di campo, 2002); La ragazza con la valigia (LietoColle, 2008); Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro (Fara, 2009); Tre fili d’attesa (plaquette d’arte a cura dell’Associazione LucaniArt, 2022). 


Written by Alessia Mocci


Info

Sito autrice https://cianciomariapina.wordpress.com/

Sito LucaniArt https://lucaniart.wordpress.com/


Fonte 

https://oubliettemagazine.com/2023/07/25/dargilla-e-neve-di-maria-pina-ciancio-benigne-solitudini-in-terra-di-lucania/



Intervista di Alessia Mocci a Francesco Delvecchio: vi presentiamo “Cronache di un numero brillante”



“L’università sbagliata, il fidanzato sbagliato, gli amici sbagliati sono tutte tappe (non necessariamente obbligatorie, non mi azzarderei mai di dire questo) che alla fine vanno a influenzare, a cambiare le persone che siamo. Laura che queste cose le ha provate tutte lo sa bene, non a caso il titolo del romanzo inizia con “Cronache”.” ‒ Francesco Delvecchio 

“Cronache di un numero brillante” è stato pubblicato nel 2022 dalla casa editrice Albatros Il Filo, l’autore, Francesco Delvecchio, è originario e vive a Bari, città nella quale è ambientato il suo romanzo. 

Laura Milani, invece, è la protagonista di questa storia di crescita personale nella quale la giovane imparerà proprio grazie agli errori ed agli incidenti di percorso che, solitamente, si hanno nella vita. Una scelta sbagliata, talvolta, può mostrandosi fallimentare aprire una strada mai presa in considerazione prima. 

“Era una perdita di tempo, minuto dopo minuto Laura realizzava che la sua permanenza in quell’aula grande per studiare qualcosa che non le piaceva, che non le interessava minimamente, stava diventando straziante.” ‒ incipit del romanzo 

L’autore, Francesco Delvecchio, si è reso disponibile per svelare qualche retroscena del romanzo. Buona lettura!


A.M.: Ciao Francesco, ti ringrazio per aver accettato questa intervista così da raccontare qualcosa in più del tuo romanzo “Cronache di un numero brillante”. Innanzitutto potremo fermarci un po’ sul titolo del libro e sulla sua genesi. 

Francesco Delvecchio: Ciao Alessia. Questa effettivamente è una domanda che in diversi mi hanno rivolto. Il titolo “Cronache di un numero brillante”, se vogliamo, è stato più difficile da concepire rispetto all’intero romanzo. Partiamo però dalle origini. La storia di Laura (la protagonista del libro) mi è venuta in mente circa due anni e mezzo fa, l’ho fatta crescere ed evolvere nella mia mente prima di metterla nero su bianco. Laura è una ragazza come tante, con i dubbi, le incertezze e le fragilità che possono caratterizzare una persona a vent’anni. Timorosa del parere degli altri, ha sempre deciso di seguire i consigli di suo padre mettendo da parte le proprie ambizioni e desideri, non credendoci più, ormai, nemmeno lei. Arriva però un giorno in cui viene chiamata a fare un colloquio presso uno dei negozi d’abbigliamento più famosi del mondo, Gonzales. Dal momento in cui viene assunta si ritrova a vivere una serie di vicissitudini e vicende che la trasformeranno, le faranno vivere una sorta di metamorfosi interiore. Amici, nemici, ragazzi, clienti e colleghi trasporteranno lei e il lettore in un microcosmo folle e sempre in movimento. La sua storia è un derivato di diverse esperienze che ho voluto mettere insieme e che hanno dato vita alla storia narrata nel libro. Nei ritagli di tempo mi sono dedicato a costruire le schede personaggi e i vari intrecci, è stato intenso, mi sono riscoperto a sorridere e ad innervosirmi in determinati punti, è stato come rivivere una seconda volta alcuni episodi. Ho vissuto un periodo di frustrazione personale che mi ha portato a riversare le energie sul manoscritto, abbattermi non è mai stato il mio forte, e ad un certo punto ho pensato solo a scrivere, scrivere e scrivere. Ho scritto in poco meno di sei mesi, interi capitoli che mi hanno portato a terminarlo, scrivere l’ultima pagina è stato emozionante, è stato come chiudere effettivamente un capitolo della mia vita. 

Tornando al titolo, invece, è arrivato qualche settimana dopo, pensavo a varie combinazioni di parole che potessero formare una frase o anche una parola che mettessero al centro l’esperienza della protagonista o la sua vita ed ecco poi l’intuizione. Tanti anni fa un responsabile che ha lavorato con me mi disse una frase, un qualcosa che mi aprì gli occhi su una vicenda del passato appunto, e la frase era: “… puoi essere bravo quanto vuoi ma deve esserci qualcuno pronto a credere in te affinché tu possa andare avanti… Siamo solo dei numeri: sta a noi brillare.”

All’inizio questa frase non fu di grande effetto, non mi portò ad un’immediata riflessione che mi permise di cambiare la mia vita professionale in meglio. Col tempo, però, capì cosa volesse dirmi. L’impegno, la passione e la determinazione hanno molta importanza in tutto ciò che facciamo e in determinati ambienti è ancora più importante far spiccare queste qualità se vogliamo davvero far notare il nostro sforzo. “Brillare” non significa solo avere l’appoggio di qualcuno (anche se alle volte è necessario) ma significa prima di tutto investire su noi stessi in ciò che si crede e si fa. Quindi il titolo, se vogliamo, è una sorta di riassunto della storia stessa della nostra protagonista, Laura Milani, un numero brillante e la sua avventura.



A.M.: La prefazione del romanzo porta la firma di Barbara Alberti. Sull’incipit si menziona la ricerca dell’antropologo inglese Robin Ian Dundar sul numero di amici di ogni essere umano. Sin dall’antichità questa ricerca ha appassionato gli studiosi, ricordiamo, a tal proposito, la teoria condivisa da Ippocrate, Democrito ed Epicuro secondo la quale due sono gli amici, quattro i nemici ed innumerevoli i neutrali. Ritieni fosse troppo limitata oppure riscontri che, anche nel tuo romanzo, ci sia una simile proporzione? 

Francesco Delvecchio: Quando la mia casa editrice, Albatros il filo, mi disse che la prefazione sarebbe stata scritta da Barbara Alberti non potei essere più felice. La lessi e la prima reazione che ebbi fu di sorpresa, fui sorpreso dall’argomento perché mi riguarda molto. Per me l’amicizia ha un’importanza che va oltre le parole, è inestimabile. Infatti ci ho tenuto fortemente a ringraziarli con una dedica in prima pagina per essere, appunto, i fautori di molti dei miei sorrisi. Gli amici sono le persone che costituiscono quella famiglia che in un certo senso ci scegliamo, sono quelle persone a cui affidi i tuoi segreti, i tuoi malumori e le tue gioie. Quanto siamo felici nel raccontare un evento positivo che ci riguarda ad un amico? Io personalmente non vedo l’ora di farlo. Quindi posso dirmi assolutamente d’accordo, anche se non sono uno studioso di tale materia, con la teoria su citata. Sin dalle prime pagine si può notare l’impatto che gli amici hanno sulla vita della protagonista. Nel corso del romanzo, inoltre, trova due amici che saranno molto importanti nelle vicende della sua storia, Daniele e Clara, due rocce su cui fare affidamento nei momenti più bui. Purtroppo però si scontrerà anche con diversi personaggi che si riveleranno ingiusti, sleali e poco educati. Una fra tutti è Caterina. Caterina, più grande di Laura, quasi coetanea di sua madre, è forse il primo “problema” che Laura incontra nel romanzo. Una donna arrogante e irrispettosa che renderà difficile la sua permanenza all’interno del negozio. Mi piacerebbe citare, a tal proposito, un estratto di una “conversazione tipo” fra le due:

“Come, per esempio, quando Caterina decise di mettersi in mostra davanti a una cliente mancando di rispetto alla collega.

«Laura rapida vedi lì… Muoviti» Quelle parole furono accompagnate da un gesto, quasi un’indicazione verso un punto del camerino. Laura non capiva cosa le stesse chiedendo.

«Perdonami Caterina, ma lì cosa? Non capisco.»

«Vedi quanta polvere, passa lo swiffer muoviti. Rapida.» La cliente che stava seguendo la donna abbassò lo sguardo un po' imbarazzata per i modi utilizzati nei confronti della ragazza. Laura però invece di restarci male decise di rispondere, era stufa.

«Caterina credo che tu sappia farlo anche da sola. Sai dove si trova il panno. Alla signora ci penso io, del resto sono pur sempre una personal shopper per l’azienda.»

Caterina era nera, probabilmente avrebbe picchiato Laura con una gruccia dato quello che le aveva detto.”

Non sempre è facile gestire momenti di questo genere, ma questo è anche un punto che segna la maturità di Laura nei confronti delle reazioni e dei rapporti a lavoro. Tornando alla teoria citata nella domanda, dove si parla dei neutrali, fra le tre categorie (amici, nemici e neutrali) trovo che siano in un certo senso i più dannosi. Perché sono coloro che non prenderanno mai una posizione nei tuoi confronti o nei confronti di un tuo nemico, non saprai mai che cosa pensano realmente di te. Basti pensare che il primo gruppo di amici di Laura scompare dalla sua vita senza farsi più sentire, i cosiddetti neutrali che avrebbero quantomeno potuto spendere una parola o un gesto per lei o la sua situazione. Io sono convinto di una cosa, ovvero, che tutte le persone presenti nella nostra vita in un certo qual senso siano presenti per un motivo, qualsiasi ruolo possano ricoprire, sta a noi prenderne il meglio. Laura per lo meno cercherà di farlo.



A.M.: Bari la si incontra sin dalla copertina. Com’è il tuo rapporto con questa città? 

Francesco Delvecchio: Come hai detto è possibile ammirare Bari già dalla copertina, il teatro Margherita sullo sfondo infatti è uno dei simboli più importanti e riconoscibili della città, ma prima di parlare della copertina vorrei esplicare al meglio l’importanza che ha per me la mia città natale. Come è possibile intendere io sono molto legato ad essa.

In passato, da ragazzino, non facevo altro che pensarmi in un luogo diverso da Bari, tipo che avrei trovato lavoro a Milano, Roma o Londra addirittura, così non è stato perché con il tempo ho imparato ad amarla, ho imparato ad avere rispetto per le mie origini. Vivere a due passi dal mare, in estate sembra di stare in California con i palazzi che si affacciano sulle spiagge, è possibile sentire l’odore della salsedine addirittura in pieno centro. Oppure la tradizione delle “orecchiette” e delle “sgagliozze” fatte con le mani delle anziane del borgo antico proprio sulla soglia delle loro case, non ha prezzo perché anche se sembra anacronistico esistono giovani interessati a questa forma di arte e ad ammirarle vengono praticamente da tutto il mondo. Le nostre città rappresentano, come la nostra famiglia, le nostre radici e quindi non ho trovato giusto abbandonarla per un qualcosa che si presentava come “migliore” solo perché l’immaginario collettivo ci porta a pensare a questo molto spesso. A Bari ho tutta la mia vita, e anche se mi definisco un buon viaggiatore perché adoro farlo, adoro altrettanto il momento del ritorno. Molti potrebbero pensare che rimanga qui per pigrizia o perché è più facile barricarsi nella cosiddetta “comfort zone”. Può essere anche vera la seconda ma per farlo bisogna prima trovarla questa benedetta “comfort zone”. Ma ora veniamo alla copertina, realizzata da SWITCH ON comunicazione e media. Avevo consegnato il manoscritto alla casa editrice, non sapevo ancora quali idee mi avrebbe proposto per la copertina anche se una già ben definita mi ronzava in testa. Lavorando in un negozio d’abbigliamento, nel reparto donna, in una multinazionale proprio come quella dove lavora Laura, si ha la possibilità di conoscere una miriade di persone. Con molte ci si limita ad un saluto con altre invece addirittura ci si raccontano fatti della propria vita che solitamente si tende a tenere per sé. Un giorno entrò la signora Regina (colgo l’occasione per salutarla e ringraziarla ancora), l’aiuto spesso a cercare i capi che desidera all’interno del negozio oppure mi fermo a parlare del più e del meno, anche se non conoscevo nulla di lei come per esempio che lavoro facesse. Ricordo ancora quel pomeriggio in cui le ho raccontato del mio libro e lei senza pensarci due volte mi propose di realizzare quella che è la copertina attuale. Mi chiese se avessi idee e una di queste fu che ci dovesse essere assolutamente Bari sullo sfondo. Così è stato, ha realizzato, insieme ai professionisti che lavorano nel suo studio, la copertina esattamente così come me la immaginavo. Sono molto orgoglioso perché ogni volta che mi soffermo a guardare quell’immagine mi accorgo che non potevo chiedere di meglio.




A.M.: “Cronache di un numero brillante” è scandito da capitoli che hanno come titolo la data precisa degli eventi che il lettore andrà a leggere, si susseguono così i mesi da giugno 2012 a settembre 2013. Perché hai scelto il 2012/2013 per raccontare la storia della protagonista Laura Milani? 

Francesco Delvecchio: Volevo dare l’idea al lettore di come scorre il tempo all’interno del romanzo, oltre che scandirlo con i cambiamenti che andranno a caratterizzare la protagonista (anche estetici) ho voluto inserire una sorta di time-line. Molti mi hanno chiesto come mai sei partito dal 2012? Per me quel biennio, 2012/2013, ha segnato un punto di svolta, da adolescente sono diventato uomo sia anagraficamente che interiormente. Proprio come Laura. Ho lasciato la spensieratezza del periodo adolescenziale, il cui unico pensiero era lo studio (premetto che per me a 19 anni l’università richiedeva impegno e dedizione quindi non è solo un pensiero ma è una vera e propria responsabilità verso se stessi) per approcciarmi al mondo del lavoro, probabilmente non ero pronto a quel tipo di responsabilità accademica. Inoltre trovo interessante quel biennio perché, molto tempo dopo, mi sono accorto che ha segnato un cambiamento della società, per come la conosciamo oggi. All’epoca molti utilizzavano i “Nokia” (proprio come Laura), i telefoni con le testiere fatte di soli numeri, gli smartphone sono arrivati in contemporanea, quindi c’è stato una sorta di contrappasso che ha segnato sicuramente anche il modo di vedere il mondo. Un piccolo mezzo che ci dà la possibilità di comunicare, di cercare l’amore, di viaggiare, di metterci in contatto tramite i social. Il social prima lo usavamo nei momenti liberi quando tornavamo a casa, dopo il lavoro o dopo le uscite serali, ora nei momenti liberi (ammesso che ci siano) cerchiamo di dedicarci alle persone. Sì, si è capovolto il mondo, il modo di socializzare. Ho voluto raccontare all’interno del mio libro questo cambiamento perché lo trovo davvero un fattore caratterizzante di quel periodo e di una generazione che è cambiata senza accorgersene. Laura non aveva la benché minima curiosità nell’usare uno smartphone, le bastava mandare un SMS per essere in contatto con i suoi amici. Follia, un SMS probabilmente molti non sanno nemmeno cosa sia. Sembra strano dirlo, mi sento come mio padre mentre mi racconta degli anni ‘70 o ‘80 e di come ci si divertiva con poco. I cambiamenti però non vengono mai per nuocere, lo dico sempre, basta solo saperli prendere e farli nostri. Magari oggi vediamo la tecnologia come un mezzo che ci tiene distanti, io la vedo come un modo invece per tenermi sempre in contatto con chi magari non posso vedere per via delle distanze. Anche se non deve essere un deterrente da preferire a chi ci circonda.



A.M.: Ogni scrittore immette nei fogli qualcosa di sé, eventi che hanno segnato la vita o semplici passioni. Ad esempio Fernando Pessoa ha creato un vero e proprio mondo popolato dai suoi eteronimi. Leggendo la tua biografia non si può non restare colpiti dalle “coincidenze” fra te e Laura. La protagonista è una sorta di tuo alter ego letterario? 

Francesco Delvecchio: Beh effettivamente solo un occhio parecchio attento può notare il legame tra Laura e la mia biografia. Scherzo, però ci tengo a dire che Laura non è Francesco Delvecchio. Sicuramente ha molto di me, perfino alcune esperienze sono uguali alle mie per esempio: come Laura ricordo ancora il grido di paura della mia collega che si propaga, grazie all’interfono, in tutto il negozio a seguito dell’assurda caduta di una bambina dal secondo piano dello stesso. Oppure ricordo ancora la frenesia che animava il negozio e che mi caricava per il turno che stavo per iniziare. Però Laura ha sviluppato nel romanzo una vita propria, fatta di scelte differenti dalle mie per alcuni aspetti. Trovo che lei sia una ragazza coraggiosa seppur apparentemente fragile, io sto imparando da lei per certi punti di vista. Di base però effettivamente il suo personaggio mi appartiene particolarmente dall’università abbandonata alla passione per la moda fino ad arrivare all’amore per la scrittura. Non è stato molto semplice scrivere di lei. Comunque riprendendo Fernando Pessoa lui ha creato un mondo di eteronimi, proprio come dici tu ed infatti in questo romanzo c’è molto di me ma non solo in Laura ma in quasi tutti i personaggi. Nel modo di fare sono un po’ Sergio e un po’ Daniele anche se i due sono molto diversi fra loro, parte della frustrazione di Carlo e Laura l’hanno ereditata da me oppure il modo di vedere l’amicizia come fanno Clara o Laura, selettiva, anche quella è una mia peculiarità. Tutti però hanno in comune una caratteristica che se vogliamo li accomuna, ovvero, il modo di affrontare le cose. Trovo che abbatterci sia fisiologico in alcuni momenti, solo che non deve essere uno status ma un momento di riflessione. Si di riflessione con noi stessi, riorganizzarsi e rimetterci su una strada alternativa per continuare dritti verso ciò che davvero si vuole. Quindi ammetto che questa fra tutte le caratteristiche che ho donato ai miei personaggi è quella che mi rende più orgoglioso.



A.M.: Nel tuo sito personale si legge in maiuscolo il motto: “Vivi la tua vita sempre come vuoi, con libertà e con audacia, anziché farla vivere agli altri”. Laura l’ha dovuto imparare con una dura battaglia ma non sempre le persone accettano di “conoscersi”. Qual è il motivo? 

Francesco Delvecchio: Hai ragione, hai detto bene, non sempre le persone accettano di conoscersi. Laura inizialmente è l’ombra di se stessa se vogliamo, trova più semplice dire “sì va bene lo faccio, faccio come vuoi tu” piuttosto che prendere una decisione per se stessa. Il motivo? Probabilmente uno dei motivi potrebbe essere la paura di osare, di sbagliare, insomma di fare quell’errore che crede irrimediabile. In un vecchio film con Hilary Duff, ad un certo punto, appare una frase su un muro che recita: “Non lasciare mai che la paura di perdere ti impedisca di partecipare”.

Quanti di noi compiono questo errore? Ma soprattutto, quanto tempo ci mettiamo prima di mettere in pratica il concetto di questa frase che alla fine sembra solo una frase fatta, una frase ad effetto? Beh ognuno ha i propri tempi, è la risposta che mi sento di dare. Laura, per esempio, ci è arrivata dopo aver preso un sacco di batoste da “amici”, uomini e perché no anche colleghi. Le sue avventure alla fine sono propedeutiche, se vogliamo, alla formazione di quello che sarà il suo nuovo punto di vista, il modo in cui inizierà ad affrontare le vicende e le vicissitudini che la riguardano. L’università sbagliata, il fidanzato sbagliato, gli amici sbagliati sono tutte tappe (non necessariamente obbligatorie, non mi azzarderei mai di dire questo) che alla fine vanno a influenzare, a cambiare le persone che siamo. Laura che queste cose le ha provate tutte lo sa bene, non a caso il titolo del romanzo inizia con “Cronache”. Una semplice esperienza come può anche essere un viaggio da soli ci può segnare in modi che nemmeno ci aspettiamo. E per ricollegarmi alla frase che hai citato nella domanda, quella che rappresenta l’insegna del mio blog, ci tengo a sottolineare che vivere la propria vita non deve essere solo un atto di coraggio, ma anche un gesto di libertà e di rispetto a quella vita che infondo ci siamo guadagnati.



A.M.: Riporto un estratto dal libro: “«Mio padre non è molto tollerante, non tollera i ragazzi effemminati, i ragazzi che fanno cose da donna, i gay. Capisci bene quindi che per me è parecchio difficile dirgli come sono.» Trasse un sospiro, volgendo nuovamente lo sguardo all’amica. «Mia madre è mia madre, sono sicuro lo sappia, mi fa sentire a mio agio. Nemmeno a lei ho avuto il coraggio di dirlo però. Non ho voluto caricarla di un peso da tenere per sé.»” Un breve dialogo fra Daniele e Laura che rispecchia perfettamente il timore di molti ragazzi (e ragazze) per la cosiddetta confessione dell’orientamento sessuale ai propri genitori. Ricordando che il romanzo è ambientato nel 2012, secondo te, oggi qualcosa è cambiato oppure non ci si è mossi dalla preoccupazione di poter ferire i genitori? Prima della tua risposta devo elogiare la profondità del tuo ragionamento nel sottolineare il modo in cui Daniele preserva la madre dall’incombenza di venire a conoscenza di una confidenza (un segreto che conosce già ma di cui non si è parlato) che potrebbe mettere in difficoltà il rapporto di coppia con il padre. 

Francesco Delvecchio: Che dire?! Questo è uno dei miei capitoli preferiti. La referente della mia casa editrice (Albatros il filo) lo ha definito una “pausa nella trama”, trovandolo interessante, io invece lo definirei come “un momento essenziale” nella storia dei protagonisti. Sì, perché fondamentale qui Laura capisce che anche un ragazzo così “libero” e senza peli sulla lingua, come Daniele, abbia delle difficoltà ad esprimersi per di più con i suoi genitori che dovrebbero essere il suo porto sicuro. Daniele invece “forte”, allegro e di carattere (l’opposto di Laura, tranne per l’essere allegro) si ritrova a mostrare la sua parte più fragile, il suo tallone d’Achille, la sua vita vissuta a metà. Nel 1800 come nel 1900 e come anche nel 2000 i ragazzi e le ragazze che sentono di avere un orientamento sessuale diverso da quello che solitamente si definisce “tradizionale” o “normale” tendono a tacerlo soprattutto negli ambienti intimi come le amicizie strette e soprattutto le famiglie. Si è vero negli anni 2000 si è fatto passi da gigante ma lo stigma esiste ancora, purtroppo aggiungerei. Una persona non riesce a fare quell’“agognato” e probabilmente necessario coming out per svariati motivi. Uno può essere sicuramente la paura di far mutare il rapporto che si ha con le persone più care, amici e parenti appunto, di essere visti in modo differente seppur “accettati”. È difficile da spiegare ma un genitore in molti casi, dopo una rivelazione del genere, cambia la visione che ha del proprio figlio o figlia, la/o vede più fragile, da proteggere dalle “avversità del mondo etero e bigotto”. Ma un figlio o una figlia non chiede questo, non chiede compassione, non chiede protezione, chiede solo “normalità”, la stessa che c’era prima di dirlo. Un altro dei motivi invece, come nel caso di Daniele, è quello che riguarda la preservazione del rapporto famigliare. Sì. perché molto spesso si hanno genitori di ampie vedute (come sua madre) e genitori con vedute più ristrette (come suo padre) e si crede che dirlo possa rappresentare l’inizio di diatribe famigliari, nate a causa di questo modo di essere, quindi si preferisce fare silenzio, omettere. Una persona omosessuale preferisce, oggi, il più delle volte, rendersi spontaneo di fronte agli estranei senza creare quella rete di bugie e omissioni che si è costretti (da sé stessi o dal contesto in cui si vive) a tenere in piedi piuttosto che dirlo in casa, almeno non si rovinano le aspettative e si dà vita ad un rapporto limpido, senza ombre e segreti. Prima ho detto che anche con gli amici si tende a tenere il segreto, soprattutto con quelli stretti, con quelli che fanno finta di non saperlo. Il motivo? Perché fanno finta di non saperlo! Alle volte il tacito assenso non fa altro che provocare lassismo nella persona in questione (dico persona perché non solo i ragazzi/e hanno queste difficoltà) e quindi è meglio lasciare il rapporto così com’è, a metà. Non esistono dei momenti per dirlo, esiste solo l’accettazione di se stessi che renderà naturale farlo. Per questo mi sento di dire assolutamente che accettarsi e volersi bene è il primo passo per non vivere più a metà, per vivere liberi. Questo momento può arrivare all’improvviso o anche dopo l’aiuto di chi davvero sa ascoltare senza far aprire bocca, in questo Laura è stata formidabile.



A.M.: Hai ricevuto qualche critica costruttiva dai tuoi lettori su uno o più personaggi secondari a cui avresti dovuto dare più spazio?

Francesco Delvecchio: A dire il vero sì. Una delle recensioni che più mi ha colpito è stato da parte di una ragazza che si è rivista nel personaggio di Laura, nelle sue difficoltà e nelle decisioni non prese. Mi ha detto di essersi commossa addirittura. Io credo che arrivare al cuore anche di una sola persona sia il traguardo più bello e unico che uno scrittore, un cantante, un attore, un artista in generale possa mai raggiungere. C’è chi ha ammirato la figura di Marianna “la Tedesca” per il suo essere così sicura, autorevole e indomita. C’è chi mi ha scritto per dirmi: “quanto vorrei un’amica come Stella da tenere sul comodino di casa, sempre pronta a consolarmi col suo fare materno”. Anche la cattiveria e le maniere poco carine di Caterina non sono passate inosservate: “… ho una Caterina uguale anche io a lavoro, la mia solidarietà a Laura.”.

Qualcuno mi ha detto che non ho dato molto spazio alla storia di Daniele, di non aver approfondito a dovere la sua situazione. Io ho accettato questa critica ma al contempo ho risposto semplicemente che questa non è la storia di Daniele, ma che probabilmente un giorno la potrei affrontare più dettagliatamente e più in profondità. C’è chi ha ritenuto troppo perfetto Sergio per essere vero. Posso assicurare che ho avuto il bellissimo piacere di conoscere persone anche come lui, quindi posso affermare che esistono. Molti personaggi hanno dei caratteri e delle storie alle spalle che li rendono “da scoprire” e magari è proprio questo quello che volevo, che non ci si affezionasse solo a Laura, ma anche a tutto il contesto di questi ultimi che la circonda, di quelli che animano il microcosmo di “Cronache di un numero brillante”.

Io credo che i personaggi migliori, in generale, siano quelli che prendono le sembianze delle persone per le quali proviamo un qualsiasi sentimento, che possa essere, rabbia, stima, odio, amore o semplice affetto. L’ispirazione che ci dà una persona è da tenere sempre preziosamente conservata, a prescindere da quale sia il sentimento.



A.M.: Hai in programma delle presentazioni del libro nei prossimi mesi tra primavera ed estate? Se sì, dove potremo seguire le date? 

Francesco Delvecchio: Ho qualcosa in mente, ma sicuramente lo renderò pubblico quando sarà più concreto, e per questo consiglio di visitare il mio sito nel quale poter seguire gli sviluppi e le novità di Cronache di un numero brillante (troverete tutti i social in cui sono presente, Instagram, Facebook, Tik Tok, Twitter).

Comunque sia questo percorso è iniziato con una prima presentazione il 31 febbraio 2023 alla Feltrinelli di Bari. La cosa che mi ha emozionato più di tutte era vedere, sicuramente amici e parenti accalcarsi per ascoltarmi, ma soprattutto cogliere l’interesse di passanti, di estranei che occupavano le poche sedie rimaste vuote per sapere di più sul mio romanzo. Quella serata, quella prima volta, la posso descrivere con una sola parola, incredibile. Il relatore inoltre, Francesco Valente, mi ha aiutato a rendere magico quel momento, non potevo chiedere di meglio. Poi è arrivato il 19 maggio 2023 data in cui ho partecipato al Salone del libro di Torino. Il mio primo Salone del libro, per di più come autore, indimenticabile. Un’esperienza unica, sono convinto che almeno una volta nella vita ci si debba andare anche se non si è dei grandi lettori. Andarci significa vivere una vera e propria esperienza. Mi ricordo ancora il momento in cui ho varcato quei cancelli e in cui ho trovato sullo stand della casa editrice, con cui ho pubblicato, il mio libro esposto in bella mostra. È assurdo per me pensare come sia stato possibile l’avverarsi di un tale sogno. Continuerò sicuramente a portare in giro la storia di Laura, a raccontare di lei e del suo pazzo mondo, quindi vi invito con gioia a seguire tutti gli sviluppi di questo percorso appena iniziato.



A.M.: Ci puoi anticipare qualcosa riguardo alle tue future pubblicazioni? Stai scrivendo una nuova storia oppure è già terminata e chiusa in un cassetto? 

Francesco Delvecchio: A questa domanda mi fa sempre piacere rispondere. Sì c’è un piccolo progetto nel cassetto che sto iniziando a mettere in moto, la scrittura non l’ho mai messa da parte, anzi quando posso cerco di articolare quest’ultimo sempre al meglio. In questo momento, però, sto dedicando le mie energie a “Cronache di un numero brillante”, una creatura appena nata che sta iniziando a mettere i suoi primi passi al mondo, quindi per il momento sentirete parlare solo di Laura Milani.



A.M.: Salutiamoci con una citazione… 

Francesco Delvecchio: Per rimanere in tema con la storia di Laura e l’insegna del mio blog nessuna citazione è più giusta di questa di Oscar Wilde: “La vita è troppo breve per sprecarla a realizzare i sogni degli altri.”



A.M.: Francesco ti ringrazio per aver dedicato così tanta cura nelle tue risposte, si nota la tua passione e la sincerità nella condivisione delle tue scelte di vita. Invito i lettori a conoscerti meglio attraverso il tuo sito web e social media e saluto prendendo in prestito le parole di Carl Gustav Jung: “Pensare è molto difficile. Per questo la maggior parte della gente giudica. La riflessione richiede tempo, perciò chi riflette già per questo non ha modo di esprimere continuamente giudizi.”




Written by Alessia Mocci


Info

Visita il sito di Francesco Delvecchio 

https://www.francescodelvecchio.com/



Fonte

https://oubliettemagazine.com/2023/05/31/intervista-di-alessia-mocci-a-francesco-delvecchio-vi-presentiamo-cronache-di-un-numero-brillante/


I backlink nella Seo, pregi e difetti

Sappiamo tutti quanto sia essenziale posizionare il nostro sito web in alto nei risultati di ricerca per ottenere più traffico e visibilità. Ecco perché i backlink giocano un ruolo cruciale in questo processo.
I backlink sono semplicemente link che puntano da altri siti web al tuo. Ma perché sono così importanti?
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Ora che comprendi l'importanza dei backlink nella SEO, come puoi ottenerli?
Ecco alcuni suggerimenti:
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Il peso del dubbio… in Federico Li Calzi permane (?)

 


È una prosa che sconfina nella poesia.

Il periodare – di una qualità ricercata – viene come accarezzato/pennellato dall’uso di un lessico che incolla il lettore in ciascuna pagina nella certezza di assaporarne gli intrecci variegati e s-coprirne i misteri di una certa sicilianità che convive col coraggio e la consapevolezza della paura.

Il ‘dubbio’ si fa ‘peso’ quando gli effetti del proprio operato coinvolgono altri che nel loro sacro diritto ad una vita serena si ritrovano ‘perseguitati’ da chi ha scelto la criminalità e non vuole pagarne le conseguenze.

Per motivi diversi, pertanto, una famiglia integerrima che sceglie la ‘giustizia’ come professione e come habitus mentale è costretta alla difesa da poteri occulti che vedono oltre le apparenze e possono colpire come e quando vogliono.

Nel romanzo si ripercorrono gli anni che hanno visto la Sicilia nel mirino della mafia. Il Giudice di Cassazione Ruggero padre di Giulio è l’emblema di una condizione in cui fare il proprio dovere, servire lo Stato è accettare l’idea che dovrà combattere in prima persona un nemico invisibile che lo porterà a tagliare i rapporti col figlio e la stessa moglie Silvia per garantire – nei limiti del possibile – la sicurezza.

Giulio, privato del conforto del padre andato via per un mese – leggasi a tempo indeterminato – inizia ad intessere la sua vita a partire dalla campagna simbolo di libertà ma in quel caso anche di solitudine forzata.

È in quella campagna che incontra Jaco col quale impara l’innesto. Che non è semplice nemmeno per uno come lui che non si arrende ai molteplici tentativi. Innestare la propria idea di mondo a partire da Jaco – figlio di una società contadina che nulla aveva a che fare con quegli anni di morti ammazzati ed in avanti di stragi – non era semplice, perché il ‘nodo’ era rappresentato soprattutto da un padre che c’era in parte sì e nella maggior parte no.

Ed è qui che prende forma la scelta di vita di Giulio: abbracciare l’educazione paterna ed essere magari più incisivo del padre. La sua carriera politica va verso questa direzione sino a prendere le redini della Presidenza del Consiglio.

Sembra che il tutto prenda la ‘giusta piega’, ma è davvero così? Quando ha influito l’attività del padre sulla vita della famiglia e in primis del figlio? Il complesso mondo dell’adultità di Giulio è dipendente dalle scelte del padre o ha a che fare con le decisioni di un figlio alla ricerca di un amore (infantile) non goduto a sufficienza?

Le donne quale peso hanno avuto nelle sue mancanze affettive?

E poi quanto c’è di autobiografico nel romanzo?

Con queste domande spero di avere dato un buon motivo ai lettori per avvicinarsi al romanzo Il peso del dubbio di Federico Li Calzi edito da Medinova.

Recensione di Angelo Vita

 

Fonte: https://oubliettemagazine.com/2023/04/22/il-peso-del-dubbio-di-federico-li-calzi-una-prosa-che-sconfina-nella-poesia/

 

La figura della madre in poesia: Delle madri, libro di Marina Minet

“[…] Sbiadisco le sembianze – l’istinto è quasi infermo/ le attese della sera già scemano sul volto/ fermando un altro inverno come istante/ Ancora sono madre/ lo dico ad ogni passo, mentendo al mio calcagno/ con le domande uccise/ e i batticuori sepolti nella schiena// […]” – “Ancora sono madre”

“Delle madri”, raccolta della poetessa Marina Minet, è un prodotto artigianale di alta qualità ed edito nel 2015 su carte pregiate da Edizioni L’Arca Felice. Cinquantasettesimo titolo della collana “Coincidenze”, curata da Mario Fresa, è stato pubblicato in 199 esemplari numerati. Le illustrazioni presenti portano la firma del pittore Roberto Matarazzo.

“Delle madri” è strutturato in due parti, nella prima troviamo le liriche: Il grembo prodigioso, Madri, Mancanze, Mi hanno sottratto un nome, Sigillo, Leghe, Onde, C’è un pezzo di carne in ogni cosa, Del respiro, Ancora sono madre, Colori imperfetti, Di Figlio; nella seconda: Alle tue mani, Eri tu, Il nervo che ci scalda, Del perdono, Neve a Settembre, L’incendiaria cognizione (disincanto), Lascia che sia, Anche le querce oscillano talvolta, Di Madre, Prima di partire, Epilogo, Ciò che non dimentico. La silloge si apre con L’amore dentro e oltre l’imperfezione, prefazione della poetessa Maria Pina Ciancio, e termina con due Note finali a firma di Mario Fresa e Pierino Gallo.

Ancora sono madre/ In questa scelta, spogliandomi le ossa/ conservo questo credo come coperta illesa/ Sotto la nebbia, stordendomi le mani/ somiglio appena al vento che incide le montagne/ Oltre l’ignoto, che al dubbio m’impaurisce/ non cedo l’illusione e penso ancora/ ai nastri che ho intrecciato/ pesando il pane insieme alle mie colpe// […]” – “Ancora sono madre”

Come suggerisce il titolo, Marina Minet tende ed intende trattare il tema della maternità ristabilendo una connessione con un vicino passato, se ragionato attraverso la linea temporale, ma di così atavica memoria da esser oggi inserito nel rituale della mitologia. Così appaiono le madri che, nell’azione di pesare il pane, si sporgono verso il ricordo della creazione dei cestini con i nastri intrecciati bilanciando le mancanze come i peccati che hanno solcato i giorni. L’anima – πνεῦμα – esente dalla materia somiglia al vento che vaga oltre l’ignoto senza cedere all’illusione perché intenta nel gesto antico del pane. Simbolo del nutrimento fisico e spirituale, il pane è presente in altri tre versi di differenti canti accostato al silenzio, all’essere ed alla comunione: “col silenzio accanto al pane”, “in fondo siamo pane”, “il vino e il pane, in comunione”.

Tatto, battito, canto, senso, artiglio, angoscia, cuore e nome: la madre descritta da Marina Minet è in equilibrio tra la gioia del generare ed il patimento dato dall’estenuante ricerca del senso stesso della vita. Contrappeso che trasporta in riflessioni gravi e gravide di parole quali destino e sfortuna: “[…] Non so se sia dei luoghi/ la causa del destino/ o se sia il sangue, la fonte dei lamenti/ che ci portiamo dentro senza nome/ come sfortune incolte/ Oppure se dovunque sia del sé/ la scelta d’ogni singolo paesaggio/ che attraversiamo nudi/ fino a sfinirci gli anni// […]” (“Alle tue mani”). Parole nelle quali la madre è presentata con le due contrastanti immagini della fortezza da espugnare e del grano che, libero, oscilla, come se la mente – l’atto del parlare – fosse quella guerra atta alla conquista mentre il gesto – l’atto del cogliere – fosse la pace atta alla semplicità.

Maria Pina Ciancio sottolinea nella prefazione: “Vibra in questi versi l’esaltazione della maternità (“il grembo prodigioso”), delle sue fasi e dei suoi mutamenti, l’amore verso i figli e viceversa. Un amore primordiale e viscerale carico di infinite sfumature e mutamenti, che mette a nudo tutta la forza espressiva e l’originalità stilistica della sua poesia. La capacità di ascoltare voci e silenzi (fuori e dentro di sé) e di tracciare attraverso i versi, mappe illuminanti e folgoranti di pensiero.”

La Sardegna non è palesata in alcuna lirica eppure la presenza è avvertita dai lettori che ne hanno avuto conoscenza, esperienza. Marina Minet cela e disvela l’isola inserendola nel dialogo come figura di madre: “[…] La fierezza uguale ai gigli/ è l’esempio che mi hai dato/ sorvegliando il mio respiro e l’orizzonte/ mentre il mare ti scalfiva le ferite/ canzonando la speranza ch’era il cielo// […](“Eri tu”), versi in cui l’immagine percorre l’estesa spiaggia di Sorso – paese d’origine della poetessa – nella quale si può ammirare una distesa di gigli bianchi che, nei mesi estivi, fioriscono selvatici e spontanei. Ed ancor più il giglio è rappresentazione della madre se viene accostato al mito greco nel quale dai seni di Era, impegnata a nutrire Ercole, caddero alcune gocce di latte che in alto formarono la Via Lattea ed in basso i gigli.

“[…] È il bagliore di quel mare che mi manca/ […] La mia terra è un vento informe […]” – “Prima di partire”

 

Teresa Anna Biccai, in arte Marina Minet, è nata a Sorso in Sardegna. Tra le sue pubblicazioni: “Le frontiere dell’anima” (Liberodiscrivere® edizioni, 2006), “Il pasto di legno” (Poetilandia, 2009), “So di mio padre, me” (Clepsydra Edizioni, 2010), “Onorano il castigo” (Associazione Culturale LucaniArt, 2012), “Lo stile di Van Van Gogh” (Associazione Culturale LucaniArt, 2014), “Delle madri” (Edizioni L’Arca Felice 2015) e Scritti d’inverno (a cura del premio Città di Taranto, 2017); si citano i romanzi collettivi al femminile “ESTemporanea” (Liberodiscrivere® edizioni, 2005) e “Malta Femmina” (Ed. Zona, 2009); il poemetto in prosa-poetica “Perdono in supplica d’impronta esangue in monologo d’augurio al pasto” (da Amantidi – Vittime, Magnum Edizioni, 2006); la fiaba per bambini pubblicata nell’antologia “A mezz’aria” (Liberodiscrivere® edizioni, 2006); il racconto-poema “Metamorfosi nascoste” apparso nell’antologia “Unanimemente” (Ed. Zona 2011); compare nell’Antologia di Poesia Femminile “Voci dell’aria” (Exosphere PoesiArtEventi Associazione Culturale, 2014), in “Teorema del corpo – Donne scrivono l’eros” (Ed. FusibiliaLibri, 2014) e nella plaquette collettiva “Le trincee del grembo” (Associazione Culturale LucaniArt, 2014).

 

Mario Fresa nella Nota finale scrive: “In questi versi, l’amarezza e il male che così spesso feriscono l’esistenza assumono il timbro e il colore di un’impreveduta dolcezza che sembra tutto assolvere e liberare; sembra, dico, perché sempre si avverte la presenza, lontana ma fortissima, di un’ombra lunga, di un aspro e duro patimento che, mostrandosi dal fondo del suo amaro silenzio, vuole potentemente rivelarci – in un istante – l’ineffabile incomprensibilità di ogni evento umano.”

 

Pierino Gallo nella Nota finale scrive: “È nell’esatta congiunzione tra la memoria e i luoghi che si espleta la catarsi del poeta, ed è in questo vento informe che occorre ricercare la ricchezza della poesia di Marina Minet.”

 

 

Written by Alessia Mocci

 

Info

Acquista il libro http://edizionilarcafelice.blogspot.com/2015/06/marina-minet-delle-madri.html

Sito autrice https://ritualimarinaminet.wordpress.com/

 

Fonte

https://oubliettemagazine.com/2023/02/12/delle-madri-di-marina-minet-il-grembo-prodigioso-e-delta-e-causa-eterna/

Angela Pianca e Franco Rotelli: il libro Accademia della Follia


 


“L’Accademia della Follia con Claudio Misculin è nata nell’ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste. Erano i giorni in cui, arrivato Franco Basaglia, le porte si aprivano, gli internati circolavano per il parco e cominciavano a guadagnare la città.” – Peppe Dell'Acqua

“Accademia della follia. Un viaggio lungo trent’anni” edito dalla casa editrice mantovana Negretto Editore nel 2022 (collana Cause e Affetti diretta da Cinzia Migani) è un saggio che comprende una serie di brani aventi autori diversi e curato da Angela Pianca e Franco Rotelli. Ogni autore ed ogni autrice presente ha collaborato con l’Accademia della Follia impegnandosi nel portare avanti il progetto teatrale e culturale fondato nel 1992 a Rimini da Claudio Misculin, Cinzia Quintiliani ed Angela Pianca. Il sottotitolo del volume recita infatti “Un viaggio lungo trent’anni” ed al suo interno si potrà percorrere la vorticosa strada intrapresa da coloro che hanno partecipato all’Accademia come concreta possibilità di ricerca nella quale il teatro è diventato terreno fertile e comune per presentare e preservare la diversità e la sua trasformazione.

I contenuti del libro sono variegati: pare di assistere ad una pièce quando si osserva da vicino l’indice verso il quale non si resta indifferenti perché i titoli dei capitoli e dei paragrafi incuriosiscono ed intrattengono oltre ad informare sull’argomento esposto. È, infatti, composto dal “Prologo” suddiviso in due articoli Io sono tu che mi fai (Salve Claudio Misculin) di Giuliano Scabia e Claudio Misculin e il Teatro della verità di Peppe Dell’Acqua; dall’“Introduzione” (Comproprietari di un’utopia) di Angela Pianca; dal Capitolo 1 “Da una vita malata alla malattia del teatro. Anni ‘70” (Ma era bello avere la democrazia a colazione di Franco Rotelli, Claudio Misculin: maestro di disalienazione del corpo di Angela Pianca); dal Capitolo 2 “Da vicino nessuno è normale. Anni ‘77/’80” (I soggetti? Narrarli di Franco Rotelli, Raccontarla per vivere. Prima sfida: esistere di Angela Pianca, Giovanni Spiga vagabondo delle stelle); dal Capitolo 3 “Matti di mestiere e attori per vocazione. Anni ‘85/87” (Riuscirete voi spettatori a distinguere sul palco il matto dall’attore? di Angela Pianca, Matti di mestiere e attori per vocazione, La Blaue Karawane in Germania e la Caravana Azul in Spagna, Tagliare ancora la testa al re di Franco Rotelli, La formazione e la Scuola: Velemir Dugina, Teatro e diversità: momenti di azione e riflessione teatrale. Il Convegno, La Collina, l'Impresa sociale e Il Progetto 89, Mattjakovskij, la consacrazione); dal Capitolo 4 “Tecnica + Follia = Arte. Il metodo” (Una storia speciale di Franco Rotelli, Dall'eccezione al metodo delle eccezioni di Angela Pianca); dal Capitolo 5 “Accademia della Follia. Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza. Anni ‘90” (L'Istituzione inventata di Franco Rotelli, L'Accademia della Follia. Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza di Angela Pianca, Claudio Misculin. L’artista, il genio, l’uomo. Un amico di Rita Giannini); dal Capitolo 6 “Io sono tu che mi fai. Dal 2000 ad oggi” (Per un'impresa sociale di Franco Rotelli, Accademia della Follia, istituzione inventata nell'impresa sociale di Angela Pianca, Pezzi di vita. Pezzi di amore di Fabrizio Lazzaretti, La Casa Rossa, detta la Comunarda, Il Brasile di Mister Blu di Cinzia Quintiliani e Carmen Palumbo, Le geografie corporee: dello spazio, delle emozioni e della danza di Ana Dalbello, Non vuoi non puoi di Giancarlo Majorino, Oggi per domani di Angela Pianca, Il cantico dei matti di Bianca D’Aponte e Claudio Misculin); dall’Epilogo “Io sono Dio e non voglio guarire” di Claudio Misculin, da “Le tesi dell’Accademia della Follia” a cura di Giancarlo Majorino, Giuliano Spazzali, Giuseppe D'Arrigo, Donata Roma, Alberto Visini, Claudio Misculin, Angela Pianca, Cinzia Quintiliani; da “Teatrografia” (elenco delle produzioni teatrali dal 1978 con “Prometeo: storia di potere e ribellione” diretto da Maurizio Soldà al 2022 con “Noi sappiamo i nomi, in viaggio con Pier Paolo Pasolini” diretto da Antonella Carlucci e Sarah Taylor); chiude “1.000 nomi”, elenco dei nomi di mille persone che hanno camminato assieme all’Accademia.

“Dentro al cerchio magico del nostro teatro accogliamo i folli, grattiamo le incrostazioni manicomiali dei corpi e sotto i ghigni fissi ritroviamo le facce, raccogliamo storie, lettere, testimonianze, poesie e tutto questo lo mettiamo in scena. […] Claudio Misculin con la sua Accademia della Follia è stato il più grande affabulatore della rivoluzione basagliana. Per quarant'anni in ogni intervento, in ogni intreccio e azione scenica, in tutti gli spettacoli ha narrato questa storia. Con parole sue o prestate da autori diversi. Non senza carnosi attriti, con lieve e forte disperazione.” – dall’Introduzione di Angela Pianca

Claudio Misculin (Trieste, 1954 – Trieste, 2019) da attore e regista teatrale fu partecipe della rivoluzione avviata da Franco Basaglia dal 1971 in poi, fondando il primo gruppo di “teatro dei matti” nel 1976 e partecipando attivamente alla costruzione di quell’audace idea che portò la realizzazione della “Legge 180”. L’incontro del 1977 con il drammaturgo Giuliano Scabia (Padova, 1935 – Firenze, 2021) è stato fecondo e ha portato all’uso dello “schema vuoto”, cioè un canovaccio di possibilità di azioni da compiere così da cogliere l’evento nel suo incedere.

“Spesso mi chiedo dove sia, quale sia il teatro. Dove siano gli scrittori, i poeti. Se in Roma, nei palazzi, in Milano, dagli editori, o ai margini a cavarsi gli occhi, chissà dove, finché un loro messaggio arriva o si perde. Se i poeti, a volte, non siano certi curatori di anime e menti che ho imparato a conoscere, che a questa cultura dedicano la loro capacità di reinventare il gusto di vivere.” – Giuliano Scabia

L’Accademia della Follia basa le sue fondamenta sulla convinzione secondo la quale la follia sia un valore aggiunto nel campo artistico e teatrale, gli esponenti di questo laboratorio che segue il metodo fondato da Misculin propongono un esercizio quotidiano in concomitanza con l’introspezione psicofisica per arrivare alla realizzazione di ogni individuo ed al benessere individuale. Personalizzare gli “allenamenti” all’arte teatrale è stato decisivo per comprendere come salvaguardare le peculiarità di ogni individuo caratterizzato da fragilità psichiche e fisiche diverse.

“Riaprire i terreni della narrazione, intercalare normalità e normali follie, divertirsi della vita e delle vite non è negare diritto alla cura ma rivendicare il diritto ad occuparsi degli altri e che qualcuno si occupi di te, chiunque tu sia, dovunque tu ti sia fermato, rinchiuso nel dolore o nell’idea fissa o immutabile, nella ripetitività afinalistica o nel delirio, nella defezione dal mondo o nella dissociazione dalla catena linguistica che costituisce un mondo di appartenenza.” – Franco Rotelli

Lo spettacolo diventa il terreno fertile nel quale l’attore può scavare alla ricerca di sé. Recitare diventa guardare se stessi interpretare una parte ed avere ferma coscienza della presenza del pubblico e degli altri attori presenti come parte attiva del medesimo copione. Il regista teatrale Eugenio Barba (Brindisi, 1936), allievo del Maestro polacco Jerzy Grotowski, è ben riuscito a rappresentare questo bisogno della pratica teatrale come ricerca interiore.

“Il teatro, infatti, è costituito di radici che germogliano e crescono in un luogo ben preciso, ma è anche fatto di semi portati dal vento, seguendo le rotte degli uccelli. I sogni, le idee e le tecniche viaggiano con gli individui, e ogni incontro deposita polline che feconda e i frutti maturano dalla fatica caparbia, dalla necessità cieca e dallo spirito di improvvisazione e contengono semi di nuove verità ribelli.” – Eugenio Barba

Un metodo che può essere considerato un vero a proprio training di sopravvivenza votato all’eccesso, nel quale attraverso l’improvvisazione si ha la possibilità di migliorare la qualità di vita sfogando, sviluppando ed elaborando lo stesso “eccesso”. Il teatro, palcoscenico dell’eccesso per convenzione, diventa un luogo nel quale il “delirio” permette di vedere le contraddizioni insite in ogni essere umano.

“Noi siamo quelli che chiamano matti/ Nella notte vaghiamo distratti/ Pecore nere di ogni famiglia/ Noi giochiamo soltanto con chi ci somiglia/ Non fa paura la notte più nera/ Inseguiamo la nostra chimera/ Siamo viandanti, sognatori/ Quelli che i benpensanti chiamano errori// Sembriamo un popolo di mendicanti/ Basta niente per essere contenti/ Mano tesa a voi passanti/ Non chiediamo monete, ma sogni in contanti/ Bimbi tirati da padri impauriti/ Perché guardano a noi incuriositi/ «Devi scordarli, disprezzarli/ Possono metterti in testa strani tarli»// […]” – da “Il Cantico dei matti” testo e musica di Bianca D’Aponte e Claudio Misculin

 

Written by Alessia Mocci

 

Fonte

https://oubliettemagazine.com/2022/11/23/accademia-della-follia-curato-da-angela-pianca-e-franco-rotelli-matti-di-mestiere-e-attori-per-vocazione/

 

Autismo: l’approccio di Loredana Di Adamo presentato nel libro Filosofia e clinica

 


“La filosofia per le sue proprietà rappresenta a mio avviso uno strumento d’elezione per chi opera nelle professioni di aiuto, perché permette di emanciparsi dalle varie teorie psicologiche sull’uomo e di volgere l’attenzione alla comprensione delle specificità attraverso cui prendono forma i comportamenti e i giudizi.” – Loredana Di Adamo

“Filosofia e clinica” di Loredana Di Adamo è un saggio nato dall’esperienza professionale dell’autrice nell’ambito dell’autismo di livello 1 e della neurodiversità. Edito dalla Negretto Editore (ottobre 2022) nella collana Cause e affetti diretta da Cinzia Migani, è composto dalla prefazione del medico e psichiatra Ernesto Venturini, dalle Norme di lettura, dall’Introduzione, dal Capitolo I denominato La variabilità neurobiologica e l’autismo. Per una filosofia della neurodiversità, dal Capitolo II denominato Filosofia e clinica. L’approccio esistenziale e fenomenologico alla neurodiversità, dal Capitolo III denominato Il Parent Training Sophia. Un approccio clinico e filosofico all’adulto, alla coppia e alla famiglia nell’ambito dell’autismo di livello 1 e della neurodiversità, dalle Conclusioni, da una vasta Bibliografia e chiude una parte dedicata alla Sitografia.

Sin dalla prefazione firmata da Ernesto Venturini pare chiara la volontà di inserimento “nel solco tracciato dalla psichiatria fenomenologica e dalle idee di Franco Basaglia e del suo gruppo di lavoro” aderendo “all’opera di trasformazione culturale che ha portato alla liberazione della società dalla cultura della follia e alla chiusura dei manicomi nel 1978 con la legge 180” per proporre una filosofia della neurodiversità atta a rispondere all’esigenza di superamento della dicotomia che separa il “mondo dei sani” dal “mondo dei malati mentali”. L’autrice stessa riconosce che il progetto di “riabilitazione della filosofia nella pratica clinica” possa essere considerato ardito per l’epoca attuale ma è da circa un secolo che questa possibilità scalpita per essere attuata e, dal medesimo tempo, viene considerata come inappropriata. Studiosi come Carl Gustav Jung e James Hillman hanno fortemente battuto sul processo interattivo tra pratica clinica, filosofica, religiosa, poetica e mitologica perché il limite di una può diventare una porta verso l’altra di contro alla tendenza della specializzazione dei saperi degli ultimi secoli. Concetto non dissimile dall’“immaginazione narrativa” intesa come “capacità” illustrata da Ernesto Venturini che non può che riportare alla mente il capitolo “Le storie cliniche come narrativa” di Hillman nel quale si presupponeva la necessità, per ogni essere umano, di “arrivare al racconto” come se, citando la poesia di Costantino Kavafis, arrivare ad Itaca non sia la meta ma lo strumento che permette il viaggio.

“Per comprendere la complessità del mondo non basta usare solo la logica e la conoscenza fattuale. Serve un terzo elemento che mi piace definire “l’immaginazione narrativa”: la capacità di mettersi nei panni di qualcuno, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni e i desideri. Intendo riferirmi, in sostanza, a quell’atteggiamento che siamo soliti chiamare “empatia”.” – Ernesto Venturini nella prefazione

Perno del libro “Filosofia e clinica” è la sostituzione del termine “diagnosi psichiatrica” con neurodiversità, parola coniata nel 1990 dalla sociologa australiana Judy Singer e successivamente utilizzata dallo psicologo Thomas Armstrong, come soluzione allo stigma di alcune condizioni cliniche così da ampliare la variabilità neurobiologica esistente in natura. Il saggio non è rivolto solo ai professionisti dei vari settori specialistici chiamati in causa ma, essendo di piacevole lettura, è consigliabile anche ai familiari che si trovano in relazione con casi di autismo 1 ed a tutti coloro che si interessano di società e diversità.

“Nell’autismo sono definiti comportamenti problema le crisi di rabbia inaspettate, l’isolamento, le stereotipie, gli atteggiamenti ossessivi e le domande ripetute, le condotte disfunzionali legate al sonno e la selettività alimentare, le difficoltà scolastiche e lavorative, il bisogno di immodificabilità. Tra i comportamenti problema figurano anche le condotte lesive o autolesive e il ricorso a forme di autocura spesso in linea con un interesse personale.” – Loredana Di Adamo

Il cambiamento che l’autrice prospetta è il passaggio dal modello biomedico ad un modello biopsico-sociale nel quale “osservare la differenza neurobiologica non come una patologia, ma come l’effetto di una vulnerabilità che appartiene allo spettro della neurodiversità e che riguarda l’uomo, i suoi modi di espressione ma soprattutto l’ambiente di vita”.

È necessario, dunque, avviare un rapporto con le famiglie percorrendo innanzitutto l’excursus storico dell’autismo: da psicopatia autistica sino al concetto di neuroatipicità per una rinnovata lettura del reale così da permettere una “nuova” interpretazione. Di fondamentale importanza è la promozione di spazi e modi per gestire e trasformare la sofferenza perché, nella maggior parte dei casi, viene occultata a causa di visioni del mondo rigide e ridotte. Il Parent Training Sophia è di fondamentale supporto per la formazione dei genitori in modo da proporre il confronto attuato con l’attività dialogica e la pratica fenomenologica, così da poter evitare l’abuso di farmaci, terapie e trattamenti sanitari.

Ogni passo è volto verso il riportare in luce il concetto di “cura” come esercizio alla cura di sé, degli altri e del mondo nell’ambito della pratica filosofica, una sorta di terapia delle idee per dare la possibilità di essere padroni dell’atto stesso di pensare.

“L’errore di una parte della psichiatria e della psicologia è invece, ancora oggi, voler ricondurre la conoscenza della persona alla spiegazione e al rapporto di causa-effetto, seguendo la concezione normale dei comportamenti. Purtroppo, questo modo di avvicinarsi al mondo dell’altro non fa che annullare l’orizzonte di senso del soggetto, indirizzando altrove la cura. Come afferma Eugenio Borgna, quando la psicologia e la psichiatria perdono di vista l’uomo nella sua unicità diventano «scienze umane che hanno dinanzi a sé orizzonti oscuri e talora inafferrabili (irraggiungibili)», non più capaci di arrivare a quelle profondità di senso a cui si può pervenire immergendosi in esse e nella loro singolarità. In questa prospettiva i dati dei test, seppur utili, spesso sono solo il risultato di una procedura che avviene senza una naturalezza di intenti e in un contesto non ecologico, dove il distacco necessario tra chi somministra e chi svolge il test non consente l’emersione di ciò che ha carattere di possibilità, e che si esplica più facilmente nel vivo della relazione.” – Loredana Di Adamo

Il volume è impreziosito da pertinenti citazioni che aprono ogni capitolo e paragrafo e che riflettono l’intento dell’autrice di amalgamare le diverse discipline; si riportano solo alcuni dei nomi degli scrittori, poeti, filosofi e psicologi presenti: Karl Jaspers, Franco Basaglia, Friedrich Nietzsche, Plutarco, Oliver Sacks, Seneca, Ludwig Binswanger, Michel Foucault, Rainer Maria Rilke, Ludwig Wittgenstein, Martin Heidegger.

“Filosofia e clinica” è molto più di quanto fin qui espresso, per averne una visione completa si dovrebbe leggere il saggio e non basarsi su questo breve articolo. Si chiude con un interrogativo che richiama l’isolamento degli autistici e la necessità di integrazione della diversità espresso da un neurologo britannico citato più volte da Loredana Di Adamo, Oliver Sacks: “C’è posto nel mondo per un uomo che è come un’isola, che non può essere acculturato, reso parte della terraferma? Può la terraferma accogliere il singolare, fargli posto?”

 

Loredana Di Adamo è una psicologa di orientamento Umanistico-Esistenziale. Si è laureata in Psicologia Clinica e della Riabilitazione, ha conseguito la Laurea Magistrale in Filosofia e Neuroscienze con il massimo dei voti, ed ha svolto un Master Universitario in Estetica Medica e Medicina del Benessere. Specializzata nell’ambito dei progetti di supporto per l’autismo e la neurodiversità rivolti alla persona e alla famiglia. Da decenni svolge attività di docenza negli Istituti professionali seguendo alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES) e Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). Svolge attività di Parent Training presso CuoreMenteLab. Si occupa di divulgazione di articoli su riviste specialistiche, tra cui Ágalma di Mimesis.

 

Written by Alessia Mocci

 

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Fonte

https://oubliettemagazine.com/2022/10/27/filosofia-e-clinica-di-loredana-di-adamo-un-nuovo-approccio-allautismo/

Lettere a Sofia libro di Giovanna Fracassi: la ricerca di senso

 


“In fondo si scrive da sempre intorno ai grandi temi dell’esistenza umana. Poeti, romanzieri, filosofi hanno in realtà sviscerato ogni aspetto, ogni anfratto dell’umano sentire. Difficile trovare una propria “voce” senza ricadere in note già elaborate, già espresse. Ecco che lo scoramento può indurre a tacere, a lasciarsi avvolgere dal silenzio del nulla, dall’acqua che travolge impetuosa, accerchia e trascina in un nuovo silenzio rappresentato dalla metafora del mare, da dove, forse, possono nascere nuove parole.” – dalla lettera del 13 gennaio

“Lettere a Sofia” di Giovanna Fracassi, edito a settembre 2022 da Tomarchio editore, è un libro composito nel quale sono presenti ragionamenti sotto forma di epistola, racconto breve e poesia attorno ai grandi temi dell’essere umano: la vita e la sua antagonista, la morte; il concetto del bene; il bisogno degli affetti; la curiosità insita nel viaggio; l’indole della solitudine; l’astrazione del tempo; la ricerca dell’amicizia; l’amore verso le forme di vita differenti; l’ascesa; il duplice benessere dell’insegnare e dell’imparare.

Le tematiche della grande tradizione filosofica ripensate e scritte con il sentire femminile.

Una lettura adatta sin dalla giovane età (dai 13 anni in su) in cui si potrà rispecchiare qualsiasi lettore curioso della vita e di quel che chiamiamo pensiero.

Dove nasce il pensiero? Dove nasce il bisogno di scrivere?

Ogni domanda che viene posta dona la possibilità di riflessione, rispondere argomentando è motivo di crescita e di soddisfazione. Un cerchio all’interno del quale il lettore agisce come protagonista perché chiamato anch’egli, durante la lettura, alla riflessione della tesi proposta dalla scrittrice e poetessa vicentina Giovanna Fracassi.

L’autrice stessa avverte nella premessa: “è un libro […] diverso da tutti i miei precedenti lavori” ed è effettivamente così, in quanto tutta la produzione precedente di Giovanna Fracassi è un intervallarsi di poesia e racconto (racconto lungo, breve, novella, favola).

“La tradizione dello scrivere lettere a Sofia è antica quanto la stessa parola sofia – Σοφία – che in greco significa “saggezza” “sapienza” e genericamente comprende la sfera del “sapere”. Così anche in lingua italiana viene utilizzata in parole composte che si collegano alla conoscenza come filosofia, teosofia, antroposofia. […]

Scrivere una lettera è dialogare e la memoria classica non può che riportare a due libri del passato conosciuti su larga scala ed in tutto il mondo: i “Dialoghi” di Platone che mettono in scena insegnamenti sotto forma di dialoghi del maestro Socrate, e le “Lettere morali a Lucilio” scritte da Lucio Anneo Seneca al suo allievo.

Con “Lettere a Sofia” di Giovanna Fracassi troviamo le tematiche della grande tradizione filosofica ripensate con il sentire femminile. L’autrice è la mittente delle lettere, la firmataria, il suo nome compare in ogni lettera, la sua vita privata, i suoi viaggi, le sue sensazioni, i suoi errori, le sue gioie.” – tratto dalla Prefazione del libro

 

Giovanna Fracassi è nata a Vicenza da Emilio Fracassi, medico pediatra, e da Gemma Brazzarola. Il nonno, Egidio Fracassi, professore di Lettere è stato un irredentista e ha scritto numerosi saggi storici e politici ad oggi presenti nella sezione storica della Biblioteca civica di Rovereto (TN).

Giovanna, figlia unica, ha così modo, fin da piccola di vivere in un ambiente culturale molto stimolante e, crescendo, ha libero accesso alla biblioteca di famiglia. Si nutre di letture di vario genere, spaziando dai romanzi d'avventura, a quelli storici, alla poesia e ai saggi.

Matura pertanto la passione per lo studio della letteratura, della filosofia, della storia, ma anche della pedagogia e della psicologia che la condurrà dapprima a conseguire il Diploma di Liceo psico-pedagogico e successivamente la Laurea in Lettere e filosofia presso l'Università di Padova con la tesi intitolata "Il tema della corporeità nella filosofia di Jean Paul Sartre".

Si sposa, appena ventenne, e da questa unione, nascono due figli: Giulia e Alessandro.

Successivamente i suoi interessi culturali e umani la conducono a studiare e a conseguire varie abilitazioni all'insegnamento: alla Scuola dell'Infanzia, alla religione cattolica, alla Scuola primaria, alla Scuola secondaria di primo e di secondo grado per la cattedra di Lettere, una specializzazione per l'utilizzo del metodo d'insegnamento Braille, un master in Cinema, teatro e spettacolo, un master in Couseling.

Parallelamente alla professione di docente di Lettere, ha coltivato la passione della scrittura. Autrice poliedrica si interessa di filosofia, di fotografia, filmografia, musica e storia dell'arte. Passioni che nutre viaggiando in Italia, in Europa e in Russia.

Ha esordito con la casa editrice Rupe Mutevole nel 2012 con la raccolta poetica “Arabesques”, segue nel 2013 “Opalescenze”, nel 2014 “La cenere del tempo”, nel 2015 “Emma alle porte della solitudine”, nel 2017 “Nella clessidra del cuore”, nel 2018 “L’albero delle filastrocche”. Nel 2016 ha pubblicato con Kimerik la raccolta “In esilio da me”, nel 2018 con Kubera Edizioni “Il respiro del tempo” e nel 2021 con Rupe Mutevole una raccolta poetica dal titolo “La brace dei ricordi” ed un fortunato libro di favole e filastrocche intitolato “Nel magico mondo di Nonna Amelia”. Nel 2021 è diventata autrice della Tomarchio Editore con una raccolta poetica intitolata Il canto della memoria nell'antologia “Conversazioni poetiche” Autori Vari.

 

L’autrice è disponibile per eventuali richieste di interviste riguardo la sua produzione letteraria, se interessati scrivere all’indirizzo e-mail giovanna.fracassi@libero.it. Per acquistare una copia del libro con dedica personalizzata si consiglia di scrivere all’autrice in e-mail oppure sull’account Facebook.

 

Written by Alessia Mocci

 

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Info sull’autrice https://oubliettemagazine.com/tag/giovanna-fracassi/

Sito Giovanna Fracassi http://giovannafracassi.altervista.org/

Facebook Giovanna Fracassi https://www.facebook.com/giovanna.fracassi