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In libreria Il divenire della filosofia in François Zourabichvili a cura di Cristina Zaltieri, edito da Negretto Editore



Fin dove è possibile che una identità regga l’incalzare degli eventi, quando e come può finire per spezzarsi? François Zourabichvili

In arrivo nelle librerie fisiche ed online “Il divenire della filosofia in François Zourabichvili” edito dalla casa editrice mantovana Negretto Editore, per la collana editoriale “Il corpo della filosofia”.

La collana “Il corpo della filosofia” diretta da Rossella Fabbrichesi e Cristina Zaltieri, è la scrittura dei suoi testi, là dove il pensiero si fa visibile, si concede al nostro sguardo. Porre l’accento su tale corpo non significa attraversare i testi mirando ad un altrove invisibile di cui essi sono i segni, ma illuminare l’intreccio scritturale che è la loro carne, il textum. Significa anche tener conto che il pensiero si dispiega sempre in un’alterità (corpo, scrittura, carne, materia) che lo contamina e lo nutre. Lungi da rimuoverlo od obliarlo, la filosofia deve essere all’altezza di tale suo corpo potente e glorioso.

“Il divenire della filosofia in François Zourabichvili”, curato da Cristina Zaltieri, traduttrice in Italia del filosofo francese, raccoglie gli interventi presentati il 2 febbraio 2017 all’Università Bicocca di Milano al Convegno omonimo dedicato al filosofo. Suddiviso in due parti, la prima “Letteralità, Evento Esaustione, Mappa” propone i testi di Giorgio Majer GattiLa questione della letteralità. Note di lavoro per una genesi”, Luca PinzoloL’evento-Deleuze. Il discorso indiretto libero di François Zourabichvili”, Ubaldo FadiniEsaurire e/è creare. Il possibile in questione a partire da Gilles Deleuze e François Zourabichvili” e Lorenzo GattiIl commento scisso di François Zourabichvili”.

La seconda parte intitolata “Chimera, Forma, Fisica del Pensiero, Infanzia” presenta i contributi di Cristina ZaltieriFrançois Zourabichvili e la pratica della filosofia”, Vittorio MorfinoIl divenire della forma”, Federico SilvestriDal moto al conatus. Individualità dei corpi e ‘fisica del pensiero’ in Spinoza”, e Gianfranco MorminoLa prima apertura al mondo: Zourabichvili e la condizione infantile in Spinoza”.

Come suggerisce Cristina Zaltieri nella presentazione del libro, oggi, le riflessioni di François Zourabichvili stanno ricevendo grande rilievo internazionale e questo lo si può notare dalle traduzioni presenti in lingua inglese, giapponese, turco. Da mettere in rilievo che solo in Italia son state tradotte e pubblicate le sue quattro opere principali: “Deleuze. Una filosofia dell’evento” (Ombre Corte, Verona, 2002); “Spinoza. Una fisica del pensiero” (Negretto Editore, 2012); “Il vocabolario di Deleuze” (Negretto Editore, 2012); “Infanzia e regno. Il conservatorismo di Spinoza” (Negretto Editore, 2016).

Non si può di certo affermare che il pensiero di Zourabichvili sia di facile accesso per la complessità delle speculazioni affrontate sul filosofo Baruch Spinoza e su Gilles Deleuze ma è proprio questa la potenza nella quale si nota il grande lascito della filosofia dell’Evento di Deleuze e nel lavoro di far dei concetti altrui non tanto interpretazione quanto una sperimentazione che ha come campo d’esperienza noi stessi.

La ricerca focale dell’indagine filosofica di Zourabichvili come sottolinea la Zaltieri – è l’emergenza dell’identità, l’emergenza di tracciare i suoi contorni ed i suoi limiti in un percorso di liberazione dal materialismo e dalla tradizione e, di presa di coscienza e dunque riconoscimento delle chimere, così come le denomina Baruch Spinoza.

La letteralità equivale, secondo Zourabichvili, alla pratica stessa dell’immanenza, cioè alla produzione di senso attraverso la contaminazione delle serie eterogenee. Per chiarire meglio questo punto, Zourabichvili riprende le riflessioni che Deleuze ha dedicato al passaggio dal verbo EST alla congiunzione ET (soprattutto in Conversazioni e Millepiani), sulla base di un’idea definita sin dai tempi di Empirismo e soggettività. Cosa può significare l’espressione ricorrente «le relazioni sono esterne ai loro termini», se non che le relazioni non sono date in anticipo attraverso la natura statica dei termini stessi, ma sono sempre il prodotto di un incontro, dunque di un dinamismo relazionale e virtuale? Giorgio Majer Gatti

“«La philosophie de Deleuze est un monopluralisme duel.» Il pluralismo non è la divisione dialettica dell’Uno nel Due: si tratta di un pluralismo dato in uno, ossia in una volta sola, ma pur sempre come pluralismo – di qui l’opzione, da parte di Deleuze, di impiegare la parola multiple come sostantivo e non come aggettivo; il multiplo è un ‘blocco’, è un pluralismo-uno piuttosto che una ’uni-pluralità’ che si dà, o meglio si articola, in modo plurale a partire da una preliminare unità, destinata questa sì, in un modo o nell’altro, a ricomporsi. Luca Pinzolo

“Di fronte all’odierno «sistema controllato delle parole d’ordine», Deleuze sottolinea la necessità – anche politica – di una ‘contro-informazione’ che possa valere come ‘atto di resistenza’, che consenta di comunicare ‘meno’, in quanto creare è «sempre stato altro dal comunicare». Oggi l’essenziale consiste proprio nella creazione ‘dei vacuoli di non-comunicazione’, degli ‘interruttori’ indispensabili per sfuggire al ‘controllo’, con i suoi effetti di sofisticata omologazione attraverso la diffusione di una apparente diversità/differenziazione, anche a livello individuale.” Ubaldo Fadini

Spinoza è il primo commentatore di sé stesso, lo fa inserendo, come diceva Gilles Deleuze nel calmo movimento del ‘fiume della deduzione’, lo scorrere sotterraneo, irrequieto, polemico e immaginifico degli scoli. Il commento di un testo scritto ordo geometrico si differenzia da un commento generico perché le partizioni testuali di riferimento sono effettuate dall’autore stesso e consentono di essere prese a blocchi che rimangono inalterati nel passaggio da un commentatore all’altro. Lorenzo Gatti

Interpretare può essere solo una cosa, per Zourabichvili: sperimentare. In primo luogo sperimentare la forza vitale dei concetti, la loro capacità di rispondere al proprio problema. Concretamente in che consiste questa postura sperimentale dell’interpretazione? Ci offre la risposta una costellazione di concetti che è ricorrente nella scrittura di Zourabichvili: envelopper, enveloppement, impliquer. Laddove sono riferiti alla natura del concetto questi termini stanno ad indicare che la sostanza propria di cui è fatto un concetto filosofico è costituita da un inviluppo di senso. Quello che deve fare l’interprete non è tradurre il concetto, trasporlo in termini più comprensibili, più propri, come si richiede nell’interpretazione di una metafora. Cristina Zaltieri

“Se vi è un concetto che attraversa tutta l’interpretazione che Zourabichvili propone del pensiero spinoziano, senza dubbio è quello di forma. Certo, reinstaurare la centralità della forma nella teoria spinoziana sembrerebbe una mossa che presuppone un’abdicazione della lettura materialistica, sia essa posta in essere in favore di uno sdoppiamento platonizzante dei piani dell’essere o di una concezione gerarchica e teleologica delle forme à la Aristotele o à la Leibniz. […]” Vittorio Morfino

L’analisi di Zourabichvili, muove da un’osservazione di un certo rilievo: generalmente si riconosce in Leibniz il filosofo della riabilitazione del concetto di forma. Più propriamente, si è soliti leggere Leibniz come colui che ha riabilitato le forme sostanziali, mentre, secondo l’interpretazione di Zourabichvili, sarebbe più opportuno vedervi colui che ne ha radicalmente modificato il concetto. Federico Silvestri

“L’analisi di Zourabichvili inizia appunto con un grande aristotelico, Tommaso d’Aquino: il dottore medievale legge il problema del passaggio dal bambino all’adulto come un processo nel quale si mantiene l’identità, ovvero la continuità numerica. Come osserva Zourabichvili, mentre lo sviluppo fisico appartiene al novero del moto secondo la quantità, quello dello spirito produce un mutamento qualitativo; il bambino non ha semplicemente una ragione minore di quella dell’adulto, ne è del tutto privo. Perciò esso «sembra appartenere al genere [animale], senza differenza specifica; così si parlerebbe di un animale in generale, dunque di una bestia (dato che gli si riconosce almeno la capacità motoria). Non è già di un’altra specie, a dire il vero non ne consta di alcuna»” Gianfranco Mormino

François Zourabichvili è stato un filosofo francese, di origini armene, che si dedicò interamente alla comprensione e commento di Baruch Spinoza e Gilles Deleuze, approdando alla produzione di opere di folgorante intensità concettuale. Docente all’Università Paul Valéry di Montpellier e direttore di programma del Collège International de Philosophie dal 1998 al 2004. A 41 anni, ed esattamente il 19 aprile 2006, Zourabichvili ha deciso di interrompere la sua vita proprio come aveva fatto dieci anni prima Gilles Deleuze.

Written by Alessia Mocci
Ufficio Stampa Negretto Editore

Info
Sito Negretto Editore
http://www.negrettoeditore.it/
Acquista “Il divenire della filosofia in François Zourabichvili”
https://www.lafeltrinelli.it/libri/cristina-zaltieri/divenire-filosofia-francois-zourabichvili/9788895967332
Intervista Cristina Zaltieri
http://oubliettemagazine.com/2018/02/22/intervista-di-alessia-mocci-a-cristina-zaltieri-traduttrice-del-filosofo-francois-zourabichvili-per-negretto-editore/
Acquista “Spinoza. Una fisica del pensiero”
https://www.ibs.it/spinoza-fisica-del-pensiero-libro-francois-zourabichvili/e/9788895967240
Acquista “Infanzia e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza”
https://www.unilibro.it/libro/zourabichvili-fran-ois/infanzia-regno-conservatorismo-paradossale-spinoza/9788895967295
Facebook Negretto Editore
https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/
Sito Odori Suoni Colori
http://www.odorisuonicolori.it/

Fonte
http://oubliettemagazine.com/2018/03/16/in-libreria-il-divenire-della-filosofia-in-francois-zourabichvili-a-cura-di-cristina-zaltieri-edito-da-negretto-editore/


Intervista di Alessia Mocci a Giovanna Fracassi: vi presentiamo il nuovo libro Nella clessidra del cuore


Ci sono ore/ in cui la malinconia/ s’avvicina con passo felpato/ e allora il sole/ si smarrisce in tanto cielo// le foglie e i fiori/ diventano fragili cristalli/ e la brezza è un velo lieve/ che veste l’anima/ di un soffice silenzio./ Abbracciami‒ “Soffice silenzio”

Conosciuta per pubblicazioni come “Arabesques” (2012), “Opalescenze” (2013), “La cenere del tempo” (2014), “Emma, alle porte della solitudine” (2015), “In esilio da me” (2016), svariate antologie, enciclopedie e riviste nelle quali sono state presentate altre sue liriche, Giovanna Fracassi apre le porte del 2018 con una nuova silloge poetica: “Nella clessidra del cuore”, pubblicato dalla casa editrice Rupe Mutevole Edizioni.

A differenza delle precedenti pubblicazioni, notiamo in “Nella clessidra del cuore” una bipartizione tra prosa e versi. Infatti la pubblicazione, successiva alla dedica: “Alla mia famiglia// sabbia d’oro/ nella clessidra/ della mia vita”, si apre con quattordici racconti brevi.

Volendo ragionare sui titoli dei libri e sulle tematiche che l’autrice ha sviluppato nel corso degli anni, si potrebbe interpretare quest’ultima pubblicazione come una sorta di raggiungimento di equilibrio temporale all’interno del cuore, sede dei sentimenti.

Si scorge la pace dell’istante che sussurra al tempo di raccogliersi in granelli lenti. Considerando anche la presenza dei racconti, si individua “altro” oltre all’impulso del verso, alla netta cesura, come se l’autrice stesse tessendo una clessidra in posizione orizzontale.

La pace, in questo senso, la si nota nella stasi della necessità di prosa e nello sguardo di Adam, il proprietario del Veliero di cui parleremo nell’intervista.

A.M.: Ciao Giovanna, ricordo ancora la prima volta che ci siamo incontrate, è stato il 2013 e l’occasione fu la tua pubblicazione della silloge “Arabesques”. Ora a distanza di anni eccoci nuovamente per presentare la tua nuova fatica “Nella clessidra del cuore”. Mi piacerebbe iniziare questa nostra conversazione chiedendoti quanto senti cambiata la tua penna durante questi anni.

Giovanna Fracassi: Ciao Alessia. È vero sono passati parecchi anni dalla mia prima silloge e da quando abbiamo avuto modo di iniziare a conoscerci. Inoltre, durante tutto questo tempo, tu sei stata una fra le più attente lettrici dei miei vari testi. La prima silloge Arabesques ha rappresentato il mio ritorno alla scrittura, dopo molti anni di silenzio. Essa era caratterizzata da componimenti brevi e talvolta lapidari e nel complesso, rileggendomi ora, sicuramente più "sempliciforse più immediatamente comprensibili perché non ancora filtrati dallo studio e dalla ricerca che poi hanno caratterizzato le sillogi successive. Già Opalescenze appare più "meditata", vi sono poesie che anticipano i temi che poi rimarranno nel tempo come note predominanti con le quali elaborerò gli altri miei componimenti, ossia il rapporto tempo - spazio. Nella silloge “La cenere del tempo“ e ancora di più in Emma alle porte della solitudine”, il tempo  viene declinato in tutti gli aspetti che riguardano i periodi della vita e della ricerca di senso che ognuno di noi  elabora. Parlare di tempo significa, per me, parlare anche di spazio, perché tutto ciò che è avvenuto, avviene o si proietta nel futuro, si concretizza in uno spazio che può essere il paesaggio, un ambiente, un oggetto, ma anche un ricordo. La mia quinta silloge “In esilio da me “, costituisce la più compiuta presa di coscienza di questo mio "viaggiare", questo mio esplorare i vari ambiti, a partire da quelli affascinanti della religione, della filosofia, per passare poi a quelli  della psicologia, dell'arte e dell'alchimia per poi tornare, infine, al mio centro, forte degli apporti di questi studi, che non mi hanno ovviamente fornito alcuna risposta certa, ma che anzi mi hanno stimolato ad altri interrogativi, ad altre indagini arricchendomi infinitamente. Ora, nella “Clessidra del cuore”, vi è un distillato delle mie emozioni, delle mie riflessioni, dei miei ricordi in quello spazio -  tempo che, come una clessidra, scandisce il passare della vita ma che ad ogni capovolgimento ritorna con nuovi colori, nuove vibrazioni, nuove speranze e nuovi sogni. Quasi in un moto incessante, continuo, fino alla morte.

A.M.: “Nella clessidra del cuore” troviamo due sezioni, la prima si articola in quattordici racconti brevi e segue una seconda di poesie. Ti conosco soprattutto come scrittrice di versi e mi ha incuriosito questa scelta.

Giovanna Fracassi: Scrivere in prosa è per me una sfida. I racconti presenti in questo libro sono stati scritta in questi ultimi anni. Direi che sto muovendo i miei primi passi in questo genere. Sono alla ricerca di un diverso modo di raccontarmi e di raccontare il mio mondo. Spesso un racconto è una poesia espansa o viceversa ne costituisce il canovaccio. Pertanto i due generi sono per me fortemente intrecciati. Mi è stato fatto notare che indugio alquanto nelle descrizioni: questo è voluto proprio perché amo ricreare atmosfere, paesaggi, stati d'animo più che narrare fatti.

A.M.: Nel racconto “Veliero” Adam, il personaggio a cui dai voce, è un uomo che ha abbandonato tutti i titoli accademici, appartamento e vita sociale per andar a vivere in un veliero con un unico compagno: il suo fedelissimo Spiffero. Di sicuro è indicativa la scelta del nome ed il discorso sugli uomini che s’immergevano nella poesia della forza degli Dei ‒ della Natura ‒ tale da “volgere lo sguardo tremante, impaurito”. Penso che in questo scritto ci sia un bisogno reale dell’essere umano di allontanamento dal superfluo che abitiamo in cerca di una felicità antica che, seppur esistente, è complessa da trovare. Mi ricorda l’ἄφελε πάντα (“abbandona tutto”) proposto da Plotino. È così anche per te? Nel tuo intimo senti il bisogno di seguire le orme di Adam?

Giovanna Fracassi: Adam è un uomo che esce dal nulla. Non sappiamo molto di lui se non che, ad un certo punto della sua esistenza, ha lasciato tutto ciò che apparteneva alla sua vita per mettersi " in viaggio", senza una meta, senza un'idea precisa di cosa voler fare. Un vagabondo aperto ad ogni possibile percorso. Certamente non tanto nel senso di fare nuove conoscenze o di scoprire nuovi mondi, quanto piuttosto nel senso di ritrovare il vero sé, travolto, trascinato, forse avvilito da una vita che ad un certo punto percepisce non più soddisfacente, non più rispondente ai propri bisogni. Credo che a tutti noi, indipendentemente dal nostro modo di vivere, dal fatto di sentirci più o meno realizzati o soddisfatti, accada di desiderare di allontanarsi, fosse solo per pochi giorni, fosse solo con la semplice sospensione di ogni abituale attività, per rimanere soli con se stessi, semplicemente. La mia non vuole essere una critica al ritmo della vita moderna, non mi unisco ai già tanti che denunciano da sempre come l'uomo, dall'avvento della macchina, sia costantemente stritolato da fatiche e tempi non corrispondenti al suo naturale sentire. Piuttosto il mio vuole essere un richiamo a quella potente sorgente interiore che ciascuno di noi possiede ma alla quale troppe volte non sa più come attingere.

A.M.: Invece nel racconto “Il Fiume” ci trascini nella psiche di colui che scrive, invaso da parole, ricordi, memorie di storie che non hanno mai avuto luce. La bramosia della ricerca di parole e frasi nuove, mai scritte prima, emozioni uniche da regalare all’osservatore, al lettore. Ed il finale sulla semplice pietra avvolti dalla corrente per ricongiungersi al mare. Dove si rifugia l’Io poetico di Giovanna?

Giovanna Fracassi: Nel racconto “Il fiume” ho espresso il mio faticoso e talvolta doloroso cercare nuove forme, nuove frasi, nuove parole per esprimere ciò che provo e sento senza ricadere nel già scritto da me stessa e da altri scrittori. In fondo si scrive da sempre intorno ai grandi temi dell'esistenza umana. Poeti, romanzieri, filosofi hanno in realtà sviscerato ogni aspetto, ogni anfratto dell'umano sentire. Difficile trovare una propria "voce" senza ricadere in note già elaborate, già espresse. Ecco che lo scoramento può indurre a tacere, a lasciarsi avvolgere dal silenzio del nulla, dall'acqua che travolge impetuosa, accerchia e trascina in un nuovo silenzio rappresentato dalla metafora del mare, da dove, forse, possono nascere nuove parole. Dove si rifugia il mio Io poetico? Ovunque e in nessun luogo perché, alla fine, un rifugio davvero non esiste ed il mio Io fluisce e si sostanzia di questo suo stesso movimento.

A.M.: Non solo in questi due racconti che abbiamo esaminato, ma anche nelle precedenti pubblicazioni, uno degli elementi portanti della tua produzione è l’acqua. Talvolta l’ho interpretata come personificazione del tuo Io in specchio.

Giovanna Fracassi: Traggo ispirazione da tutti gli elementi della natura. Nella mia narrazione poetica seguo ormai un movimento circolare. Molte delle mie poesie nascono proprio da un elemento che colgo attorno a me: l'ondeggiare delle cime degli alberi al vento impetuoso all'avvicinarsi di un temporale, l'alone misterioso che avvolge la luna piena in un cielo stellato o il moto sinuoso delle onde del mare che accarezzano la spiaggia deserta e da qui sviluppo la mia lirica in un excursus interiore che, per metafore, ritorna  poi all'elemento naturale non più esterno a me ma, a questo punto, perfettamente integrato e direi funzionale all'espressione del mio sentire. L'acqua per me rappresenta molte cose: un elemento inquietante, imprevedibile e misterioso quella del mare, viceversa rassicurante e accogliente quella del lago, o ancora l'espressione dell'eterno fluire del tempo, quindi della vita, che più non torna, quella del fiume, della purezza trasparente dove specchiare la propria anima, quella della sorgente. L'acqua è fonte di vita e di purificazione, vi si immerge e anche l'anima pare mondarsi da ogni affanno e divenire più leggera, quasi che l'acqua aiutasse a portare con minor fatica il peso delle pene che talvolta travagliano l'esistenza. Penso poi ai tesori sommersi nei mari così come altri tesori sono celati e custoditi nel nostro inconscio, questo immenso mare che ci portiamo dentro. Così come il mare spesso riporta alla luce frammenti della storia passata, allo stesso modo consente a noi, che lo osserviamo affascinati, di ripescare i nostri ricordi.

A.M.:Cresce e dilaga/ questo esserci/ ora/ ed è già morto/ l’istante. […] Io sono ciò che non sono/ ma ciò che potrei essere/ nel vortice veloce/ del divenire// e non sono già più.” La lirica “Essere” racchiude in toto il tuo pensiero sul tempo, sull’essere all’interno dei suoi tre momenti: passato, presente e futuro. Mi piacerebbe contrapporre questa quiete che sento nei tuoi versi con lo sgomento buadelairiano che incontriamo in “L’orologio”: “[…] Ricordati che il tempo è giocatore avido:/ guadagna senza barare, ad ogni colpo! È legge./ Il giorno declina, la notte cresce; ricordati!/ L’abisso ha sempre sete; la clessidra si vuota.// […]”

Giovanna Fracassi: Baudelaire sentiva ed esprimeva l'onnipotenza del tempo nei confronti dell'uomo e il suo ridurlo ad un trascurabile granello in un divenire a lui indifferente. Certamente anch'io sento la finitezza insita nella brevità dell'esistenza e nell'ineluttabilità del passare dei giorni e delle stagioni della vita. Tuttavia credo che non si debba soccombere alla disperazione che tale consapevolezza porta con sé. Non sentire l'angoscia del conto alla rovescia, che inizia fin dalla nascita per condurci inevitabilmente verso la nostra scomparsa, non è possibile. È però possibile accettare di non sapere né quanto ancora vivremo, né cosa sarà il “dopo” se ci sarà un “oltre”. Per accettare di non sapere e di non poter mai sapere, è necessario ancorarsi all'istante del qui ed ora che racchiude in realtà quel passato che nulla e nessuno ormai può portarci via perché costituivo del nostro Io e della possibilità di quell'essere in fieri che sostanzia la nostra speranza. Speranza che in fondo non si spegne mai del tutto perché insita nell'istinto di vivere. E qui si affaccia un altro tema a me caro, quello dell'Errante, colui che viaggia alla ricerca di se stesso e del mistero della vita. Quindi un ricercare sia interiore che nel mondo esperienziale. A questo quindi si ricollegano i temi del tempo e dello spazio. Le due direttrici fondamentali che già nella mia prima silloge, come ho prima ricordato, iniziavano ad emergere. L'uomo è errante nel suo tempo e nel suo spazio privati, grazie ai suoi ricordi e alle sue speranze, ma è errante anche nella storia di cui fa parte. Ugualmente ognuno di noi vive in uno spazio che ne condiziona la formazione e l'esistenza. Si tratta di uno spazio reale, contemporaneo ma anche di quello dei ricordi medesimi, nonché delle proiezioni future. Vi sono anche altri aspetti: lo spazio psicologico, lo spazio emotivo in cui il tempo della propria vicenda umana si manifesta e del quale in parte si sostanzia. In fondo l'uomo è percepibile a se stesso e agli altri per mezzo di queste dimensioni e di tutte le loro declinazioni. Per me il non poter andare “oltre” tutto questo costituisce un limite invalicabile, ma proprio perciò, oltremodo stimolante. Cosa c'é, e se c' è innanzitutto qualcosa “oltre”, è un mistero che affascina da sempre gli uomini e il fatto ineludibile di non poter mai raggiungere alcuna certezza, alcuna verità che sia poi appena condivisibile, è ciò che rende affascinante il nostro personale errare. Troviamo compagni in questo nostro viaggio? Certamente, alcuni per brevi istanti, altri per lungo tempo, per scelta o per necessità. Alleviano i nostri travagli e ci sostengono, come noi facciamo con loro. Possiamo condividere momenti di felicità e di scoperta e tramite l'altro cerchiamo di conoscerci anche più profondamente. Questo è un altro grande tema della mia poetica: l'essere in perpetua contrapposizione con il nostro Altro da noi, quella parte di noi che costituisce il primo e più importante termine di confronto -scontro della nostra vita. Quell' Altro da noi che però fa parte di noi stessi. I due nostri volti quello bianco e quello nero, la nostra parte chiara e quella oscura con la quale dobbiamo sempre fare i conti, più o meno consapevolmente. Qui nascono le nostre più profonde emozioni; quando questi continenti arrivano a cozzare l'uno contro l'altro si ergono le nostre vette e si spalancano i nostri crateri. Possiamo allora volare come l'aquila ed innalzarci verso l'estasi o bruciare nel magma delle nostre passioni.  

A.M.:Suona il piano/ dal cuore/ ardente.// Una stanza nel sole/ una camera nella penombra/ un camino odoroso.// […]”. Vorrei usare la lirica “Suona il piano” per parlare di musica e musicalità del verso. Per un poeta quanto è importante sentire il suono delle parole oltre al loro significato? Qual è il tuo metro di misura e con quali altri autori ti rapporti?

Giovanna Fracassi: La poesia è musica: musica del cuore perché è con le note dei sentimenti e delle emozioni che noi componiamo la canzone che è la nostra vita. Chi scrive non fa altro, in fondo, che scegliere di rendere manifesto tutto ciò. Compongo parole come le note compongono la musica che fa sempre da sottofondo al mio scrivere. Raramente scrivo senza musica perché essa mi consente di raggiungere quella disposizione d'animo più favorevole alla riflessione, mi aiuta a portare alla luce tutto ciò che è sedimentato dentro di me e che è la sintesi di tanti elementi: studio, letture, esperienze di vita, incontri, sentimenti, sofferenze e gioie passate e presenti. Amo leggere Leopardi, Neruda, Salinas e molti altri poeti. Sono per me maestri ineguagliabili.

A.M.: Riprendendo il discorso sulla tua produzione: qual è la pubblicazione a cui sei più legata e che ti ha dato più soddisfazioni?

Giovanna Fracassi: Questa è una domanda difficile: ogni mia silloge rappresenta una parte di me e del mio percorso di vita e di scrittrice.La cenere del tempo ha segnato l'inizio di una fase più matura del mio pensiero e anche del mio stile, che poi è proseguita con le successive raccolte. Probabilmente è anche il libro che ha maggiormente suscitato l'interesse dei miei lettori. A questo proposito invito tutti coloro che fossero interessati ad avere con me un contatto diretto, per discutere di qualsiasi argomento riguardante le mie sillogi, a non esitare a scrivermi.

A.M.: Salutaci con una citazione…

Giovanna Fracassi: Una poesia è qualcosa di assolutamente univoco. È un'esplosione, un grido, un urlo, un sospiro, un gesto, una reazione dell'anima... Essa parla dapprima solo al poeta stesso: è il suo respiro profondo, il suo grido, il suo sogno, il suo concitato difendersi.” – Hermann Hesse

A.M.: Giovanna, da anni, è un vero piacere discutere con te di poesia, ed è interessante che tu abbia concluso in prosa per parlare di poesia. Farò lo stesso, citando le parole di Khalil Gibran: “Il primo poeta deve aver sofferto intensamente quando gli abitatori delle caverne si mettevano a ridere delle sue folli parole.

Written by Alessia Mocci
Addetta Stampa

Info
Sito Giovanna Fracassi
http://giovannafracassi.altervista.org/
Facebook Giovanna Fracassi
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Acquista Nella clessidra del cuore
https://www.lafeltrinelli.it/libri/giovanna-fracassi/nella-clessidra-cuore/9788865915851
fracassi.giovanna@libero.it

Fonte
http://oubliettemagazine.com/2018/03/05/intervista-di-alessia-mocci-a-giovanna-fracassi-vi-presentiamo-il-nuovo-libro-nella-clessidra-del-cuore/


Intervista di Alessia Mocci a Cristina Zaltieri: traduttrice del filosofo francese François Zourabichvili per Negretto Editore


Sarebbe un delirio di onnipotenza pensare di porre termine ad ogni ibridazione del sé con l’altro (noi non siamo Dio, sia modi finiti di Dio) ma il cammino etico che Spinoza ci indica è quello del passaggio dall’essere in balia delle chimere alla separazione dagli inviluppi che ci snaturano (dipendenze, relazioni mortifere …) e inoltre dalla dipendenza inconsapevole dall’altro ad un’attiva sinergia con esso.” ‒ Cristina Zaltieri

François Zourabichvili è stato un filosofo francese, di origini armene, che si dedicò interamente alla comprensione e commento di Baruch Spinoza e Gilles Deleuze, approdando alla produzione di opere di folgorante intensità concettuale.

Docente all’Università Paul Valéry di Montpellier e direttore di programma del Collège International de Philosophie dal 1998 al 2004, ancor’oggi è poco conosciuto in Italia malgrado le quattro traduzioni dal francese in italiano (“Deleuze. Una filosofia dell'evento”, Ombre Corte 2002; “Il vocabolario di Deleuze”, “Spinoza. Una fisica del pensiero” ed “Infanzia e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza”, Negretto Editore, 2002 - 2017). In arrivo a marzo per la casa editrice Negretto Editore “Il divenire della filosofia di François Zourabichvili” un testo collettivo sulla filosofia di “Zoura”.

A 41 anni, ed esattamente il 19 aprile 2006, Zourabichvili ha deciso di interrompere la sua vita proprio come aveva fatto dieci anni prima Gilles Deleuze.

Curatrice e traduttrice dei tre volumi editi dalla Negretto Editore, Cristina Zaltieri è docente di filosofia ai licei e cultrice di filosofia all’Università di Bergamo. Dirige assieme alla stimata collega Rossella Frabbrichesi la collana “Il corpo della filosofia”. Precedentemente altri suoi lavori filosofici sono stati pubblicati per gli editori Guerini e Mimesis.

Per esporre e promuovere l’audace pensiero di François Zourabichvili è stato necessario richiedere l’ausilio di Cristina Zaltieri che con grande disponibilità ha accettato l’invito.


A.M.: Ciao Cristina, è un vero piacere ospitarti per questa chiacchierata sul filosofo francese François Zourabichvili. Ma prima di addentrarci nel tema specifico dell’intervista mi piacerebbe scorrere velocemente gli altri autori e testi che hai curato, penso per esempio “L’invenzione del corpo Dalle membra disperse all’organismo” nel quale ti dedichi a Platone, e non solo.

Cristina Zaltieri: Comincerei dal mio primo libro del 2001, nato da un’esperienza di lavoro decennale e da una circostanza particolare. Da alcuni anni tenevo, come docente a contratto, un corso propedeutico di Filosofia contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano, quando il professor Elio Franzini, docente di Filosofia Estetica presso tale Università, mi propose di scrivere per la collana “Orientarsi nel pensiero” di cui egli era direttore presso la casa Editrice Guerini un testo sulla filosofia del Novecento proprio in concomitanza con la fine di tale secolo, che mettesse a frutto la mia esperienza  d’insegnamento. La fine di un secolo, pur nella sua natura convenzionale e banale, poteva in effetti esser l’occasione per una sorta di bilancio filosofico su un periodo assai complesso e affollato di correnti e idee. È così che è nato Il secolo della conoscenza. Metafisica, linguaggio, verità, soggetto, metodo: cinque parole-chiave della filosofia del Novecento, il cui sottotitolo spiega quale fu la via da me utilizzata per percorrere un territorio impervio e vastissimo quale quello del pensiero del secolo XX. Scelsi cinque voci – a mio parere emblematiche – delle domande che avevano attraversato il pensiero del secolo per considerare, a proposito di ognuna di loro – metafisica, soggetto, linguaggio, verità e metodo – lo stato dell’indagine filosofica a partire dai pensatori più significativi di fine Ottocento-inizio Novecento per poi prendere in esame i percorsi che a mio parere – mostravano le soluzioni più originali e più dense di effetti speculativi emerse nel secondo Novecento. Tale indagine finiva indubbiamente per sconfessare una vulgata “escatologica” che ha decretato la “fine della metafisica”, la “morte della verità e del soggetto”, e la “impraticabilità del metodo”, alludendo insomma ad una morte della filosofia non avvalorata dal reale confronto con la pratica filosofica del secolo scorso. Una pratica che evidenzia piuttosto l’emergere di nuove espressioni della filosofia non più sottoposte all’egida dell’identità di essere e pensiero imperante da Parmenide a Hegel;  ovvero l’emergere di diverse forme della soggettività, nate dalla deflagrazione del soggetto moderno cartesiano, di un’esperienza della verità differente da quella dell’adeguazione di pensiero e cosa, di una considerazione del linguaggio altra rispetto a quella che lo vuole mero strumento di comunicazione a nostra disposizione, di una visione del metodo non più meccanica o deterministica, ma piuttosto come percorso (odos) esplorativo e inventivo. Il mio secondo lavoro, Felicità e bene comune. Etica e politica nel tardo Novecento, edito da Mimesis nel 2004, continua la ricerca sul pensiero del secolo appena concluso, dedicandosi all’ambito dell’etica e della politica nell’intento di mostrare le originalità che in tali ambiti il Novecento aveva prodotto. Per quanto riguarda l’Etica di certo le sfide più interessanti erano individuate in quel testo nella dimensione “tecnototalitaria” invasiva dell’esistenza e nella relazione con un’alterità capace di mettere in causa la presunta autonomia del soggetto; per quanto riguarda la riflessione politica novecentesca gli aspetti più originali concernevano la ricerca genealogica delle radici del “politico” e la prospettiva di una poiesis politica capace di restituire alla politica quella forza che non è solo della razionalità strumentale operante in vista dei fini, e di inventare nuovi gesti e nuovi scenari del con-vivere, spinta dal desiderio di “possibile”.
Nel 2008 inizia la collaborazione con l’Editore Silvano Negretto con la creazione della collana di testi filosofici “Il corpo della filosofia” diretta da Rossella Fabbrichesi e da me. L’incontro professionale (quello amicale risaliva ad anni prima) con Silvano Negretto editore-filosofo, aperto con coraggio verso un’editoria di pensiero critico, è stato molto stimolante. Uno dei frutti, oltre alle belle monografie di Barbara Stiegler, Camilla Pagani, Andrea Parravicini che Fabbrichesi ed io abbiamo potuto con il pieno appoggio di Negretto pubblicare nella collana, è il mio terzo libro, L’invenzione del corpo. Dalle membra disperse all’organismo, del 2009. Già il titolo fornisce un’indicazione della ricerca qui presentata. Si trattava di seguire un percorso genealogico, sulle orme di Nietzsche e del mio maestro Carlo Sini, che scavasse oltre l’immagine del corpo che si è affermata nella nostra cultura: quella del corpo-organismo evidenziandone la natura di modello dominante su cui l’Occidente ha costruito sia l’immagine del corpo della scienza medica sia l’immagine della comunità politica. Il percorso genealogico sul corpo-organismo mi conduceva a Platone come luogo di fondazione del corpo-organismo in quanto l’organismo, dove tutte le membra sono coordinate dal centro propulsore dell’anima, si mostra a Platone come l’unico recupero possibile e necessario per il suo progetto paidetico-politico che deve governare le anime ma anche i corpi.  Nel testo individuavo nel dialogo Fedro il luogo di nascita del corpo organismo poi descritto nel Timeo e ipotizzavo che Platone trovasse ispirazione per un modello organico del corpo non frequentato ai tempi dalla medicina ippocratica proprio nella pratica della scrittura. Nel Fedro Platone pone un parallelo tra il discorso scritto e l’animale dicendo che entrambi devono essere composti da parti in armonia tra loro e guidate da un motore centrale (nel testo scritto è la definizione, nel corpo è l’anima) presentando dunque un modello corporeo organico ispirato dal discorso scritto, dal testo.  La mia ricerca andava poi a considerare alcune riprese del modello organico e psicocentrato del corpo in Tito Livio e in Paolo di Tarso che, applicando tale modello, uno allo Stato l’altro alla Chiesa, ne valorizzano il carattere economico (l’organismo è un insieme che mira all’utile coordinando e disciplinando le forze molteplici del corpo) e il carattere immunitario (l’organismo definisce e contiene creando un confine netto tra ciò che è dentro il perimetro del corpo-comunità e ciò che è fuori, spesso avvertito come una minaccia). Inoltre si consideravano alcune, rare, eccezioni a tale modello organico, presenti nella nostra tradizione di pensiero: quelle del corpo senz’organi di Artaud e di Deleuze. Infine la mia ricerca genealogica finiva per giungere alla visione omerica dell’uomo nell’Iliade, privo d’anima e di corpo organico, ma disseminato in varie forze fisico-patiche, corpo polyedies, polimorfo, immagine lontana da quell’addomesticamento delle forze del corpo che si affermerà nel corpo-organismo dell’Occidente. Il prezzo di tale addomesticamento consisterà nell’affermazione di un corpo il cui valore si riduce soprattutto nell’efficienza produttiva, nella forza lavoro, nella chiusura immunitaria al mondo e dunque in un impoverimento della relazione uomo-mondo che ha nel corpo il luogo dell’incontro.
Non è certo un caso che il mio lavoro successivo a tale ricerca sul corpo, Il divenire della Bildung in Nietzsche e in Spinoza (Mimesis, 2013) sia interamente dedicato a due filosofi che mettono in causa la separazione platonica di anima e corpo e leggono quest’ultimo in modo assai lontano dal modello egemonico dell’organismo, valorizzandone appieno la funzione di luogo di metabolizzazione del mondo. Proprio da questa loro indagine di grande perspicuità e originalità sull’umano deriva, e nel testo cerco di mostrarlo, un progetto di formazione dell’uomo, di Bildung, di grande potenza e attualità, non ascrivibile al modello economico e dipendente dal principio di prestazione che purtroppo ha trionfato nella nostra cultura.


A.M.: Ed ora iniziamo con Zourabichvili. Nella sua prima monografia “Spinoza. Una fisica del pensiero” presenta Spinoza come “pensatore che tematizza il divenire”. In che modo questo discorso di mutazione continua in “Infanzia e regno”?

Cristina Zaltieri: François Zourabichvili è stato uno degli autori che mi hanno guidato nella ricerca di dottorato poi pubblicata con il titolo Il divenire della Bildung in Nietzsche e in Spinoza. Questo perché la lente attraverso la quale Zourabichvili legge l’opera di Spinoza è in effetti quella costituita dalla questione del divenire. Ciò rende particolarmente originali le sue due monografie dedicate al filosofo olandese. Cerchiamo di capire perché. In primo luogo, il termine “divenire” si riferisce al mutamento senza voler dare ad esso un senso, una direzione, lasciandolo esposto all’imprevedibilità dell’Evento. Nella nostra cultura il divenire degli enti ha sempre costituito un problema che la filosofia ha per lo più affrontato da Anassimandro fino alla scienza moderna cercando di sottoporre il cambiamento ad una legge, ad una regola in modo da imbrigliarne la forza eversiva e inquietante. Una delle soluzioni più radicali nei confronti del divenire è stata quella di Parmenide che lo nega perché incompatibile con la ragione. Ecco, Spinoza è stato per lo più letto come anch’egli filosofo dell’immobilità della sostanza, che relega il divenire, il mutamento nell’ambito dell’immaginazione fallace. Zourabichvili mostra di contro a tale lettura (che ha in Hegel un autorevole sostenitore) come in Spinoza agisca lungo l’intera sua opera il tema del divenire, a partire da quello etico, che può emendare la mente dell’uomo portandolo ad una più piena espressione della sua potenza, liberandolo dalle paure e dalle superstizioni che ne intristiscono le possibilità. In Spinoza. Una fisica del pensiero Zourabichvili ci presenta il pensiero spinoziano impegnato ad assumersi il confronto con quell’ospite inquietante che è il divenire fino a interrogarsi sul limite ultimo del suo procedere che è la trasformazione. Ne emerge il quadro di una filosofia anomala nel panorama della nostra tradizione, che non si lascia incasellare in nessuna delle partizioni classiche: idealismo, materialismo, empirismo, razionalismo… ma che richiede al lettore uno sforzo speculativo capace di tracciare nuove strade. È questo sforzo che lo Spinoza di Zourabichvili ci conduce a fare. A cominciare dalla questione della “forma”, che in Spinoza – come Zourabichvili dimostra – cambia statuto rispetto alla tradizione in quanto non è più separabile dall’ente singolare, ossia dal modo, bensì coincide con il quantum di potenza che il modo esprime. In tal senso la trasformazione intesa come passaggio di un ente da una forma ad un'altra restando se stesso non è pensabile in un’ottica spinoziana. Il titolo del testo che ha natura ossimorica parlando di una fisica del pensiero – da sempre disgiunte nella nostra filosofia – allude alla necessità indicata da Spinoza di pensare la materia di cui l’intera natura è composta in modo meno angusto di quanto il materialismo classico da sempre suggerisca.  Infatti se la Sostanza, ossia l’intera Natura, si esprime in infiniti attributi di cui due sono corporeità e pensiero, anche quest’ultimo pur indipendente dalle leggi meccaniche che presiedono gli incontri tra i corpi sarà governato da proprie leggi seguendo le quali i pensieri, le menti incontreranno altre menti, si comporranno le une con le altre, si separeranno, ecc. Buona parte del testo esplora questa terra di confine che è la fisica del pensiero per Zourabichvili essenziale al fine etico di emendare le menti da chimere e superstizioni. Tale lavoro etico-politico di emendazione prosegue, sempre sotto la guida di Spinoza, anche in Infanzia e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza laddove si tratta di ripensare il divenire singolare dall’infante all’adulto, di cui tutti abbiamo esperienza ma di cui difficilmente si comprende la profonda natura, e il divenire collettivo del volgo facilmente ammaliato da un’immagine divina della sovranità che la snatura – verso un’autonomia e una emancipazione capace di renderlo moltitudine libera.


A.M.: Zourabichvili sostiene “Il triangolo paradossale dello spinozismo: progredire è più in profondità imparare a conservarsi; e l’opera di conservazione rinvia costantemente alla questione della trasformazione. Possiamo intuire che questa sia la chiave per capire il titolo “Infanzia e regno” connesso al sottotitolo “Il conservatorismo paradossale di Spinoza”?

Cristina Zaltieri: Sì, hai ben colto il legame profondo, a prima vista paradossale, tra conservazione di sé e trasformazione che Zourabichvili vede al lavoro nell’intero percorso spinoziano. Come si è già detto, Spinoza è per Zourabichvili un pensatore che ci invita a pensare altrimenti e di più rispetto alla strada maestra tracciata dalla tradizione e che tiene insieme elementi tradizionalmente poco compatibili: natura e Dio, amore e intelletto e anche mutamento e conservazione. La questione va posta così: ognuno di noi è un quantum di conatus, ossia di potenza divina, destinato a variare ad ogni incontro con altri modi estesi, ossia corpi e di pensiero, ossia menti. Gli incontri sono inevitabili e necessari per ogni vivente che dunque è costantemente esposto alla variazione, al mutamento, ma – nello stesso tempo – per continuare a vivere deve conservare la potenza che lo costituisce, dunque deve, come insegna Spinoza, coltivare incontri e relazioni che incrementano la sua potenza ed evitare, laddove è possibile, di evitare incontri che la deprimono. In questo senso spinoziano Gilles Deleuze chiama la vita “arte degli incontri” e Laurent Bove parla dell’etica in termini di una “strategia del conatus”. Dunque Spinoza ci insegna che occorre conservarsi per mutare e mutare per conservarsi. Un esempio banale può essere quello dell’incontro tra un bambino e un buon cibo: il primo conserva la forza del suo corpo – modo dell’attributo dell’estensione – e della sua mente – modo dell’attributo del pensiero metabolizzando il cibo e nello stesso tempo va incontro a crescita, a mutamento con tale metabolizzazione.


A.M.: Che differenza intercorre fra il termine “mutamento” e “trasformazione”?

Cristina Zaltieri: Vi è un diverso grado di radicalità nei due concetti che indicano entrambi un divenire, laddove essi siano intesi in un senso “filosofico”. Il mutamento è un divenire che non comporta il passaggio da una forma ad un’altra, mentre la trasformazione reca in sé tale evenienza. Nel linguaggio comune i due termini sono intercambiabili, ma se vogliamo prestare attenzione al significato tecnico che acquisiscono nel discorso filosofico occorre riconoscere, come ci insegna lo stesso Zourabichvili, che Spinoza pur alludendo varie volte alla trasformazione non la ritiene compatibile con il permanere dell’individuo, dato che forma e individuo coincidono. Quindi laddove Spinoza ci pone di fronte al cambiamento radicale di un neonato in adulto o del poeta spagnolo che dopo strana malattia, non ricorda nulla tranne la lingua materna (entrambi casi molto studiati da Zourabichvili) non si tratta comunque di trasformazioni, semmai di variazioni del conatus che costituisce il bambino e di quello che costituisce il poeta. Quanto alle trasformazioni alchemiche Spinoza nella lettera XL a Jelles allude a sue ricerche a proposito ma in modo piuttosto vago. Possiamo però avanzare nei confronti dell’alchimia, laddove essa teorizzi trasformazioni da un elemento ad un altro senza alcuna connessione con il primo, ad esempio dal piombo all’oro, le obiezioni che Spinoza avanzava nei confronti della credenza nei miracoli ossia nella possibilità di eventi in netta rottura con le leggi della natura. Spinoza legge tali credenze solo come asylum ignorantiae, non certo come prova della grandezza di Dio a cui semmai fa fede il procedere stesso della natura secondo i suoi principi. Le cosiddette “trasformazioni” di cui non comprendiamo la natura (come quella del poeta in amnesico) testimoniano non certo che tutto può tramutarsi in tutto ma semmai i limiti del nostro intelletto, limiti che Spinoza spesso riconosce. Aggiungerei che la trasformazione è un tema specifico della lettura che Zourabichvili ci offre di Spinoza, è un problema zourabichviliano più che spinoziano; in un certo qual modo essa è, per Zourabichvili, l’ombra che accompagna ogni divenire esposto all’Evento, è lo stato limite che allude ad una possibilità: lo spezzarsi dell’individualità, ossia del conatus che non coincide per forza con la morte fisica.


A.M.: Enveloppement. Malgrado l’esistenza nella lingua francese della parola “implication”, Zourabichvili utilizza “inviluppo”. Potresti spiegarci brevemente la profondità di questo concetto?

Cristina Zaltieri: In lingua francese le parole enveloppement e implication hanno entrambe il significato di un ripiegamento che contiene in sé qualcosa d’altro da sé, come una busta che contiene un foglio, ma implication ha una più specifica accezione logica, come “implicazione” in italiano. Ecco perché Zourabichvili preferisce usare enveloppement che copre un’area semantica più ampia e che serve all’autore per rendere appieno la complessità di ogni ente. Attraverso l’idea deleuziana di “piega” e quella spinoziana di “affetto”, Zourabichvili riflette sulla complessità di ogni identità che appare sempre un inviluppo di alterità, una densità pluridimensionale di pensiero, affettività, corporeità, forza. In effetti ognuno di noi inviluppa in sé alterità in un intreccio composito presente sia a livello del corpo sempre amalgamato con altri corpi: quelli ingeriti, quelli impugnati nel lavoro o nelle pratiche quotidiane sia a livello del pensiero, laddove la nostra mente assorbe pensieri altrui, inviluppa le menti che incontra e che la affettano con la loro forza speculativa. L’immagine del mondo che ci viene offerta da Zourabichvili attraverso il concetto di inviluppo è quella di un piano d’immanenza non certo monodimensionale (solo materiale), neppure bidimensionale (composto da materia e spirito) bensì com-plicato da innumerevoli pieghe, addensamenti, intrecci, commistioni…


A.M.: Ci troviamo di fronte a due forme, due chimere, l’infans -adultus ed il Dio-re.  Che cosa sono esattamente ed in che modo ci si può liberare da esse?

Cristina Zaltieri: “Chimera” è concetto utilizzato da Spinoza per indicare un inviluppo di più nature che non implementa il conatus delle entità implicate bensì le snatura; si tratta, dice Zourabichvili, di un inviluppo canceroso, una mescolanza di alterità la cui specificità, rispetto agli inviluppi ‘virtuosi’, sta nel tenere insieme ciò che è incompatibile e dunque destinato ad un esito distruttivo. In Infanzia e regno Zourabichvili legge in Spinoza una critica del regime chimerico a cui spesso l’uomo si espone alienandosi. Due chimere contro cui Spinoza lotta sono, per l’appunto, quelle dell’infans-adultus e del Dio-re. Nella prima chimera, l’infanzia inviluppata nell’adultità sortisce l’effetto di leggere la prima come semplice mancanza della seconda, come stato di impotenza e di miseria rispetto alla compiutezza dell’adultità e non come età coi propri doni e i propri peculiari caratteri; di contro l’infanzia inviluppata nell’età adulta proietta sull’adulto l’ombra di una immaturità e di una sudditanza a tutto ciò che è esterno. Nella seconda chimera del Dio-re, a Dio si attribuisce lo scettro del comando, leggendolo come un sovrano che regge e controlla il mondo mentre la sovranità è snaturata laddove al potere politico che le compete si attribuisce una sacralità, una aurea divina che non appartiene alla sua natura. Infans-adultus e Dio-re sono due espressioni dell’alienazione individuale e collettiva dell’uomo che la lettura di Spinoza ci invita a combattere al fine di conseguire quello che Zourabichvili definisce un «regime non chimerico dell’inviluppo». Ora, come liberarsi dalle chimere?  Spinoza, secondo Zourabichvili e secondo la mia stessa lettura presentata in Il divenire della Bildung in Nietzsche e in Spinoza, pone come centrale nel suo percorso etico un lavoro paidetico che assume in questa luce l’aspetto di un lavoro capace di separare gli inviluppi mortiferi, chimerici, da quelli ‘buoni’ e di insegnare ad assumere l’inviluppo, generato inevitabilmente dai costanti e inevitabili incontri con l’alterità, come luogo del dispiegamento della propria natura, della propria potenza. Sarebbe un delirio di onnipotenza pensare di porre termine ad ogni ibridazione del sé con l’altro (noi non siamo Dio, sia modi finiti di Dio) ma il cammino etico che Spinoza ci indica è quello del passaggio dall’essere in balia delle chimere alla separazione dagli inviluppi che ci snaturano (dipendenze, relazioni mortifere…) e inoltre dalla dipendenza inconsapevole dall’altro ad un’attiva sinergia con esso.



A.M.: Nel Capitolo V del Trattato teologico-politico troviamo: “Quando uscirono dall’Egitto, gli Ebrei non erano più vincolati al diritto di un’altra nazione; potevano liberamente sancire nuove leggi, ossia istituire un nuovo diritto, fondare uno Stato in un luogo qualsiasi e occupare le terre che preferissero.” Zourabichvili si sofferma sulla stessa citazione per analizzare la moltitudine rivoluzionaria e la moltitudine libera, in comparazione con l’ex poeta amnesico del celebre scolio spinoziano. La storia umana può essere vista come un alternarsi di memoria ed oblio?

Cristina Zaltieri: La citazione che hai qui ricordata intreccia insieme molti e complessi motivi spinoziani. In primo luogo diciamo che in questo passo del Trattato teologico-politico Spinoza considera il passaggio degli Ebrei da schiavi degli Egizi a cittadini di uno Stato che si trattava di costituire ex novo, cosa che verrà attuata sotto la guida di Mosè, dipinto da Spinoza come saggio educatore. In un certo qual modo, anche gli Ebrei, come il poeta spagnolo, si trovano all’uscita dall’Egitto amnesici, privi di una memoria politica, ormai cancellata da generazioni costrette alla schiavitù. Ma, nel loro caso a differenza del poeta amnesico, l’assenza di memoria gioca a loro favore aprendo la possibilità dell’invenzione di un nuovo Stato, di una nuova collettività. La memoria, per Spinoza, è una costruzione di connessioni per lo più meccaniche, sotto l’egida dell’immaginazione. Sotto la sua egida trascorre in gran parte l’esistenza di ognuno di noi scandita da azioni, da pratiche che ripetiamo per abitudine, perché memorizzate. In questo senso gli Ebrei appena usciti dall’Egitto possono essere definiti una pluralità “infante” la cui memoria collettiva non è stata ancora tracciata, solcata, da una prassi politica definita. È una “moltitudine libera” osserva Zourabichvili utilizzando un concetto che troviamo nel Trattato politico, perché posta in una sorta di guado laddove la vita civile è ancora da inventare, da costruire. Ben più difficile è pensare che un popolo si affranchi pienamente rovesciando una tirannia perché per Spinoza, un tale popolo sarebbe portato a ripetere gli habitus appresi nel precedente governo e a ricadere sotto un’altra tirannia, come la storia ci insegna. Spinoza ci mette in guardia dai rischi che il peso della memoria individuale e collettiva comporta, laddove non sottoposta a una critica della ragione – finisce per dominare incontrastata le nostre vite ostacolando il mutamento di abiti, di comportamenti che ci rendono servi. Il cammino etico di mutamento delle passioni in azioni ma anche quello politico di liberazione da ogni servaggio richiedono dunque un lavoro sapiente che dosi memoria e oblio in modo tale da farci evitare la ripetizione fatale dell’institutum vitae che ci inviluppa in chimere mortifere o che ci fa servi di poteri iniqui.


A.M.: Perché Spinoza utilizza “corpus infantiae” (corpo dell’infanzia) invece di “corpus infantis” (corpo dell’infante)?

Cristina Zaltieri: Vi è solo un luogo nell’opera di Spinoza in cui lui usa l’espressione “corpus infantiae”, ed è nello scolio della proposizione 39 del libro V dell’Etica. In effetti è curioso il ricorso all’astrazione da parte di un filosofo che non ha fiducia nella capacità conoscitiva degli universali. Inoltre non si tratta di un lessema in uso presso gli autori latini letti e spesso citati da Spinoza (Lucrezio, Seneca, Ovidio…), dunque quest’espressione potrebbe proprio essere un’invenzione spinoziana. La troviamo verso la fine dell’Etica laddove Spinoza dice: “In questa vita, dunque, siamo spinti soprattutto a far sì che il corpo dell’infanzia (corpus infantiae) si trasformi, per quanto la sua natura consenta e vi sia disposta, in un altro che sia atto a moltissime cose e si riferisca ad una mente che sia il più consapevole di sé e di Dio e delle cose”. (Etica, V, 39, scolio) È una frase molto bella che si presta a compendiare l’intero percorso etico proposto da Spinoza e di certo l’uso del termine “corpo” unito al genitivo astratto “dell’infanzia” finisce per sprigionare una sorta di forza aforistica, quella che Zourabichvili ritiene sia propria dei concetti potenti. La frase ci suggerisce di pensare la formazione dell’uomo nei termini di uno sforzo collettivo (“siamo spinti”) teso a una mutazione in direzione del superamento di quell’impotenza infantile di cui il “corpo dell’infanzia” è per tutti noi l’emblema, suggerendoci di pensare tale corpo non solo legato alla prima età di cui non abbiamo memoria, e del cui cammino verso l’autonomia tutti dobbiamo farci carico, ma anche ad un stato, possibile purtroppo a tutte le età, in cui si può sempre palesare la chimera dell’infans adultus, di colui che è ancora immerso nell’impotenza dell’infanzia, nello stato di minorità proprio di tale età, pur essendo adulto.


A.M.: In che modo Zourabichvili è innovativo nella sua analisi sul pensiero di Spinoza rispetto al filosofo Gilles Deleuze ed allo psicoanalista e psichiatra Félix Guattari?

Cristina Zaltieri: Zourabichvili, nella sua breve vita, si è dedicato allo studio di Spinoza e di Deleuze, dedicando due monografie a ciascun autore. Il suo lavoro filosofico potrebbe quindi essere rubricato come quello di un commentatore; in realtà egli affronta Spinoza e Deleuze con una forza teoretica capace di esprimere un’originalità di pensiero che ci impedisce di pensarlo come un semplice epigono di Deleuze. La sua lettura di Spinoza è certo debitrice di quella di Deleuze per quanto concerne l’impostazione: egli legge in Spinoza, come ho già detto, non il filosofo dell’immobilità della sostanza, ma il filosofo che ha affrontato la questione del divenire e delle sue aporie e, soprattutto, uno dei rari filosofi della nostra tradizione che pensa radicalmente l’immanenza, senza rigurgiti di platonismo. Direi che Zourabichvili si spinge attraverso Spinoza nel territorio dell’immanenza con una radicalità speculativa senza pari. Prima di tutto trae da Spinoza l’ispirazione per una “fisica del pensiero” capace di pensare una materia davvero plurale, davvero comprensiva di tutti gli aspetti del reale. Inoltre tematizza l’inviluppo come addensamento che costella l’immanenza, che ne sviluppa le pieghe, i nodi di virtualità, le profondità: l’immanenza non è così da pensare come una piatta superficie, non è riducibile al “neutro” di Blanchot o l’“il y a” di Levinas, ossia a un tutto indifferenziato che annichilisce ogni specificità. Infine, egli tematizza la questione della trasformazione come punto estremo del divenire, come possibile rottura di una forma forzando la filosofia a pensare in territori-limite quali quelli dell’inviluppo mortifero o del venire meno dell’individualità non necessariamente nella morte fisica. Anche la lettura dell’infanzia e della sua rilevanza filosofica in Spinoza è in Zourabichvili differente da quella che a tale riguardo Deleuze e Guattari presentano in Millepiani. In Millepiani  Deleuze e Guattari scrivevano: “lo spinozismo è il divenir-bambino del filosofo” volendo significare che in Spinoza la domanda definitoria che caratterizza la filosofia da Socrate in poi passa da “cos’è un ente?” a “cosa fa un ente?”, seguendo in questo modo l’interrogare tipico del bambino che definisce “pragmaticamente” le cose (per il bambino il cane non è un mammifero ungulato (secondo la definizione scientifica), ma il cane  è quell’ente che abbaia, scodinzola, lecca il padrone, ecc…). Per Zourabichvili “il divenir-bambino del filosofo” insegnato da Spinoza è da intendere soprattutto come un’esplorazione della propria potenza, dei suoi effetti in ogni procedere del corpo e della mente che deve rendere lo sguardo del filosofo una sorta di sguardo infantile sulle cose, nel senso che tale sguardo cerca di precedere ogni commiserazione, derisione, valutazione che sia per incentrarsi su “cosa posso fare” come accade al bambino che si concentra su cosa può fare un piede, una mano, ecc.


A.M.: Come ti trovi con la casa editrice Negretto Editore? La consiglieresti?

Cristina Zaltieri: Beh, questa è una domanda facile, l’unica facile che mi hai posto. La collaborazione con Silvano Negretto è stata ed è tuttora per me, ma penso di poter parlare anche a nome di Rossella Fabbrichesi che dirige insieme a me la collana “Il corpo della filosofia”, quanto mai felice e fruttuosa. Quando ancora nel 2008, all’inizio della sua attività di Editore proposi a Silvano Negretto la pubblicazione delle traduzioni di ben tre monografie di un autore completamente sconosciuto come era allora in Italia François Zourabichvili, Silvano accettò e certo non per motivazioni economiche ma perché, da appassionato di filosofia come egli è, riconobbe in quel giovane filosofo una forza speculativa da valorizzare e far conoscere. Così traducemmo e pubblicammo dal 2012 al 2016 Spinoza. Una fisica del pensiero, l vocabolario di Deleuze, e Infanzia e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza (Deleuze. Una filosofia dell’evento era già stato tradotto e pubblicato nel 2002 dalla casa editrice Ombre Corte di Verona). Aggiungo che è in uscita a marzo, sempre grazie a Negretto, un testo, il primo in Italia, interamente dedicato a Zourabichvili: Il divenire della filosofia di François Zourabichvili, atti di un Convegno organizzato dal Seminario Spinoza dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il Collège International de Philosophie di Parigi e con il Corso di perfezionamento in teoria critica della società dell’Università Bicocca. Nello stesso modo Rossella Fabbrichesi trovò in Silvano Negretto un sostenitore per la traduzione e la pubblicazione di Nietzsche e la biologia di Barbara Stiegler, da lei individuata come originale lettura del forte e poco indagato legame tra la filosofia niezscheana e le scienze della vita a lui contemporanee, e di Genealogia del primitivo e La mente di Darwin dei giovanissimi studiosi Camilla Pagani e Andrea Parravicini. Insomma, tutto questo è stato uno sforzo non indifferente per una piccola casa editrice, sforzo che ne attesta però la vitalità e l’attenzione per la qualità e l’attualità del pensiero. E questo solo per parlare del lavoro svolto da Negretto nell’ambito della filosofia, ma la vitalità della Casa Editrice si è espressa anche in altri ambiti, poetico, antropologico, psichiatrico…  Per concludere, certo che consiglio la frequentazione dei libri della Negretto Editore, dato che ho potuto constatare attraverso una collaborazione ormai decennale, l’assoluta dedizione alla causa della diffusione del sapere senza alcun ammiccamento al mercato ma con l’attenzione alla qualità delle opere, un lusso che Negretto si permette non perché ricco ma perché filosofo nel senso che Socrate dà alla parola nella preghiera finale del “Fedro”: “fai che io stimi ricco il sapiente e che possa avere un quantità di oro quale nessun altro potrebbe fare incetta o portarsi via se non il temperante”.


A.M.: Salutaci con una citazione…

Cristina Zaltieri: Concluderei con una frase che mi è molto cara e che credo sarebbe piaciuta a François Zurabichvili. Non è di un filosofo, è di un chimico per formazione, che ha avuto la sventura di incontrare nel mondo l’insensato e il terribile ma che in questa frase, a mio parere molto spinoziana, ci consegna un’immagine vitale e propositiva: la vita come “caosmos” dove proprio le pieghe, gli inviluppi, le infrazioni alle regole, sono preziose riserve del virtuale e del possibile futuro.
“La vita è regola, è ordine che prevale sul Caos, ma la regola ha pieghe, sacche inesplorate di eccezione, licenza, indulgenza e disordine. Guai a cancellarle, forse contengono il germe di tutti i nostri domani, perché la macchina dell’universo è sottile, sottili sono le leggi che la reggono, ogni anno più sottili si rivelano le regole a cui obbediscono le particelle subatomiche.P. Levi, Il rito e il riso in L’altrui mestiere, Einaudi, Torino, 1985, p.184-5.


A.M.: Cristina, ti ringrazio non solo per il tempo che mi hai dedicato ma per le numerose riflessioni che mi hai donato sul pensiero di François Zourabichvili. Ti saluto con le parole di Plotino: “Se ci è data la possibilità di assimilarci a Dio, anche se non esattamente sulla base delle stesse virtù, ma avendo una diversa disposizione in relazione a virtù diverse, nulla vieta che noi, con le nostre virtù, possiamo renderci simili a chi non possiede virtù, se solo in questa assimilazione non facciamo riferimento a delle virtù. E come? Così. Se qualcosa esposto al calore si riscalda, è forse necessario che anche la fonte del calore venga a sua volta riscaldata? […] Nel fuoco c’è sì il calore, ma un calore connaturato, cosicché se si vuole fare un ragionamento secondo l’analogia col fuoco, si dovrà ritenere che nel caso dell’Anima la virtù è una qualità acquisita, nel caso di Dio è invece connaturata […]


Written by Alessia Mocci
Ufficio Stampa Negretto Editore

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http://oubliettemagazine.com/2018/02/22/intervista-di-alessia-mocci-a-cristina-zaltieri-traduttrice-del-filosofo-francois-zourabichvili-per-negretto-editore/


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Quanto costa un investigatore privato? Tariffe remunerative di un detective

Molti si chiedono il costo di un investigatore privato, vediamo di capire come viene calcolato il lavoro di una agenzia investigativa. Innanzitutto non è semplice quantificare in termini di denaro il lavoro svolto da un investigatore privato, poiché nell’effettuare le indagini entrano in campo delle variabili che dipendono da diversi fattori, innanzitutto il tipo di strumentazione necessaria da utilizzare per far luce sulle indagini, in secondo luogo il tempo impiegato per effettuare le ricerche, che non è sempre quantificabile, non per ultimo gli imprevisti che possono presentarsi durante lo svolgimento del lavoro.

Tutti questi elementi non possono essere calcolati e preventivati a priori, poiché come è bene ribadire ogni caso è unico, dunque non esiste un procedimento che può essere definito standard e applicabile indifferentemente ad ogni tipo di caso, il servizio è in tutto e per tutto personalizzato.

Naturalmente le tariffe legate al lavoro di un investigatore privato non sono arbitrarie ma sono regolate da un tariffario visionabile presso gli uffici di prefettura del comune di appartenenza, i quali prevedono una ricompensa minima e una massima per ogni tipo di indagine eseguita.

Il costo delle prestazioni svolte da un detective privato variano anche in base alla sua bravura e affidabilità, in linea di massima un professionista che possiede anni di esperienza nel settore percepisce una ricompensa per il suo lavoro superiore a quella di un principiante. Affidarsi ad un detective affermato è un’importante garanzia per i risultati ottenuti. Un eccellente investigatore è abile a svolgere il suo lavoro senza essere scoperto, i risultati e le prove da lui testimoniate sono inconfutabili e hanno valore in sede di tribunale.

Per fornire un’idea generale sulla parcella di un detective, possiamo facilmente affermare che in linea di massima per un professionista la tariffa oraria è di 50 euro, se poi il servizio richiesto è immediato e non preventivamente concordato la tariffa sale a 100 euro l’ora, l’utilizzo di strumenti investigativi accessori vengono ad aggiungersi alla sola prestazione individuale.

La professionalità e la discrezione sono indubbiamente alla base delle caratteristiche di eccellenza di una agenzia investigativa, facendo una ricerca sul web troviamo molti investigatori privati che affermano di operare in modo esperto e coerente, proviamo in ogni caso per utilità ad indicarvi alcune delle agenzie di investigazioni che operano secondo regole precise e con maggiore esperienza e trasparenza anche nel calcolo delle tariffe secondo il servizio di detective richiesto. Investigazioni Ponzi Luciano, indubbiamente una delle più note e storiche agenzie con sedi investigative a Milano, Brescia e Verona, in generale presente in tutta Italia, fondata nel 1958 da Vittorio Ponzi, fratello di Tom Ponzi a questo link potete trovare tutte le attività svolte dall'agenzia investigativa www.lucianoponzi.it. Inoltre non possiamo non citare l'agenzia Axerta anche'essa attiva sul territorio italiano e come per Investigazioni Ponzi si occupa di attività investigativa a supporto di aziende, persone e per la sicurezza con tariffe trasparenti e riconosciute.