Intervista di Alessia Mocci a Paolo Maria Rocco: I Canti e Virginia, o: Que puis-je faire?
“Sul
senso di una vita, e sulla natura/ scanzonata degli dei, venivi
inconsapevolmente/ occupata da interroganti pensieri, e di viventi/
da una moltitudine, dal mondo/ fuggitivi. Per cui anche tu poi sei
partita/ dalla strada diversamente assorta/ e come rinsavita. La tua
resipiscenza// [...]”
- "I Canti"
Paolo
Maria Rocco è nato
a Napoli, e risiede a Fano.
Laureato in Lettere moderne esercita ben presto la professione del
giornalista (“Il Giorno di Milano”, “L’Eco di Bergamo”, “Il
Resto del Carlino”, ecc.). Nella
sua carriera si citano collaborazioni con Università,
pubblicazioni di libri di poesie e saggi di critica italiana,
curatore di mostre con nota critica in catalogo, insegnate di
Letteratura italiana.
Nel
dettaglio, oggi prenderò in considerazione due pubblicazioni edite
da Bastogi
Libri “Virginia, o: Que puis-je faire?” (2014) e “I Canti”
(2015).
Sperando che l’incipit abbia instradato il lettore nella curiosità
di conoscere le complessità poetiche di Paolo Maria Rocco, vi lascio
alle sue parole.
A.M.:
Ciao
Paolo, ti ringrazio per avermi concesso questa intervista e non ti
nascondo che ho sbirciato sul tuo curriculum scoprendo che sei nativo
di Napoli, ma che hai frequentato l’Università di Lettere ad
Urbino con successivo perfezionamento a Firenze. Ora sei insegnante
di Letteratura e Storia nelle scuole superiori e, alle spalle, hai
una carriera da giornalista e scrittore. Come mai il giornalismo?
Paolo
Maria Rocco: Anch’io
ringrazio te, Alessia, e Oubliette, per questa opportunità. In
verità le due attività di cui parli le ho cominciate abbastanza
presto e le ho continuate. ‘Alle spalle’, quindi, ho un po’ di
esperienza, diciamo. Attualmente, riguardo al giornalismo, collaboro
con il quotidiano online Altrogiornalemarche diretto da Elpidio
Stortini. Il giornalismo è, ed è stato, per me, uno strumento
importante che ho sviluppato insieme alla scrittura letteraria: ho
cominciato come cronista da quando facevo l’Università, a Urbino,
attraverso una emittente radiofonica, Controradio93, che ho fondato
insieme a mio fratello Claudio e ad un gruppo di cari amici urbinati
e non. Controradio mi ha condotto al giornalismo ‘parlato’ e alle
inchieste: il giornalismo è mettere in grado il lettore di conoscere
attraverso l’informazione non compiacente e non alterata, è
incidere sulla realtà quotidiana porgendo notizie e informazioni
utili a discernere sui fatti della vita per decidere, deliberare. Per
un certo periodo è diventata la mia occupazione lavorativa
principale, mentre contemporaneamente percorrevo le tappe obbligate
per lasciare aperta la strada dell’insegnamento, qualche supplenza,
concorsi, poi l’insegnamento come docente a contratto per
l’Università, partecipazioni da relatore a qualche convegno… e
nel frattempo scrivevo e pubblicavo su rivista e libri, poesie,
traduzioni… Successivamente il giornalismo scritto -per La Gazzetta
di Pesaro e di Ancona, inizialmente, e poi per Il Giorno di Milano,
L’Eco di Bergamo, Il Resto del Carlino e altri organi di stampa- mi
ha concesso di diventare giornalista professionista nell’Ordine
delle Marche… E poi sono entrato stabilmente nella Scuola
superiore. Comunque, l’essere diventato professionista avendo
superato un difficile Esame di Stato mi dà qualche opportunità.
A.M.:
Un
anno e mezzo fa hai pubblicato "Virginia,
o: Que puis-je faire?" edito da Bastogi Libri. Ho notato che
viene definito spesso un romanzo musicale, ci puoi spiegare il
perché?
Paolo
Maria Rocco: Prima
del romanzo“Virginia: o: Que puis-je faire?” vorrei dire che ho
pubblicato poesie in alcune riviste specialistiche, tra le quali
“Hortus” diretta dal poeta Eugenio De Signoribus, e “Marka”
diretta dallo scrittore Clio Pizzingrilli. “Virginia...” è il
mio primo romanzo e la definizione di romanzo
musicale
lo devo ad Anna De Concilio, critica letteraria che ha fatto
risaltare, nell’intreccio tra struttura della narrazione e concetti
trattati, una costruzione da spartito, appunto. La Musica è uno dei
temi centrali del romanzo, il pattern, a partire dalla protagonista
Virginia e da alcuni episodi che ritengo esemplari della vita
straordinaria di Guido d’Arezzo (l’inventore, come si sa, della
notazione musicale) la cui esperienza, nel romanzo ambientato nella
nostra epoca, gioca un ruolo fondamentale.
A.M.:
Come
mai questo interesse verso la Musica?
Paolo
Maria Rocco: Perché
è un leitmotiv
nella mia vita: mio nonno Gaetano era pianista e compositore,
apprezzato anche da Toscanini che gli aveva chiesto di far parte
della sua Orchestra, negli Usa, ma lui ha rinunciato per stare vicino
alla famiglia; a Urbino è stato Direttore della Cappella Musicale
del S.S. Sacramento e della sua Orchestra, e ha lasciato molte belle
composizioni, sinfonie, musica da camera che sono conservate ancora
lì. Altri parenti suonavano, le zie Giovanna (violino) e Lea
(pianoforte), lo zio Italo, detto Bebé
(pianoforte) che con il suo gruppo di musicisti ha girato il mondo
con successo tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, e poi altri
miei famigliari hanno preso questa strada, come mia sorella Alberta,
flautista e pianista, diplomata al Conservatorio “G.Rossini” di
Pesaro. Io, ho preso e continuerò a prendere lezioni di pianoforte,
anche se è molto difficile conciliare tutto… Questo per dire che
non è casuale il mio interesse verso la musica. Credo che una delle
chiavi di lettura per capire la storia di Virginia, giovane musicista
e compositrice del Nord America (luogo in cui è ambientata parte del
romanzo), si rilevi nelle parole di Elisabeth, musicologa,
personaggio importante nella narrazione, proprio quando parla del
rapporto nuovo di Virginia con il suo pubblico: “Virginia ha
rinunciato a esercitare il suo potere seduttivo, anzi, gliene ha
rivelato un altro ma… se privi qualcuno dell’incantamento al
quale vuole asservirsi, essendosi preparato esattamente per questo e,
per di più, avendo pagato anche il costo di un biglietto
d’ingresso…”. In questo modo Elisabeth rimarca il gesto di
verità di Virginia nel quale sta una parte del significato della
storia: una giovane donna che ribalta un ordine precostituito nella
consapevolezza che opporsi ai conformismi, alle convenzioni sociali
(privare qualcuno
dell’incantamento)
significa anche attirarsi mugugni -nel migliore dei casi, altrimenti
proteste e contestazioni, come accade alla protagonista-, squarciare
un velo di ipocrisia, mettersi di fronte a se stessi senza alibi, e
conquistarsi, attraverso un percorso non semplice, uno spazio di
libertà come ha ben compreso Flavia Liotti nella Postfazione. È una
allegoria, insomma, della Vita, di un certo tipo di Vita (ma questo
sarà il lettore a scoprirlo), la storia di una scelta dettata da un
certo sentimento dell’esistenza che impone un discrimine. E anche
in ciò vi è un rapporto non solo con Guido d’Arezzo -che, monaco
nell’anno Mille, ha sconvolto un ordine pagandone per molto tempo
le conseguenze- ma anche con altre personalità della Cultura di ogni
tempo (alle quali ho dedicato spazio e ruolo significativi nel
romanzo) che hanno condotto una esistenza sopra
le righe
e, ognuno di essi, lasciando l’impronta, indelebile, del proprio
genio nonostante tante e anche gravi avversità. Il romanzo è
costruito come una storia nella storia, in una struttura ad incastro
e dall’andamento circolare nella quale sono presenti flash-back,
accelerazioni, pause di riflessione, ritmato dagli episodi della
ricerca della parte mancante di un antico breviarium musicale (un
impegno
condotto
da Virginia nella consapevolezza che ciò la disporrà ad un percorso
di conoscenza interiore, ma che non costituisce la vera impresa
che
lei affronterà e della quale lascio la scoperta al lettore), e dai
luoghi in cui si svolge la narrazione, tra i quali il Monastero
marchigiano di Fonte Avellana (nel quale ha soggiornato Guido
d’Arezzo) e il Maine. Anche la ‘storia’ del breviarium è una
storia di conflitti e armonie… ma non voglio dire di più su questo
Codice
così conteso perché credo nel piacere della lettura che porta anche
a scoprire episodi dei quali si è perduta del tutto la memoria
purtroppo… E poi ho curato –anche attraverso il rilievo che ho
voluto dare alla funzione dialogica- che fossero ben rilevate le
corrispondenze tra gli stessi luoghi e gli stati d’animo dei
personaggi… non meno importante la storia d’amore di Virginia e
lo scarto narrativo che interviene alla conclusione della narrazione,
che si può definire anche ‘colpo di scena’… per questo anche
Salvatore Ritrovato, poeta, critico letterario e docente
universitario, ha parlato di “Virginia” come di una narrazione
tra le più interessanti nel panorama della narrativa contemporanea,
e gliene sono grato.
A.M.:
Confermando
Bastogi Libri, qualche mese fa vede la luce un’opera intitolata “I
Canti”. Quando nasce la tua passione per la poesia e a quale
tipologia di scrittore pensi di appartenere? Sei maggiormente poeta o
scrittore?
Paolo
Maria Rocco:
Scrivo
poesie da quando ero al Liceo. E non ho mai smesso di farlo. Non dico
nulla di nuovo se affermo che scrivere poesie dispone ad un lavoro
intenso, disciplinato e severo, ma non potrebbe essere altrimenti.
Deve essere così. E questo suggerisce a quale ‘tipologia di
scrittore’ –come mi chiedi- io appartenga insieme a non pochi
altri che concepiscono la scrittura in versi non come una vocazione,
una missione, ma come un’arte che ha delle regole, come tutte le
arti che, se si vuole coltivare, si deve innanzitutto rispettare
dotandosi, preliminarmente, degli strumenti idonei a capirla, a
cominciare dal dato, per esempio, costituito dal valore polisemico
della parola poetica, del suo potere evocativo, del simbolismo... In
questo senso, ma non solo, la cosiddetta ‘semplicità’ (concetto
che, mi sembra oggi mal compreso guadagni molti adepti) non è il
metro di giudizio di una buona o di una cattiva poesia: la
‘semplicità’ in Poesia non vuol dire, come spesso accade,
faciloneria, sciatteria della lingua e dello stile con inevitabile
depressione e mortificazione del significato. Al contrario, la poesia
è complessità, tant’è che la comprensione di una poesia non può
mai fermarsi ad una lettura di superficie (che può far piacere
perché magari si orecchia una certa cadenza o si è colpiti da una
particolare immagine), si deve cercare di capire perché l’autore
abbia messo una parola proprio in quel punto del verso e non in un
altro, perché proprio quella
parola e non un’altra, quali rapporti quella parola intrattiene con
la parola che la segue o con quella che la precede, e un verso con
l’altro, e con l’insieme del componimento, e le figure retoriche,
e il ritmo e la musicalità del verso, e tante altre cose che si
imparano, col tempo e con la dedizione e lo studio… sto parlando
dello stile, anche, e della ricerca dello stile, importantissimo in
poesia come in prosa. Quella cosa,
lo stile, che faceva dire a Luois-Ferdinande Celine: “Quel
che conta è lo stile, e allo stile nessuno vuole piegarvisi.
Richiede un enorme lavoro, e alla gente non piace il lavoro (…)
Senza del lavoro non puoi fare molto… c’è l’eloquenza
naturale, beh è davvero nociva, l’eloquenza naturale, veramente
nociva. Bisogna che la cosa tenga sulla pagina. Per tenere su una
pagina serve uno sforzo grandissimo. (…) Questo stile è un certo
modo di forzare le frasi, a farle uscire leggermente dal loro
significato abituale e poi di scardinarle, per così dire, di
spostarle e forzare così il lettore stesso a spostare il suo senso
(…) Questo richiede enormemente del distacco, della sensibilità;
difficilissimo da farsi perché bisogna girarci attorno… Attorno a
cosa? Attorno all’emozione (…)”.
A.M.:
Lo
stile come organizzazione formale dell’emozione?
Paolo
Maria Rocco: In
un certo senso, come sua elaborazione nella scrittura letteraria.
Questo dovrebbe convincere anche dell’importanza, non sempre
riconosciuta, dello strumento linguistico che utilizziamo. Quando
Georges Bataille dice che la poesia non serve a fare rivoluzioni
poiché può solo ribaltare l’ordine delle parole, non dice una
battuta ma qualcosa che riguarda lo statuto stesso della poesia, la
rivoluzione non è quella comunemente intesa dai ‘rivoluzionari di
professione’ ma, per esempio, la consapevolezza dell’autonomia
del linguaggio utilizzato a fini estetici, della baudelariana magia
evocatrice
della lingua poetica, della compresenza di più livelli di
significato, della assunzione di una realtà altra
che ci porta poi al rilievo del ‘non-detto’, dell’implicito,
del presupposto che impone, da parte del lettore, la capacità di
integrazione del senso… ciò che troviamo anche, variamente
trattato, nelle teorie dei formalisti russi, degli strutturalisti, di
Jakobson, di Umberto Eco, o di Agamben che sostiene “Non
c'è poesia senza pensiero, così come non c'è pensiero senza un
momento poetico” poiché “filosofia e poesia non sono due
sostanze separate, ma due intensità che tendono l'unico campo del
linguaggio in due direzioni opposte: il puro senso e il puro suono”,
o ancora Agosti, Saussure e tanti altri non meno importanti… Per
chi scrive con la consapevolezza di ciò che si sta facendo, quindi,
non credo possa avere asilo la distinzione tra
scrittore
di poesie e scrittore di narrazioni (quando non ci si riferisca
esclusivamente alla struttura della forma), o, men che meno, l’avere
la cognizione di sè come poeta o come narratore. Si può essere
l’uno o l’altro, o entrambi nello stesso tempo, per molti validi
motivi (quando di essi si accerta la presenza).
A.M.:
È
pratica di taluni dedicare il proprio libro a qualcuno per svariati
motivi, quali per esempio una forte emozione che lega i due, od un
aiuto importante, o solamente una citazione. “I Canti” è
dedicato ad Alfredo e Vera, ci racconti chi sono?
Paolo
Maria Rocco: Io
lo considero un omaggio. Alfredo e Vera sono i miei genitori. Ai
quali devo l’amore per le cose belle, vere, quindi, grazie alla
cura che hanno avuto nel crescere ed educare noi figli in un ambiente
sano e nel metterci a disposizione, fin da piccoli, insieme ai
giocattoli e ai tanti momenti di divertimento puro, anche molti libri
la cui lettura abbiamo vissuto come un divertimento e un piacere…
diverso. Siamo stati fortunati come credo lo siano molti per ragioni
analoghe. E, in seguito, la biblioteca si è arricchita sempre di
più. Ti sono grato per questa domanda perché mi dà l’opportunità
di dire qualcosa dei miei genitori, e di ringraziarli. Mio padre, che
ha sempre coltivato un interesse costante e anche specialistico per
la Cultura, negli ultimi tre anni della sua vita ha occupato il suo
tempo dedicandosi, da autodidatta, alla traduzione dallo spagnolo di
quattro romanzi di Benito Pérez Galdόs (La
de Bringas,
Tristana,
Tormento,
Fortunata
e Jacinta):
poi Carlo Bo, con l’acume di studioso e l’intelligenza che gli
erano propri, ne ha scritto molto lusinghevolmente, dedicandogli una
pagina intera nel settimanale Gente sul quale teneva una rubrica
sulla Letteratura. Prima ancora scrisse un bel saggio sulla medicina
omeopatica (uno dei suoi interessi) in “Agorà – Trimestrale su
Natura e Società, Linguaggio e Cultura”. Mia madre è stata una
valente e apprezzata ceramista d’arte, a Urbino, una delle capitali
della ceramica d’arte e poi a Napoli, per un certo periodo. Oggi, è
un’accanita lettrice di romanzi, di biografie e una
instancabile
compilatrice di cruciverba! Insomma, un ambiente propizio per
favorire certi piaceri, corroborati dai racconti dell’infanzia dei
miei genitori: di quando mio padre visse in Eritrea (mio nonno
paterno, Alberto, era un ufficiale dell’Esercito italiano durante
la Seconda Guerra) in un ambiente per molti versi ostile, selvaggio
ma anche esotico, affascinante nei suoi ricordi, o quando mia madre e
la sua famiglia nascosero un ufficiale inglese in casa, a Gallese
(cittadina laziale ove abitarono per diversi anni), mentre c’erano
i tedeschi che si erano impossessati di tutti i locali del pianoterra
per insediarvi una postazione radio che manteneva i collegamenti con
le truppe comandate da Kesserling e acquartierate sul vicino monte
Soratte… o ancora quando, sempre tra il 1943/44, furono ‘visitati’
nella loro abitazione da alcuni soldati Polacchi in ritirata perché
stavano arrivando gli Alleati; ci racconta di come chiedessero,
nonostante fino a poco prima occupanti, che mio nonno suonasse per
loro musica classica insieme alle mie zie, e che mentre ascoltavano
piangevano e applaudivano e si asciugavano le lacrime chiedendo di
suonare ancora… E di tanti altri episodi vissuti nell’immediato
Dopoguerra… E poi devo sottolineare la presenza dei carissimi
nipoti, dalla più piccola al più grande d’età: Aurora, Caterina,
Ettore, Guglielmo.
A.M.:
Cinque
Tempi, un intermezzo ed i sonetti. Come nasce la struttura de “I
Canti”?
Paolo
Maria Rocco:
In
realtà credo che la cosa più difficile per chi scrive poesie sia
parlare delle proprie, così come leggerle in pubblico. Per questo
anche rimando alla lettura della Prefazione ai “Canti” curata
dallo studioso Al J. Moran che ha evidenziato con una bella lettura
critica gli aspetti più significativi della mia raccolta di poesie.
“I Canti” sono una selezione di poesie scritte in un sensibile
arco di tempo, fino ad oggi. Non ho assegnato, però, un ordine
esattamente cronologico alle poesie perché il ‘discorso’ si
alimenta di rimandi, di connessioni, di approfondimenti di temi, e
di
sperimentazioni formali come accade quando è in gioco una visione
del mondo per le quali l’autore ingaggia un vero ‘corpo a corpo’
con la lingua, innanzitutto, e con il significante e il significato
quindi, con il dispiegarsi dell’esistenza ‘qui e ora’, con
quanto di universale essa può testimoniare anche nel patrimonio
acquisito di storia, sentimenti, informazioni, pensieri, concetti...
Da qui anche la decisione di distribuirle in sezioni che
costituiscono i Tempi, appunto, dell’elaborazione più che dello
sviluppo diacronico, quindi, dei temi che affronto.
A.M.:
La
poesia ne “I Canti” diventa l’atroce verità dell’Io. Il
mondo immaginario si interfaccia così con i desideri o pulsioni più
celate. Cosa nasconde questa tua opera?
Paolo
Maria Rocco:
Perché
‘atroce’? A ben vedere credo non sia atroce alcuna verità… Mi
permetti una citazione? William Blake diceva che “la verità
risiede nel cuore umano, perché nel cuore dell’uomo sono bene e
male, innocenza ed esperienza, purezza e corruzione, cielo e
inferno”. Tutti siamo fatti di tutte queste cose. È certo che ci
colpiscono i fatti della vita quotidiana o del ‘vissuto’, fatti
atroci anche, ma non è di questo che stiamo parlando, vero? L’Io,
poi, non mi sembra possa essere accompagnato da sostantivi (o
aggettivi) che lo qualifichino: non può esserci una verità
dell’Io come non può esserci una falsità
dell’Io. E poi la Poesia non è portatrice di verità, la Poesia
interroga, pone questioni e si interroga, e può farsi anche
assertiva, e se ambisce alla verità lo fa dal luogo di un dialogo
ininterrotto dell’uomo con se stesso, con gli altri, con la natura,
con la storia, con il mito, con la creatività. Riguardo alle
pulsioni e ai desideri, la questione è davvero importante, ed è
filosofica, bisognerebbe interpellare Platone, per esempio… Il
professor Gianni Scalia (tra i fondatori di Officina con Roversi e
Pasolini), che voglio citare perché è uno studioso tra i più
importanti sulla scena contemporanea –e che ho avuto l’opportunità
di conoscere personalmente- ci ricorda che il demone platonico del
Simposio è mancante e desideroso del bello e del bene, “Desiderio,
insomma, di ciò di cui manca e a cui aspira; la tensione e l’ascesa
lo guidano a un compimento, se nel Fedro la reminiscenza come
conoscenza di una “vita anteriore” prima di una caduta e di un
oblio, una memoria originaria accende l’anima, ad essa mette
le ali”.
Ecco, io ‘pulsioni’ e ‘desideri’ li intendo in questo senso e
sono proprio di questo… nodo…
e di questa
ascesa
che
dicono le
mie poesie. Per questo Al J. Moran nell’Introduzione esordisce
sottolineando che «Non eravamo in pochi a essere convinti che non ci
fosse più un tempo per il pensiero poetante –forma poetica del
pensiero forte- certi quanto meno dell’eterogenesi dei fini
poetici. Ora una poesia nuova induce a ricrederci e ad ammettere che
invece c’è un tempo ancora per la poesia della opposizione aperta
e dichiarata al mondo». Quando si parla di ‘verità’, quindi, è
nell’accezione di ricomposizione mitica tra finito e infinito,
riconciliazione degli opposti che contempli il cuore degli uomini,
perché è nella contraddizione costituita da quella tensione che
acquistano senso libertà e creatività: «Alla verità la poesia
resta invece fedele –continua Al J. Moran nell’Introduzione- alla
possibilità di attingerla nell’intermondo di cui scriveva
Hölderlin, tra le dimensioni del divino e dell’umanità, dove si
trova il poeta. La chiama in causa la verità, depositata nelle
informazioni e nella storia che l’anima raccoglie in forma
inconscia restando in attesa di restituirla. Soltanto la reminiscenza
dei fatti che l’esperienza vissuta trasforma in esistenza psichica,
può cogliere in quelli la verità formatasi al contatto tra ciò che
percepiamo in noi durevole oltre noi stessi, e la sostanza
individuale, per ridestarla e portarla in superficie. Avviene nei
momenti della reminiscenza che le idee eterne che esistono in ogni
uomo si disvelino tornando a vivere in forma intuitiva, per immagini
rivelate, le sole in grado di aprire lo spazio del significato dentro
la realtà presente immemore di sé. È questione di fede. Nei Canti
le cose accadono su un piano verticale, tra cielo e terra. Il poeta
non prova l’ipocrita vergogna di riconoscere che il patrimonio di
verità dormienti in ciascuno è quel che rende all’uomo la sua
sacralità». Una tensione verso l’ “uno”, verso l’armonia,
che non può essere allora se non azione della bellezza
e dell’amore.
Da tutto ciò l’orfismo dei miei componimenti sottolineato da Moran
(nel suo rilevare anche la mia operazione
sul
linguaggio e i luoghi
della mia ricerca), e che –in estrema sintesi- non è soltanto il
riconoscere noi stessi nati dalla cenere dei Titani, di una materia
che imprime in noi il bene
e il male,
ma nella tensione, che è ideale etico, a ridestare e a far vivere
quella parte
di divinità, di sacro, che è in ciascuno.
A.M.:
Che
tipo di letture ti affascinano?
Paolo
Maria Rocco: Tutte,
Alessia, a cominciare da tutte le letterature ‘classiche’
(italiana, russa, inglese, spagnola, dell’Est…), e poi, riguardo
alla letteratura contemporanea, dando per scontata la selezione che
si deve fare tra un Autore e l’altro, leggendo quelli, e sono
tanti, che ritengo di valore. Poesia, narrativa, saggistica,
filosofia, teatro. Insomma, leggo molto, mi piace. In questo periodo
sto leggendo due libri di tutta evasione, diciamo: racconti dei
Narratori
meridionali dell’Ottocento
e poi Il
venditore di storie
di Jostein Gaarder, norvegese, un libro datato ma che non avevo
ancora letto. Ma poi mi fermo e prendo Rilke o Leopardi, oppure
Campana, Saba, Sereni, D’Annunzio, Pascoli, Hölderlin,
Heine, Baudelaire … e poi continuo… e includerò Gozzano che
voglio leggere con più attenzione…
A.M.:
Questa
estate sarà ricca di presentazioni ed eventi oppure di relax e
riposo, magari un po’ distanti dal pc? E poi: ci sono novità
editoriali che ti riguardano?
Paolo
Maria Rocco: Farò
una presentazione dei “Canti”, qui nelle Marche (sarà la
seconda) e poi a Settembre a Firenze, per “I Canti” e per
“Virginia”. Ma soprattutto scrittura. E poi sto preparando, con
altri due amici professori, un Convegno che si terrà a Settembre o
Ottobre per la scuola nella quale insegno. Riguardo alle novità
editoriali, non posso parlarne per il momento.
A.M.:
Non
ti chiedo ora di salutarci con una citazione, come faccio, a volte…
ma… se, invece, tu ci regalassi una tua poesia?
Paolo
Maria Rocco: Lo
faccio con piacere! Per ringraziare te e quanti leggeranno vi saluto
con una poesia tratteada “I Canti”, a presto…!
“Tu
lo percepisci il repentino mutamento/ dello sguardo che acquista una
garanzia/ sulla realtà evocata. Qualcosa di noi/ in fondo rimane
isolata nella stanza (una misura/ dislocata, una discordanza tra noi/
già investigata, impervia, di quota/ non elevata). Dove non passa ti
dico/ inosservata la dilatazione nel buio/ della pupilla e una
deambulazione/ soffocata rimette in allarme/ i sensi. Ti sei ancora
una volta impegnata// A ricostruire connotati nel solaio (si
comprenda/ la condizione del cuore inviolato, e il profilo/
plausibile del tempo, com’è al tatto/ angusto) com’è sempre
sottoposto, al soldo/ dell’ignoranza dei giorni. Sopravanza lo
stupore/ di un sentimento ammaestrato un riflettore/che abbaglia: ci
sorprende/stagliati dall’alto come vorremmo essere/ritratti, in
ansia sull’impiantito/e sopraffatti destinati a fare/di queste
masserizie un solo fuoco”
A.M.:
Paolo
grazie per questi tuoi profondi versi! Ti saluto e consiglio ai
nostri lettori di acquistare “Virginia,
o: Que puis-je faire?” e “I Canti” direttamente dalla Bastogi
Libri, in alternativa è possibile acquistarli in libreria oppure
online su Amazon, Ibs, Mondadoristore (etc). Riporto la parte
conclusiva dell’incipit del Primo Tempo “I Canti”:
“Era
già stata umana, del mondo che rimase/ noncurante di te l’intuizione
- prevalse nelle sue mani/ operose un’inquietudine premonitrice, un
particolare/ esorbitante, e certo al cielo irrilevante. Del resto/
come dalla postazione cieca tu elevata al mondo divinassi,/ oh
anelanti parole l’immensa azzurrità/ per le dolenti figure il
magistero tuo mi viene in mente.”
Written
by Alessia Mocci
Info
e.mail:
paolomariarocco@yahoo.it
Fonte
http://oubliettemagazine.com/2016/07/15/intervista-di-alessia-mocci-a-paolo-maria-rocco-i-canti-e-virginia-o-que-puis-je-faire/