Terzo dei quattro
romanzi pubblicati in vita da Darcy Ribeiro, poliedrico autore (per un 30%
antropologo evoluzionista, per un altro 30% politico riformatore, per un 20%
intellettuale cosmopolita e per il restante 20% boccaccesco affabulatore), Utopia selvagem, che si presenta qui in
una nuova traduzione, fonde assieme, come in una tropicale sarabanda di
Carnevale, elementi tra loro eterogenei, in apparenza inconciliabili.
La fabula del romanzo
consiste in un’incredibile, quanto involontaria, incursione picaresca nel
mondo selvaggio della quale sostiene di essere stato protagonista un
patriottico disertore che, nei suoi esilaranti incontri-scontri col potere di
ogni sorta (politico, militare, religioso e sessuale), ricorda molto da vicino
il buon soldato Švejk di Hašek.
L’intreccio segue,
passo per passo, senza ricorrere ad alcun artificio estetico, gli assurdi
eventi capitati al protagonista. Eppure, al di là della sua assoluta semplicità
compositiva, questo romanzo risulta gravido di riferimenti culturali di
notevole interesse e spessore. Innanzi tutto, esso appartiene a quella provocatoria tradizione del nuovo che in
Brasile, già a partire dagli anni Venti del Novecento, col Manifesto
antropofago di Oswald de Andrade, si
autoproclamò «cultura cannibale» e che nel romanzo mitologico Macunaima di Mario de Andrade (1928) trovò una
precoce, dirompente affermazione.
Nei tempi moderni
l’uomo bianco (portatore di una civiltà urbana e occidentale) doveva finire
divorato dalla cultura amazzonica, la quale solo grazie a questo simbolico festino cannibalesco avrebbe
potuto rigenerarsi acquisendo per ingestione i germi fecondi delle avanguardie
europee senza tuttavia rinunciare alla genuina eredità del mondo aborigeno.
Queste furono le
paradossali teorie professate dai due de Andrade e da quel gruppo di
artisti brasiliani che allora diedero vita alla Revista de Antropofagia. Mezzo
secolo dopo nel medesimo, «cannibalesco» confronto tra tradizione e innovazione
venne a trovarsi irretito anche il protagonista di questo romanzo scritto da
Ribeiro.
Anch’egli, come
Macunaima, è un eroe privo di carattere, ma a differenza del suo mitico
antecedente, appartiene alla specie umana e non discende dall’Olimpo delle
divinità amazzoniche. Macunaima, il personaggio creato da Mario de Andrade, era
un tipico trickster, ossia un dio minore dal carattere beffardo, violento e
amorale, mentre l’eroe dal triplice nome
(tenente G. Carvalhal/Pitum/Orelhão) ideato
da Ribeiro appartiene piuttosto alla schiera degli schlemihl: gli sciocchi
e sfortunati protagonisti di tante opere letterarie, dal Woyzeck di Büchner
(1837) allo Švejk di Hašek (1923). Tutti «bravi soldati», un po’ tardi di
comprendonio, che inconsapevolmente vanno a cacciarsi nelle situazioni più
estreme e ingarbugliate.
Senza dubbio Ribeiro,
nel concepire Utopia selvagem, si rifece in modo consapevole a una
tradizione preesistente e da tempo collaudata: quella composta dai racconti
orali sugli sciocchi e da quelle opere letterarie che, per illustrare l’assurdità della realtà di ogni giorno, adottano il
punto di vista straniante d’un soggetto ritenuto pazzo o idiota dai comprimari
della fiction.
Rispetto ai suoi
illustri antecedenti, il protagonista di questo romanzo possiede tuttavia
un notevole vantaggio: in ogni circostanza non cessa mai di stare in ascolto
degli «altri» (da qui il suo soprannome di Orelão: Orecchione) e di porre domande, sia a se stesso che a
chiunque incontri sul suo cammino. A salvarlo dall’annientamento sono
appunto la sua insaziabile curiosità e la sua logorroica loquacità, che solo
alla fine del romanzo, di fronte all’enormità della situazione vissuta, vengono
ad acquietarsi.
Poco importa che, il più delle volte, le sue domande sembrino mal poste o finiscano con l’irritare gli
interlocutori. Quel che più conta è la capacità, da lui dimostrata, di non
prendere mai per scontati i bizzarri mondi in cui è capitato, il suo istintivo
interrogarsi su quel che un domani sarà di lui e sui destini futuri delle
comunità che, suo malgrado, lo stanno ospitando. Un po’Amleto e un po’ Socrate, Pitum/Orelhão, grazie a questa sua
predisposizione al saper porre (e porsi) domande, si dimostra in fin dei
conti assai meno sprovveduto di quanti intorno a lui vivono in modo animalesco,
seguendo ciecamente antiche tradizioni (le icamiabas/amazzoni), o di chi appare
dominato da una qualsiasi ideologia, sia essa del progresso (le suore
missionarie) o dell’atavismo (lo sciamano Cunhãmbebe).
E qui entra in gioco
un altro fondamentale ingrediente del romanzo di Ribeiro: la sua straniante
ispirazione antropologica. Accanto a un ludico, ma pienamente consapevole,
radicamento nel terreno dell’intertestualità letteraria, Utopia selvagem rivisita infatti uno ad uno, con smagata ironia,
anche i canoni classici della scrittura degli antropologi. In questo senso
l’autore dimostra d’avere fatto tesoro delle sue giovanili esperienze di
ricerca sul campo presso varie tribù amazzoniche (Kaidivéu, Kaiowàs, Terenas e
Ofaié-Xavantes), da lui stesso compiute, per conto del SPILTN (Serviço de
Proteção aos Índios e Localização de Trabalhadores Nacionais, organo governativo
sostituito nel 1967 dal FUNAI: Fundação Nacional do Índio), una quarantina
d’anni prima della stesura del romanzo, in compagnia della giovane moglie Berta
Gleizer (1924 -1997). Di quell’esperienza, divenuta fondante per la sua
formazione, Ribeiro ha lasciato
testimonianza nei propri Diàrios Índios, che si aprono, in segno
d’affettuoso omaggio, col nome della moglie, anch’ella etnologa e antropologa,
dalla quale in seguito, nel 1974, egli si separerà.
La dimensione antropologica del romanzo appare evidente non
solo per via della generica ambientazione del libro nel «mondo selvaggio» della
foresta pluviale, ma prende corpo soprattutto nelle numerose focalizzazioni su usi, costumi e manufatti del mondo
indigeno che l’autore inserisce, sempre in modo pertinente, nel tessuto
narrativo rendendole parti integranti dell’incredibile vicenda vissuta da
Pitum/Orelão.
Da defunzionalizzati reperti custoditi in un museo
etnografico o da pedanti informazioni scientifiche racchiuse in un trattato
d’antropologia, i dettagli «etnici»
sparsi a piene mani da Ribeiro in questo suo romanzo riacquistano così il
loro più autentico valore di cose e istituzioni intimamente connesse con la
vivente realtà del mondo amazzonico. Una
realtà che l’autore rappresenta senza alcun atteggiamento nostalgico, ma
anzi con quel pizzico d’ironia e di comicità che s’addice a chi delle sorti di
quel mondo è sinceramente partecipe, pur essendo costretto, per provenienza
sociale e formazione culturale, a osservarlo da estraneo.
I Tropici di Ribeiro
non sono «tristi» come quelli di Lévi-Strauss. Con l’antropologo francese
l’autore brasiliano mostra di avere tuttavia più di un punto in comune:
anch’egli sa interpretare infatti con scrupolo scientifico il contesto
amazzonico riuscendo, attraverso il suo particolare stile giocoso e leggero ma
non per questo meno sapiente, a rappresentarlo in forma artistica.
Non a caso il
protagonista del suo romanzo, ambientato nella foresta pluviale, proviene
anch’egli dall’esterno di quell’ambiente naturale e delle culture amazzoniche,
e, forzatamente immesso in quel contesto e in quelle culture, cerca di
adattarvisi per sopravvivere, apprendendo, giorno dopo giorno, cose e usanze
per lui sempre nuove.
Dalla mancata presa
di coscienza della separazione del mondo «civile» da quello «selvaggio»
scaturiscono qui le gags meglio riuscite. I personaggi che si prefiggono
d’integrare tra loro queste inconciliabili realtà, le figure ansiose di portare tra i «selvaggi» un lume di «civiltà» rivelano
ben presto il lato comico, o meglio tragicomico, del loro carattere. Le due
suore (appartenenti, per giunta, a due distinte religioni) che, malgrado le
loro pie intenzioni, provocano con le innovazioni da esse introdotte (tra le
quali l’alfabetizzazione degli adulti) il più caotico scompiglio tra i nativi,
agiscono nel romanzo come una buffa coppia di clowns.
Simpatiche e
pasticcione, le due missionarie si muovono tra le genti della foresta
amazzonica con lo stesso garbo di un paio d’elefanti che hanno fatto
irruzione in una cristalleria. Esse trovano nel malcapitato Orelhão il loro
interlocutore prediletto, lo subissano
di prediche che lo mandano in confusione e gli impongono, ovviamente per il
bene della sua anima, rigidi divieti. Primo fra tutti quello di non accasarsi
con Rixca, la giovane e bella indigena che Calibã, il capo tribù, gli aveva
offerto in moglie.
Se nei suoi approcci
con le amazzoni Pitum non poteva esercitare altro mezzo di conoscenza che
quello carnale, con le due suore missionarie le frequentazioni di Orelhão si sviluppano
invece sotto il segno della repressione sessuale. Il che dimostra, sembra ammiccare Ribeiro mandando una
strizzata d’occhi al lettore, che, in ogni società, nei rapporti col gentil
sesso al maschio non sono consentite che due soluzioni: l’eccesso erotico o la
forzata astinenza, essendo di fatto impossibile - per le costrizioni imposte
dall’ambiente - vivere una sessualità «normale».
Al fine di convincere
Orelão a non sposare l’adolescente indigena, la suorina più giovane non si
limita tuttavia a fare appello, con finalità repressive, ai principi della
morale cristiana, ma gli sciorina in sovrappiù una colloquiale descrizione,
scientificamente fondata, dell’organizzazione sociale dualistica della tribù
amazzonica, scissa al proprio interno in due fratrie complementari.
Udita l’illuminante
lezioncina della missionaria, il malcapitato si dichiara finalmente
convinto a non prendere in moglie la fanciulla predestinatagli dal capotribù,
temendo di trovarsi invischiato nell’inestricabile rete di relazioni e divieti
che regolano la vita sociale e affettiva dei nativi. Il passo citato
costituisce una delle migliori
dimostrazioni dell’insinuante capacità di Ribeiro d’infarcire il proprio
romanzo politico d’approfondimenti antropologici perfettamente funzionali ai
meccanismi del racconto.
Dopo la narrazione
dell’involontario peregrinare del protagonista da una tribù amazzonica
all’altra, nella terza e ultima parte del romanzo verrà a compiersi un
epilogo orgiastico e visionario, alieno ai parametri della logica euclidea e in
netto contrasto con la burocratica perfezione di quell’oppressiva, tentacolare distopia cibernetica (la
cosiddetta Utopia Borghese Multinazionale) che Ribeiro, in un capitolo che
parrebbe interpolato quasi a viva forza nel libro, si è divertito ad anticipare
(e, col senno di poi, occorre constatare che egli andò molto vicino al vero in
questa sua parossistica previsione). In tale capitolo, a prima vista spurio, ma
in realtà assolutamente necessario per la piena comprensione dell’intreccio, l’autore illustra le innumerevoli,
subdole articolazioni funzionali al controllo globale della società del «mondo
civile», tramite la cablatura digitale di ciascun cittadino con la mente di Prospero: un oppressivo
cervello artificiale dal curioso nome shakespeariano.
Giunto il momento di
scoprire, poco prima del gran finale, le carte in tavola, l’autore rivela
alcune delle proprie simpatie in campo politico e in ambito artistico: egli
dichiara, ad esempio, di fare il «tifo» per Fidel (Castro), che negli anni ’80
era ancora saldamente al potere nell’isola di Cuba, e invia un rauco saluto musicale con flauti indigeni alla memoria
dell’amico Glauber (Rocha), il grande regista cinematografico brasiliano
scomparso, a soli 42 anni d’età, nel 1981.
A parte questi espliciti richiami all’attualità del momento
in cui fu composto il romanzo, Utopia
selvagem sembra astrarsi del tutto dalle vicende storiche. Con la grazia
fuori dal tempo e la corrosiva ironia d’un apologo di Voltaire, il testo di
Ribeiro introduce i lettori in una dimensione a parte, dove - a diretto
contatto con la natura - si va svolgendo il primitivo rito d’iniziazione di un
riluttante, inconsapevole protagonista. Una dimensione in cui, come ha
dichiarato l’autore stesso a Daniela Ferioli, la prima traduttrice in lingua
italiana del romanzo:
“L’utopia indigena è
di una bellezza indescrivibile in contrasto con il Prospero dell’antiutopia
capitalistica, con la descrizione del mondo attuale, con la brutalità del mondo
attuale.”
Eppure, a ben vedere, la
morale politica di questa fiaba tropicale rimane aperta. A rivelarlo è
ancora una volta la voce dell’autore in un passo, forse il più esplicito e
pregnante contenuto nel romanzo, che gioverà qui sottolineare come valida
indicazione per una corretta interpretazione di quest’opera:
“Ma, caro lettore, non
pensare che perori il ritorno alla Barbarie. Lungi da me un tale sproposito.
Quel che ho è un’incurabile nostalgia di un mondo che avrebbe ben potuto
essere, ma che non fu, e che nemmeno so come sarebbe e che, se anche lo
sapessi, non lo direi.”
Saudade di Ribeiro
che, precorrendo di alcuni decenni il pensiero del sociologo Zygmunt Bauman,
rifiuta la tentazione di cercare conforto in una consolatoria, idillica
retrotopia, esprimendo, al contempo, il bisogno assoluto e l’assoluta
indicibilità di ogni autentica utopia.
“Utopia selvaggia ‒ Saudade
dell’innocenza perduta. Una fiaba” di Darcy Ribeiro (Montes Claros – Minas
Gerais 26-10-1922/ Brasilia 17-2-1997) sarà pubblicato nel mese di maggio 2019
dalla casa editrice mantovana Negretto
Editore con la traduzione di Katia
Zornetta.
Written by
Giancorrado Barozzi
Info
Sito Negretto Editore
https://www.negrettoeditore.it/
Pagina Facebook Negretto Editore
https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/
Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/02/09/darcy-ribeiro-e-il-romanzo-utopico-la-prefazione-di-giancorrado-barozzi-del-romanzo-utopia-selvaggia/