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Darcy Ribeiro e la Saudade


“Se nossos governantes não fizerem escolas, em 20 anos faltará dinheiro para construírem presídios.” 
(“Se i nostri governatori non faranno scuole, in 20 anni saranno necessari soldi per costruire le prigioni.”) ‒ Darcy Ribeiro

Figlio del farmacista Reginaldo Ribeiro dos Santos e dell’insegnante Josefina Augusta da Silveira, lo scrittore, antropologo, educatore ed uomo politico Darcy Ribeiro nasce il 26 ottobre del 1922 a Monte Claros (Minas Gerais in Brasile). Frequentò gli studi nella sua città natale, entrò nella facoltà di Medicina ma la abbandonò ben presto decidendo di lavorare in ambito di scienze politiche.

Si laurea nel 1946 in Sociologia con una specializzazione in etnologia presso l'Universidade de São Paulo e l'anno successivo iniziò una decennale peregrinazione nella regione del Pantanal, nelle foreste del Brasile centrale e in Amazzonia, che lo portò a convivere con alcuni popoli indigeni: i Kadiwéu, cui dedicò la sua prima monografia (Kadiwéu, 1950), ed i Kaapor. L’antropologo è tra i fondatori dell'Universidade de Brasília, di cui divenne il primo rettore, fu ministro dell'Educazione ed ebbe altri incarichi durante la presidenza di João Goulart (1961-64).

In seguito al golpe militare fu costretto all'esilio: soggiornò in America Latina (Uruguay, Venezuela, Cile e Perù), in Europa ed in Algeria. Rientrò in Brasile nel 1976, dove venne eletto vicegovernatore dello Stato di Rio de Janeiro; nel 1991 fu eletto senatore e l'anno seguente divenne membro dell'Academia brasileira de letras.

Durante il lungo periodo dell’esilio si dedicò alla progettazione di programmi di riforma ed alla composizione dei cinque volumi dei suoi Estudos de antropologia da civilização. Pubblicò il primo romanzo, “Maíra” (1976), al suo rientro in Brasile. Seguirono “O mulo” (1981), la fiaba “Utopia selvagem” (1982) ed il romanzo “Migo” (1988).

Nel 1991 seguì l'opera memorialistica “Testemunho”, nel 1995 il saggio di antropologia culturale “O povo brasileiro”, la raccolta di saggi e discorsi “Noções de coisas” (1995) ed i Diarios índios (1996). Oltre ad una ricchissima produzione saggistica si ricorda il libro autobiografico pubblicato lo stesso anno della morte “Confissões” ed il libro di poesie pubblicato postumo nel 1998 “Eros e Tanatos”.

Personalità poliedrica e indipendente, ha dato un contributo rilevante, culturale e progettuale, in ciascuno dei settori in cui ha operato. È morto il 17 febbraio 1997 all’età di 74 anni, vittima di cancro.

Nell’autobiografia scrive:Termino esta minha vida já exausto de viver, mas querendo mais vida, mais amor, mais saber, mais travessuras” (“Termino questa vita già sfinita dal vivere, ma voglio più vita, più amore, più conoscenza, più scherzetti”).

Il libro “Utopia selvaggia ‒ Saudade dell’innocenza perduta. Una fiaba” di Darcy Ribeiro sarà pubblicato nel mese di maggio 2019 dalla casa editrice mantovana Negretto Editore con la traduzione di Katia Zornetta e con prefazione di Giancorrado Barozzi.

Il termine “saudade” richiama l’epoca medioevale delle liriche dei Canzonieri galego-portoghesi scritte fra il XII d il XV secolo nelle quali ritroviamo “soydade” e “suydade” con successiva evoluzione del dittongo oi in au. Il fenomeno è insolito e ha diverse ipotesi, ha derivazione dal latino sōlĭtās, solitātis, (“solitudine”, “isolamento”) ma è da considerare la presenza di influssi da altri termini, per esempio dal verbo latino saudar (“salutare”) o da espressioni arabe suad, saudá e suaidá (“profonda tristezza”).

La Saudade va collegata esclusivamente al Portogallo e successivamente alle colonie, una parola intraducibile in altre lingue come similmente accade per spleen, flâneur e sehnsucht. Potremo definirla come una nostalgia, quasi un’aspirazione metafisica di qualcosa di intimo che conosciamo nel campo dell’intuito e che quindi esiste prima ancora di conoscerne l’esistenza. La saudade è collegata alla tradizione marinara del Portogallo che geograficamente è aperto all’oceano Atlantico.

Un senso di malinconia e solitudine che nasceva sia nei marinai che lasciavano la propria terra sia da coloro che invece restavano in patria ad attendere il ritorno. Dei canti simultanei di uomini che attraversavano il grande mare per la bramosia di scoperta e successivamente di commercio e di donne che davanti a scogliere e spiagge s’interrogavano sul possibile rimpatrio. Dunque non possiamo semplicemente tradurre saudade in nostalgia (in portoghese “nostalgia”, “falta”) o solitudine (in portoghese “solidão”) perché è una parola collegata al viaggio, al mare ed alla distanza, a quel sentimento di chi parte e di chi resta congiunto dall’aspettativa di incontro e di riapparizione.

Durante i secoli poeti e scrittori hanno cercato di dar voce a questo sentimento, di narrarlo ed esplicarlo. Giungiamo sino ai nostri giorni con Darcy Ribeiro e quel suo “Saudade dell’innocenza perduta come se questo sentire non conosciuto temporalmente fosse accreditato nella realtà grazie all’intuito. In questo modo abbiamo un duplice significato del sottotitolo della fiaba “Utopia selvaggia”, la saudade può esser riferita sia alle popolazioni indios ancora viventi nella grande Amazzonia, percependo in loro un’innocenza perduta a causa della violenta invasione dell’europeo; sia alla Penisola Iberica nel sentimento legato al ricordo di quei coloni che lasciarono la patria per trasferirsi in Brasile e di quelle generazioni successive che non hanno mai visitato la terra d’origine ma alla quale hanno sempre sentito in appartenere nel profondo.

Chi siamo noi, se non siamo europei, e nemmeno siamo indios, se non una specie intermedia, tra aborigeni e spagnoli? Siamo coloro che furono disfatti in quel che eravamo, senza mai arrivare ad essere quel che saremmo stati o avremmo voluto essere. Non sapendo chi eravamo quando permanevamo innocenti in loro, inconsapevoli di noi, ancor meno sapremo chi saremo. […] Stanchi e nauseati dallo sforzo di fingere di essere chi non siamo, imparammo finalmente ad aprire gli occhi e a creare specchi per guardarci.” “Utopia selvaggia”

Written by Alessia Mocci
Ufficio Stampa Negretto Editore

Info
Sito Negretto Editore
https://www.negrettoeditore.it/
Pagina Facebook Negretto Editore
https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/
Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/02/16/le-metier-de-la-critique-darcy-ribeiro-e-la-saudade/

Darcy Ribeiro e il romanzo utopico: la prefazione di Giancorrado Barozzi del romanzo Utopia selvaggia


Terzo dei quattro romanzi pubblicati in vita da Darcy Ribeiro, poliedrico autore (per un 30% antropologo evoluzionista, per un altro 30% politico riformatore, per un 20% intellettuale cosmopolita e per il restante 20% boccaccesco affabulatore), Utopia selvagem, che si presenta qui in una nuova traduzione, fonde assieme, come in una tropicale sarabanda di Carnevale, elementi tra loro eterogenei, in apparenza inconciliabili.

La fabula del romanzo consiste in un’incredibile, quanto involontaria, incursione picaresca nel mondo selvaggio della quale sostiene di essere stato protagonista un patriottico disertore che, nei suoi esilaranti incontri-scontri col potere di ogni sorta (politico, militare, religioso e sessuale), ricorda molto da vicino il buon soldato Švejk di Hašek.

L’intreccio segue, passo per passo, senza ricorrere ad alcun artificio estetico, gli assurdi eventi capitati al protagonista. Eppure, al di là della sua assoluta semplicità compositiva, questo romanzo risulta gravido di riferimenti culturali di notevole interesse e spessore. Innanzi tutto, esso appartiene a quella provocatoria tradizione del nuovo che in Brasile, già a partire dagli anni Venti del Novecento, col Manifesto antropofago di Oswald de Andrade, si autoproclamò «cultura cannibale» e che nel romanzo mitologico Macunaima di Mario de Andrade (1928) trovò una precoce, dirompente affermazione.

Nei tempi moderni l’uomo bianco (portatore di una civiltà urbana e occidentale) doveva finire divorato dalla cultura amazzonica, la quale solo grazie a questo simbolico festino cannibalesco avrebbe potuto rigenerarsi acquisendo per ingestione i germi fecondi delle avanguardie europee senza tuttavia rinunciare alla genuina eredità del mondo aborigeno.

Queste furono le paradossali teorie professate dai due de Andrade e da quel gruppo di artisti brasiliani che allora diedero vita alla Revista de Antropofagia. Mezzo secolo dopo nel medesimo, «cannibalesco» confronto tra tradizione e innovazione venne a trovarsi irretito anche il protagonista di questo romanzo scritto da Ribeiro.

Anch’egli, come Macunaima, è un eroe privo di carattere, ma a differenza del suo mitico antecedente, appartiene alla specie umana e non discende dall’Olimpo delle divinità amazzoniche. Macunaima, il personaggio creato da Mario de Andrade, era un tipico trickster, ossia un dio minore dal carattere beffardo, violento e amorale, mentre l’eroe dal triplice nome (tenente G. Carvalhal/Pitum/Orelhão) ideato da Ribeiro appartiene piuttosto alla schiera degli schlemihl: gli sciocchi e sfortunati protagonisti di tante opere letterarie, dal Woyzeck di Büchner (1837) allo Švejk di Hašek (1923). Tutti «bravi soldati», un po’ tardi di comprendonio, che inconsapevolmente vanno a cacciarsi nelle situazioni più estreme e ingarbugliate.

Senza dubbio Ribeiro, nel concepire Utopia selvagem, si rifece in modo consapevole a una tradizione preesistente e da tempo collaudata: quella composta dai racconti orali sugli sciocchi e da quelle opere letterarie che, per illustrare l’assurdità della realtà di ogni giorno, adottano il punto di vista straniante d’un soggetto ritenuto pazzo o idiota dai comprimari della fiction.

Rispetto ai suoi illustri antecedenti, il protagonista di questo romanzo possiede tuttavia un notevole vantaggio: in ogni circostanza non cessa mai di stare in ascolto degli «altri» (da qui il suo soprannome di Orelão: Orecchione) e di porre domande, sia a se stesso che a chiunque incontri sul suo cammino. A salvarlo dall’annientamento sono appunto la sua insaziabile curiosità e la sua logorroica loquacità, che solo alla fine del romanzo, di fronte all’enormità della situazione vissuta, vengono ad acquietarsi.

Poco importa che, il più delle volte, le sue domande sembrino mal poste o finiscano con l’irritare gli interlocutori. Quel che più conta è la capacità, da lui dimostrata, di non prendere mai per scontati i bizzarri mondi in cui è capitato, il suo istintivo interrogarsi su quel che un domani sarà di lui e sui destini futuri delle comunità che, suo malgrado, lo stanno ospitando. Un po’Amleto e un po’ Socrate, Pitum/Orelhão, grazie a questa sua predisposizione al saper porre (e porsi) domande, si dimostra in fin dei conti assai meno sprovveduto di quanti intorno a lui vivono in modo animalesco, seguendo ciecamente antiche tradizioni (le icamiabas/amazzoni), o di chi appare dominato da una qualsiasi ideologia, sia essa del progresso (le suore missionarie) o dell’atavismo (lo sciamano Cunhãmbebe).

E qui entra in gioco un altro fondamentale ingrediente del romanzo di Ribeiro: la sua straniante ispirazione antropologica. Accanto a un ludico, ma pienamente consapevole, radicamento nel terreno dell’intertestualità letteraria, Utopia selvagem rivisita infatti uno ad uno, con smagata ironia, anche i canoni classici della scrittura degli antropologi. In questo senso l’autore dimostra d’avere fatto tesoro delle sue giovanili esperienze di ricerca sul campo presso varie tribù amazzoniche (Kaidivéu, Kaiowàs, Terenas e Ofaié-Xavantes), da lui stesso compiute, per conto del SPILTN (Serviço de Proteção aos Índios e Localização de Trabalhadores Nacionais, organo governativo sostituito nel 1967 dal FUNAI: Fundação Nacional do Índio), una quarantina d’anni prima della stesura del romanzo, in compagnia della giovane moglie Berta Gleizer (1924 -1997). Di quell’esperienza, divenuta fondante per la sua formazione, Ribeiro ha lasciato testimonianza nei propri Diàrios Índios, che si aprono, in segno d’affettuoso omaggio, col nome della moglie, anch’ella etnologa e antropologa, dalla quale in seguito, nel 1974, egli si separerà.

La dimensione antropologica del romanzo appare evidente non solo per via della generica ambientazione del libro nel «mondo selvaggio» della foresta pluviale, ma prende corpo soprattutto nelle numerose focalizzazioni su usi, costumi e manufatti del mondo indigeno che l’autore inserisce, sempre in modo pertinente, nel tessuto narrativo rendendole parti integranti dell’incredibile vicenda vissuta da Pitum/Orelão.

Da defunzionalizzati reperti custoditi in un museo etnografico o da pedanti informazioni scientifiche racchiuse in un trattato d’antropologia, i dettagli «etnici» sparsi a piene mani da Ribeiro in questo suo romanzo riacquistano così il loro più autentico valore di cose e istituzioni intimamente connesse con la vivente realtà del mondo amazzonico. Una realtà che l’autore rappresenta senza alcun atteggiamento nostalgico, ma anzi con quel pizzico d’ironia e di comicità che s’addice a chi delle sorti di quel mondo è sinceramente partecipe, pur essendo costretto, per provenienza sociale e formazione culturale, a osservarlo da estraneo.

I Tropici di Ribeiro non sono «tristi» come quelli di Lévi-Strauss. Con l’antropologo francese l’autore brasiliano mostra di avere tuttavia più di un punto in comune: anch’egli sa interpretare infatti con scrupolo scientifico il contesto amazzonico riuscendo, attraverso il suo particolare stile giocoso e leggero ma non per questo meno sapiente, a rappresentarlo in forma artistica.

Non a caso il protagonista del suo romanzo, ambientato nella foresta pluviale, proviene anch’egli dall’esterno di quell’ambiente naturale e delle culture amazzoniche, e, forzatamente immesso in quel contesto e in quelle culture, cerca di adattarvisi per sopravvivere, apprendendo, giorno dopo giorno, cose e usanze per lui sempre nuove.

Dalla mancata presa di coscienza della separazione del mondo «civile» da quello «selvaggio» scaturiscono qui le gags meglio riuscite. I personaggi che si prefiggono d’integrare tra loro queste inconciliabili realtà, le figure ansiose di portare tra i «selvaggi» un lume di «civiltà» rivelano ben presto il lato comico, o meglio tragicomico, del loro carattere. Le due suore (appartenenti, per giunta, a due distinte religioni) che, malgrado le loro pie intenzioni, provocano con le innovazioni da esse introdotte (tra le quali l’alfabetizzazione degli adulti) il più caotico scompiglio tra i nativi, agiscono nel romanzo come una buffa coppia di clowns.

Simpatiche e pasticcione, le due missionarie si muovono tra le genti della foresta amazzonica con lo stesso garbo di un paio d’elefanti che hanno fatto irruzione in una cristalleria. Esse trovano nel malcapitato Orelhão il loro interlocutore prediletto, lo subissano di prediche che lo mandano in confusione e gli impongono, ovviamente per il bene della sua anima, rigidi divieti. Primo fra tutti quello di non accasarsi con Rixca, la giovane e bella indigena che Calibã, il capo tribù, gli aveva offerto in moglie.

Se nei suoi approcci con le amazzoni Pitum non poteva esercitare altro mezzo di conoscenza che quello carnale, con le due suore missionarie le frequentazioni di Orelhão si sviluppano invece sotto il segno della repressione sessuale. Il che dimostra, sembra ammiccare Ribeiro mandando una strizzata d’occhi al lettore, che, in ogni società, nei rapporti col gentil sesso al maschio non sono consentite che due soluzioni: l’eccesso erotico o la forzata astinenza, essendo di fatto impossibile - per le costrizioni imposte dall’ambiente - vivere una sessualità «normale».

Al fine di convincere Orelão a non sposare l’adolescente indigena, la suorina più giovane non si limita tuttavia a fare appello, con finalità repressive, ai principi della morale cristiana, ma gli sciorina in sovrappiù una colloquiale descrizione, scientificamente fondata, dell’organizzazione sociale dualistica della tribù amazzonica, scissa al proprio interno in due fratrie complementari.

Udita l’illuminante lezioncina della missionaria, il malcapitato si dichiara finalmente convinto a non prendere in moglie la fanciulla predestinatagli dal capotribù, temendo di trovarsi invischiato nell’inestricabile rete di relazioni e divieti che regolano la vita sociale e affettiva dei nativi. Il passo citato costituisce una delle migliori dimostrazioni dell’insinuante capacità di Ribeiro d’infarcire il proprio romanzo politico d’approfondimenti antropologici perfettamente funzionali ai meccanismi del racconto. 

Dopo la narrazione dell’involontario peregrinare del protagonista da una tribù amazzonica all’altra, nella terza e ultima parte del romanzo verrà a compiersi un epilogo orgiastico e visionario, alieno ai parametri della logica euclidea e in netto contrasto con la burocratica perfezione di quell’oppressiva, tentacolare distopia cibernetica (la cosiddetta Utopia Borghese Multinazionale) che Ribeiro, in un capitolo che parrebbe interpolato quasi a viva forza nel libro, si è divertito ad anticipare (e, col senno di poi, occorre constatare che egli andò molto vicino al vero in questa sua parossistica previsione). In tale capitolo, a prima vista spurio, ma in realtà assolutamente necessario per la piena comprensione dell’intreccio, l’autore illustra le innumerevoli, subdole articolazioni funzionali al controllo globale della società del «mondo civile», tramite la cablatura digitale di ciascun cittadino con la mente di Prospero: un oppressivo cervello artificiale dal curioso nome shakespeariano.

Giunto il momento di scoprire, poco prima del gran finale, le carte in tavola, l’autore rivela alcune delle proprie simpatie in campo politico e in ambito artistico: egli dichiara, ad esempio, di fare il «tifo» per Fidel (Castro), che negli anni ’80 era ancora saldamente al potere nell’isola di Cuba, e invia un rauco saluto musicale con flauti indigeni alla memoria dell’amico Glauber (Rocha), il grande regista cinematografico brasiliano scomparso, a soli 42 anni d’età, nel 1981.

A parte questi espliciti richiami all’attualità del momento in cui fu composto il romanzo, Utopia selvagem sembra astrarsi del tutto dalle vicende storiche. Con la grazia fuori dal tempo e la corrosiva ironia d’un apologo di Voltaire, il testo di Ribeiro introduce i lettori in una dimensione a parte, dove - a diretto contatto con la natura - si va svolgendo il primitivo rito d’iniziazione di un riluttante, inconsapevole protagonista. Una dimensione in cui, come ha dichiarato l’autore stesso a Daniela Ferioli, la prima traduttrice in lingua italiana del romanzo:
“L’utopia indigena è di una bellezza indescrivibile in contrasto con il Prospero dell’antiutopia capitalistica, con la descrizione del mondo attuale, con la brutalità del mondo attuale.”

Eppure, a ben vedere, la morale politica di questa fiaba tropicale rimane aperta. A rivelarlo è ancora una volta la voce dell’autore in un passo, forse il più esplicito e pregnante contenuto nel romanzo, che gioverà qui sottolineare come valida indicazione per una corretta interpretazione di quest’opera:
“Ma, caro lettore, non pensare che perori il ritorno alla Barbarie. Lungi da me un tale sproposito. Quel che ho è un’incurabile nostalgia di un mondo che avrebbe ben potuto essere, ma che non fu, e che nemmeno so come sarebbe e che, se anche lo sapessi, non lo direi.”

Saudade di Ribeiro che, precorrendo di alcuni decenni il pensiero del sociologo Zygmunt Bauman, rifiuta la tentazione di cercare conforto in una consolatoria, idillica retrotopia, esprimendo, al contempo, il bisogno assoluto e l’assoluta indicibilità di ogni autentica utopia.

“Utopia selvaggia Saudade dell’innocenza perduta. Una fiaba” di Darcy Ribeiro (Montes Claros – Minas Gerais 26-10-1922/ Brasilia 17-2-1997) sarà pubblicato nel mese di maggio 2019 dalla casa editrice mantovana Negretto Editore con la traduzione di Katia Zornetta.

Written by Giancorrado Barozzi

Info
Sito Negretto Editore
https://www.negrettoeditore.it/
Pagina Facebook Negretto Editore
https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/

Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/02/09/darcy-ribeiro-e-il-romanzo-utopico-la-prefazione-di-giancorrado-barozzi-del-romanzo-utopia-selvaggia/





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Intervista di Alessia Mocci a Rosario Tomarchio: vi presentiamo Al tuo cuore con la poesia


“Quante volte mi ritrovo con il cuore affranto,/ con le lacrime che disegnano curve sul viso./ Quante volte mi ritrovo in un angolo del mondo,/ a rileggere lo stesso libro/ che racconta la mia vita/ tra poche gioie e tanti dolori./ Quante volte mi ritrovo sotto questo cielo,/ a guardare le stelle/ sperando ancora di poter colorare i sogni./ […]” ‒ “Dedicata a tutti i cani che ci fanno compagnia”

“Al tuo cuore con la poesia” è una breve raccolta poetica dell’autore siciliano Rosario Tomarchio. L’autore conta di numerose pubblicazioni sia poetiche come “La musica del silenzio” (Statale 11, 2010), “Storia d’amore” (Aletti editore, 2012), “Ricordi di poesie” (Rupe Mutevole Edizioni, 2013), “Cielo” (Rupe Mutevole Edizioni, 2014) sia brevissimi saggi come “Il mito della semplicità”, “In cammino”, “Dalla grotta al tempio”, “In viaggio per incontrare Gesù”.

La raccolta è dedicata al cuore dello stesso autore, ogni verso nasce dal profondo amore verso le persone care: ai genitori (al padre, l’uomo del silenzio; alla madre, la donna della vita), ai pochi e veri amici che una persona conta sulle dita della mano, ad una relazione con una donna del passato, alla nonna Vincenza scomparsa molti anni fa, alla lettura dei Vangeli che sin da giovane hanno popolato la sua mente, agli animali che rendono la vita meno solitaria.

Il versificare è semplice, le parole sono immediate. Percorrono immagini care a Rosario e che si dipanano tra ricordi e presente in una continua esortazione all’amore.

A.M.: Ciao Rosario, ormai sono anni che ci conosciamo e che promuoviamo lettura e scrittura di grandissimi nomi della letteratura e di emergenti. Come prima domanda ho pensato ad una piccola provocazione: secondo te quando si esce dal confine di emergente?
Rosario Tomarchio: Ciao Alessia, grazie del tempo che mi dedichi. Questa è una bella domanda tosta alla quale rispondo con molto piacere. Fino a qualche anno fa, le case editrici facevano tre distinzioni: esordienti, emergenti e scrittori affermati. Per scrittore emergente viene nominato tale l’autore che già ha iniziato a muovere i primi passi nel campo della letteratura ad esempio con le raccolte di autori vari e maturata tale esperienza decide di avventurarsi nella pubblicazione di un libro. Pubblicare con autori vari o in antologie lo consiglio sempre sia all’inizio di una probabile carriera di scrittore e sia quando finalmente ci si è fatti il così detto nome. Il passaggio da emergente a scrittore affermato si può valutare in diversi modi. Un buon indizio per valutare questo passaggio è il numero di copie vendute. Tuttavia questo è relativo, in quanto una persona famosa e conosciuta dal pubblico ottiene un numero di copie vendute anche con il suo primo libro pubblicato. Una buona recensione di un libro può favorire questo passaggio in quanto un articolo pubblicato in una rivista letteraria come ad esempio Oubliette Magazine permette un autore di raggiungere un più vasto numero di lettori e soprattutto di raggiungere i veri critici letterari. Sfortunatamente, ogni giorno sorgono da ogni parte critici letterari senza arte e né parte e questo crea un forte danno alla letteratura emergente. Fortunatamente in questo mondo esistono gente professionale come te che sa leggere e valutare un libro nel modo gusto. Ecco far leggere la propria opera a un pubblico di veri critici letterari è il vero passaggio da scrittore emergente a scrittore affermato. Io personalmente punto a raggiungere un numero crescente di lettori critici delle mie opere. Ti confesso che molto umilmente sto raggiungendo questo obbiettivo. Poi se arriva il boom di copie vendute ben venga. Come tu ben sai ho iniziato a pubblicare nel 2010 e da quell’anno non mi sono più fermato. Questo mi ha permesso di fare un percorso e maturare. Il momento che mi ripaga di più è vedere l’emozione negli occhi della gente o sentirmi fermare per strada da persone che hanno letto le mie opere e sentirmi dire: “mi hai commosso”.     

A.M.: Se prendi in considerazione tutte le raccolte poetiche che hai pubblicato, quale ti ha dato maggiore soddisfazione e perché?
Rosario Tomarchio: Sinceramente sono legato a tutte le raccolte poetiche perché in ogni raccolta c’è un pezzetto del mio cuore legato a una persona cara. Forse sono più legato a “Ricordi di poesia” perché traccia un confine da semplice esercitazione a inizio di maturazione delle liriche. In particolare sono legato alla poesia dal titolo “Ricordi”. Con questa poesia per la prima volta ho trascritto in versi due tragedie.

A.M.: I primi versi della lirica “Vorrei essere una fontana” recitano “Vorrei essere una fontana/ che dona allegramente acqua/ a tutti gli anziani al riparo dalle calde ore”. La fontana di cui parli esiste nella realtà oppure è un’espediente letterario?
Rosario Tomarchio: Sì esiste e precisamente si trova a Catania in piazza principessa Iolanda. Questa piazza con questa fontana è molto cara a me. Ti spiego: questa piazza e la fontana sono come un monitor della realtà. Oggi viviamo in modo artificiale dove basta un clic per essere collegati in ogni parte del mondo e separati dal mondo. Il mondo non ci conosce, non conosce i nostri sentimenti, le nostre fragilità e le nostre emozioni. Invece in quella piazza, con quella fontana, incontro il mondo perché lì si incontrano mamme e nonni che portano i propri figli e nipoti a giocare (mi ritornano in mente i giochi di quando ero ragazzo), si incontrano le persone anziane che raccontano il loro passato e progettano sogni per il futuro e inoltre lì è facile trovare qualche senza tetto che frequenta quel luogo per riposarsi e rinfrescarsi un po’. Quindi come vedi è veramente un monitor della realtà. Il giorno in cui ho composto questa poesia avevo passato la giornata con un caro amico di Catania e ho scritto la poesia come messaggio che ho inviato a una mia cara amica che in questo momento vive a Roma. Come vedi per me l’amicizia è fondamentale come l’acqua della fontana. Nel momento in cui ho composto la poesia “Vorrei essere una fontana” avevo in mente la fontana artistica dove attorno ad essa si ritrovano le persone per raccontare e sognare a occhi aperti, la fontana dove prendere acqua specialmente nei giorni di caldo intenso di Catania e infine la fontana come sorgente di sapienza e cultura rappresentata dalla saggezza degli anziani.   

A.M.: Catania (e la Sicilia in generale) è parte integrante delle tue pubblicazioni, i colori ed i tremori dell’Etna, la terra baciata dal Sole, lo sguardo che si perde nel blu del mare. Perché l’uomo ha bisogno di scrivere in versi la meraviglia in cui vive?
Rosario Tomarchio: Per me Catania è la città eterna, d’una terna bellezza. Tutto quello che di bello l’uomo ha creato con le sue mani lo troviamo a Catania. Prendi per esempio i bellissimi palazzi nobiliari che si trovano nel centro storico, quasi stanno lì a testimonianza delle capacità artistiche degli artigiani e artisti che hanno realizzato tali edifici. Peccato che a volte Catania è invivibile per lo straordinario dal mio punto di vista o ordinario secondo altri transiti di Catania e per questo motivo preferisco e amo il mio paese. Come tu ben sai io vivo a Piedimonte Etneo e ne approfitto per rinnovare l’invito. Piedimonte Etneo è un piccolo paese ai piedi dell’Etna famoso per le sue sorgenti d’acqua tanto che una frazione del paese prende il nome Presa per la presa d’acqua presente nel territorio e ancora Vena per una vena d’acqua sgorgata per un evento quasi soprannaturale o miracoloso. Il mio paese è anche vicino al mare che tanto mi è di conforto tanto da chiedergli poeticamente: “pure tu ti agiti per la lontananza per poi ritornare calmo”. Lo amo soprattutto d’inverno. L’uomo ha quasi necessita di scrivere in versi le meraviglie del creato in cui vive per dire grazie alle creature di cui si circonda e per le generosità dei doni che riceve dalla natura. A tal proposito mi viene in mente una poesia che fa parte della raccolta “Cielo” dal titolo “Al chiaro di luna” nella quale, come i poeti antichi a me cari, dialogo con la Luna e le pongo una domanda: “O cara luna cosa ci fai in cielo tutta sola? E io qui tutto solo?”.    

A.M.: Nella lirica “La donna della vita” scrivi: “Mamma non piangere più/ sono quel pazzo di tuo figlio/ il pazzerello del tuo cuore”. Qual è il tuo rapporto con la famiglia?
Rosario Tomarchio: Con questa domanda, cara Alessia faccio promozione di me perché un po’ per necessità ho dovuto imparare da mia mamma a cucinare e a fare tutte le attività domestiche e anche per necessità ho imparato un po’ a fare l’infermiere. Praticamente sono un uomo da sposare. Battute a parte ora ti spiego perché parlo di necessità. La necessità è venuta con le varie malattie che hanno colpito mia nonna Vincenza che ha vissuto con noi per un buon numero di anni. A mia nonna Vincenza ho dedicato due poesie di cui una è presente proprio in questa mia ultima opera letteraria. “Mamma non piangere più/ sono quel pazzo di tuo figlio/ sono il pazzerello del tuo cuore”. Come quasi tutti da giovane ho avuto un carattere difficile e spesso in contrasto con quello di mia mamma. Con il verso “il pazzerello del tuo cuore” ho preso in prestito questa frase da San Gerardo che rivolgeva queste parole a Gesù presente nel Sacramento. Il mio paese è molto legato alla figura di questo santo ed infatti nel territorio di Piedimonte si trova il secondo santuario dedicato al Santo. Tornando al discorso della famiglia, dopo mia mamma, la persona più importante è mio padre. Mio padre con molto orgoglio ogni volta che viene a una presentazione dei miei libri dice a tutti “quello è mio figlio”. Anche a mio padre ho dedicato qualche verso.    

A.M.: Ora ti chiedo tre nomi. Un autore siciliano, uno italiano ed uno internazionale.
Rosario Tomarchio: Andrea Camilleri, Gabriele D’Annunzio, Agatha Christie.

A.M.: Il 7 gennaio è stato pubblicato il bando di partecipazione per uno speciale contest con partecipazione gratuita denominato come la tua silloge. Visto che siamo in chiusura di adesione che cosa vuoi dire ai partecipanti?
Rosario Tomarchio: Il contest è sempre una buona occasione per mettersi in gioco e confrontarsi con altri autori. Auguri e buona fortuna a tutti i partecipanti!

A.M.: Stai già pensando alla pubblicazione di una nuova raccolta? Puoi anticiparci qualcosa?
Rosario Tomarchio: Sì sto lavorando a una nuova raccolta e al momento non ti posso anticipare niente. Tuttavia posso dirti che nella mia testa c’è spazio anche alla narrativa e l’idea mi è venuta proprio parlando con te e il protagonista sarà proprio il mio paese.

A.M.: Salutaci con una citazione…
Rosario Tomarchio: Gli uomini sono come il vino:/ non tutti i vini invecchiano;/ alcuni inacidiscono”. Eugenio Montale

A.M.: Rosario ti ringrazio per il tempo che hai dedicato a questa intervista. Invito i lettori a partecipare al Contest “Al tuo cuore con la poesia” e saluto con le parole dell’iscrizione presente a Catania sulla porta Ferdinandea (oggi intitolata porta Garibaldi), un arco costruito nel 1768 e che recita: “Melior de cinere surgo” (“Rinasco dalle ceneri ancor più bella”).

Written by Alessia Mocci

Info
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https://www.amazon.it/tuo-cuore-poesia-Rosario-Tomarchio/dp/1724089811/
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http://oubliettemagazine.com/2019/01/07/contest-letterario-gratuito-di-poesia-e-racconto-breve-al-tuo-cuore-con-la-poesia/

Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/02/02/intervista-di-alessia-mocci-a-rosario-tomarchio-vi-presentiamo-al-tuo-cuore-con-la-poesia/