Intervista di Alessia Mocci a Claudio Borghi: vi presentiamo il libro L’anima sinfonica
“Dal seme profondo
nasce un nuovo incanto ed è subito fuoco. Brucerei volentieri insieme a questa
musica, ma ho deciso: resto a respirare la fragranza di questo mattino, di
questo mondo rappreso in acqua e aria, nella fresca sapienza delle idee che mi
corrono nell’anima come animali increati.” – “L’anima sinfonica”
Claudio Borghi è nato
a Mantova nel 1960.
Laureato in fisica all’Università di Bologna, insegna matematica e fisica in un
liceo di Mantova. Ha pubblicato articoli di fisica teorica ed epistemologia su
riviste specializzate nazionali e internazionali, in particolare sul concetto di tempo e la misura delle durate
secondo la teoria della relatività di Einstein.
Presso l’editore
Effigie sono
uscite due sue raccolte di versi e prose, “Dentro la sfera” (2014) e “La trama
vivente” (2016). Una selezione di testi da “La trama vivente” è stata
pubblicata nella rivista Poesia (Crocetti Editore, settembre 2015), con una
nota critica di Maria Grazia Calandrone. Nel
maggio del 2017 presso Negretto Editore è uscita la raccolta “L’anima sinfonica” nella collana “Versi di versi” con la presenza di una
nota di lettura di Zena Roncada.
I testi de
“L’anima sinfonica” sono un connubio di
prosa e versi, e come lo stesso autore ci racconterà a breve, frutto di scritti giovanili che
successivamente sono stati ripresi in mano ed interpretati.
Suddiviso in quattro sezioni (“L’attesa nel nulla”, “Itinerario
verso l’Ultimo”, “Pensieri di Mozart” ed “Il seme della notte”) il lettore
viene rapito dalla bellezza della
musicalità del verso pregna di spiritualità. Né una parola in più né una di
meno, ci si addentra in un percorso
metafisico nel quale, citando lo stesso Borghi, è bene ricordare che “La verità non sarà mai nell’anima. L’anima
crea nel tempo solo favole e versi. L’anima segue la marea.”
Non
proseguo oltre, e vi lascio alle
risposte di Claudio Borghi, certa che possano illuminarvi sulla sua ultima
pubblicazione “L’anima sinfonica”.
A.M.: Ciao Claudio, innanzitutto volevo
complimentarmi per questa pubblicazione con la casa editrice Negretto Editore.
Scommettere sulla filosofia oggigiorno è abbastanza arduo, ma fortunatamente ci
sono ancora editori che ne garantiscono la sopravvivenza. Come prima domanda mi
piacerebbe che parlassi ai lettori della genesi e dell’editing del libro
“L’anima sinfonica”.
Claudio Borghi: Ciao Alessia, ti ringrazio per i
complimenti. E colgo l’occasione per ringraziare anche Silvano Negretto,
editore coraggioso che pubblica solo testi che ritiene, a suo dire, di provata
qualità, il che mi rende molto orgoglioso di far parte della sua scuderia. I testi raccolti sotto il titolo L’anima sinfonica abbracciano un arco temporale molto esteso, dal
1978 al 1997. In realtà i primi tre, L’attesa
nel nulla, Itinerario verso l’Ultimo
e Pensieri di Mozart, sono
concentrati nel periodo tra il 1978 e il 1980 (ero studente
liceale-universitario), mentre il quarto, Il
seme della notte, risale al biennio 1996-97. Intorno ai primi anni novanta
avevo cominciato a rileggere gli appunti risalenti a oltre dieci anni prima, su
cui non ero più tornato. Il lavoro per recuperare, ordinare, interpretare e
trascrivere i tanti fogli che avevo riempito, con calligrafia minutissima, di
pensieri e versi era durato più di due anni, in cui mi ero riappropriato di
tracce di vita e flussi di mente e sentimento che erano sì trascorsi attraverso
me, ma mi apparivano lontani, quasi estranei e potenzialmente perduti. Dopo la
fatica erano nati, quasi naturalmente, in una sorta di continuità interiore, i
versi e le prose de Il seme della notte,
in cui l’anima sinfonica, oasi emozionata di tempo, aveva ripreso a pulsare. Si tratta di un’opera, per quanto giovanile, per me di grande
importanza, in quanto le radici di Dentro la sfera (Effigie, 2014) e La
trama vivente (Effigie, 2016) sono in questo itinerarium teso, emozionato,
sul filo di una rapsodia musicale il cui esito rimane da principio a fine
incerto e sospeso. Nella Postilla conclusiva ho
scritto: “Nella continua germinazione di idee da semi identici, con la mente e il
cuore in equilibrio instabile tra pieno e vuoto, essere e nulla, repentina
accensione e improvvisa assenza di parola, ha trovato forma sinfonica
un’esperienza creativa che non rientra in nessun genere, sospesa com’è tra
poesia e filosofia, teologia e mistica, proprio perché è nulla, non ha ancora o
non vuole cadere in una forma chiusa o in uno stile prefissato.”
Si tratta in effetti di una forma complessa e di
una struttura in divenire. Il libro è stato in origine pensato, e la natura
singolare degli aforismi lo conferma, come una possibile evoluzione del Tractatus
logico-philosophicus di Wittgenstein (in particolare delle ultime
proposizioni, quelle sul mistico), che dalla forma del pensiero
razionale-speculativo a poco a poco si trasfigura in poesia. Un’immagine che
esprima questa evoluzione naturale, una sorta di mutazione genetica, dal
pensiero speculativo alla poesia, potrebbe essere uno dei tanti quadri di Escher
in cui degli animali, ad esempio pesci, diventano uccelli o farfalle,
liberandosi metaforicamente dalla prigione del sensibile e dell’intelletto per
staccarsi in forma di volo poetico.
A.M.: In apertura del capitolo “L’attesa del nulla” proponi al lettore
l’argomento del tuo lungo dialogare: la luce. Nel paragrafo: “L’io è alienato in una dimensione spaziale,
abita il cerchio, è consapevole dell’una totalità del cosmo, coglie la fonte dell’armonia
– in un volo smarrito” introduci il centro, l’io alienato che insegue la
ricerca del senso. Il volo, la ricerca, è da intendersi come allontanamento
dalla mente e dunque dalle dimensioni spazio/tempo in cui siamo ancorati?
Claudio Borghi: La metafisica
totale, quasi senza respiro, in cui mi trovavo immerso, una sui generis metafisica
della luce (nel senso non tanto di Odisseas Elitis, che allora non
avevo letto, quanto del Juan Ramon Jimenez della Stagione totale
o del Plotino delle Enneadi), si sposava, in una sorta di
contrappunto poetico-musicale, con la teologia negativa della notte oscura di
Juan de la Cruz o di Nicola Cusano, in una straniante quanto per me feconda
prospettiva di possibile conoscenza empirica di una dimensione oltre l’io, a
cui si accede dimenticando il sé contingente. La luce è una sintesi metaforica della
comunione tra l’Uno e le anime-corpi. L’esistenza individuale, nelle sue
contraddizioni, nella sua multiforme provvisorietà e contingenza, intellettuale
ed esperienziale, si configura come una necessità interna all’Uno, che in un
certo senso si invera nell’autenticità della dimensione, sospesa tra pienezza
sensibile e privazione, estasi e dolore, in cui si risolve e si manifesta la
vita delle creature. L’intuizione poetica vivifica il pensiero, accende l’io,
lo rende pulsante e capace di volo, pur nello smarrimento dell’identità che lo
confina in un guscio spaziotemporale. Non c’è
progresso nell’avanzare della mente verso l’Ultimo, c’è uno schiarirsi
autonomo, involontario della visione, in cui la ragione si abbandona al senso
che si dona oltre il sé, oltre il pensiero.
A.M.: Stupore.
Meraviglia. Un traguardo di elevarsi al di sopra delle idee. Le astrazioni
nelle quali si rifugia la mente. Perché l’essere umano è determinato dalla
volontà di definizione certa di verità? Come eludere queste illusioni
autodeterminate?
Claudio
Borghi: Ti rispondo citando uno dei
passi finali de L’attesa nel nulla: “I filosofi – che parlano come se possedessero
il succo intimo dell’umanità e raccontano l’idea immanente e lo sguardo
trascendente che scruta il cuore dell’uomo – non sanno cosa dicono. Si
smarriscono nel momento stesso in cui contemplano il loro apparente universo di
certezza. La filosofia è testimonianza di uno smarrimento.”
Il pensiero ha
bisogno di cristallizzare razionalmente una sostanza che gli sfugge, in quanto
cambia continuamente forma: vuole persistenza laddove trova solo flusso o, come
scrivevo in un passaggio dei Pensieri di
Mozart, terzo capitolo del libro, un fuoco che brucia incessante: “La
musica ovunque si sparge, gemmando dal cuore dell’ora. Gli specchi portano
sempre più dentro, moltiplicano l’illusione della conoscenza verso la visione
di una forma senza legami, incomprensibile e inimmaginabile. Il fuoco brucia incessante.”
Vivere la sinfonia
della vita nel suo manifestarsi sfuggente e imprendibile è forse l’arte più
alta, che richiede il sacrificio della presunta sapienza sistematica, chiusa
nel castello d’argilla della ragione filosofica.
A.M.: Il viaggio in mare è inteso come
pregno di “sofferenza e speranza”. Ma
cosa intendi esattamente con “speranza”? Potrebbe essere una mera illusione? Ma
soprattutto che cosa ritieni ci sia oltre la sofferenza e la speranza di un
iniziale viaggio?
Claudio
Borghi: Il senso del viaggio è puramente
metaforico e allusivo. La marea più volte evocata è la marea del pensiero, che
si dissolve avvicinandosi all’Uno, nello smarrimento di ogni forma al dilagare
della luce: “L’anima
si risolve nell’Uno, in marea altissima fluttuante scintillante come acqua che
inonda – luce che da sé si rinnova nella sua ascesa lenta e profonda – marea
immensa e presente – cresciuta su di sé e da sé fiorita: estasi, estasi della
mente.” (da L’attesa
nel nulla, sezione 5)
Sofferenza e speranza sono la materia sensibile
dell’esistenza che viviamo in forma di creature, che Caproni riassumeva nel
neologismo disperanza, titolo di una
poesia del Conte di Kevenhüller. Il compiersi
o risolversi dell’anima nell’Uno non sappiamo cosa possa significare nei limiti
della nostra povera rappresentazione interiore. La sinfonia non nasce dall’io,
che tenta di carpire e sondare il mistero del dolore insensato in cui dovrà
prima o poi consumare la sua sostanza temporale, nella misura del distacco
dalle forme care e della dissoluzione del corpo.
A.M.: Il crollo della Torre di Babele è
un mito a cui dovremo costantemente prestare attenzione e che denota
simbolicamente la nostra impossibilità di comunicazione. Infatti come ben
scrivi: “La parola è sfuggente, senza
forma, senza significato logico. La parola è bianca.”. Filosofi, poeti,
alchimisti per millenni hanno parlato tramite simboli per codificare il
linguaggio che ognuno di noi possiede al suo centro. Rammenti quando è iniziata
la tua codificazione? E quali testi ti hanno teso la mano in questa selva?
Claudio
Borghi: Sono tanti i testi e gli autori,
provo a citarne qualcuno. Tra le opere filosofiche: il Timeo di Platone, le Enneadi di Plotino, le opere di Dionigi
Aeropagita, Juan de la Cruz e Meister Eckhart, La Commedia di Dante e l’Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura, La dotta
ignoranza di Nicola Cusano, De la causa, Universo et Uno e De l’infinito, Universo e mondi di Giordano Bruno. Tra le opere poetiche:
Gli Inni alla Notte di Novalis, Les Illuminations di Rimbaud,
Exil e Chronique di Saint-John Perse.
Ma pensandoci bene me ne vengono in mente tanti altri, Simone Weil e Ludwig
Wittgenstein (che Marco Vannini considera tra i più grandi mistici del
Novecento), il Rilke delle Elegie Duinesi e dei Sonetti a Orfeo, Leopardi, Campana, Rebora, Michelstaedter, Caproni...
ed è come un reimmergermi nell’io diffuso imprendibile che ero allora, nel
pensiero di tante anime che mi parlavano e mi nutrivano, punto di luce che sentiva
e viveva la conoscenza come atto di visione e annullamento del confine minuscolo
della persona. La codificazione è iniziata intorno ai sedici-diciassette anni,
grazie al filtro potente della Lettera
del Veggente di Rimbaud.
A.M.: Qual è il tuo rapporto con la
psicoanalisi ed in particolare con Carl Gustav Jung ed il concetto di ombra/daimon?
Claudio
Borghi: Molto intenso, in tempi recenti,
è stato il rapporto con Il Libro Rosso
di Jung, opera di introspezione,
superamento del sé fenomenico, rivelazione dell’enormità dell’essere che sta
sotto la punta emersa della breve candela della coscienza. Gli studi
sull’esoterismo, l’alchimia e il misticismo di Jung mi hanno molto affascinato,
come quelli dello psicanalista junghiano James
Hillmann, che sul tema dell’ombra/daimon ha incentrato Il codice dell’anima. Come dice un mio caro amico, il poeta
Salvatore Martino, una poesia che non sia impregnata del mistero, dell’ombra
del daimon, non ha senso di essere, si riduce a sterile ricamo, assenza di necessità,
inutile maniera.
A.M.: “L’immenso teatro della disperazione.” La consapevolezza di farne
parte. L’angoscia profonda che invade come un’onda maestosa la terra. Se un
approdo sicuro non è dato, dove potrà portarci questo peregrinare? Un’attesa
dolce alla morte fisica?
Claudio
Borghi: Vorrei precisare il contesto completo
da cui è tratta la citazione che riporti, nella seconda sezione de L’attesa nel nulla: “La Bibbia rivela l’onda unica del problema: la
sua radice è la cacciata dal paradiso terrestre e il suo cammino si snoda fino
a Cristo. La Bibbia non risolve l’angoscia del singolo: la inserisce nell’onda
unica: descrive l’immenso teatro della disperazione che si risolve in un grido
sulla croce – quando, asciugatasi la marea, il padre pare troppo lontano –
irrimediabilmente assente.”
Si tratta di un
riferimento esplicito all’Antico testamento, alla disperazione generata
dall’assenza del Padre, della luce della rivelazione. L’Antico testamento pare
una immensa tragedia irrisolta, che si accende di possibile senso e si compie con
la venuta e il sacrificio di Cristo. Lungi dal voler proporne una chiave di
lettura in forma di escatologia cristiana, mi limito a suggerire che il libro
alterna sinfonicamente modulazioni tragiche e alte tensioni meditative, che qua
e là si appianano in improvvise illuminazioni, tra cui l’intuizione di Cristo
come presente rapimento eterno, per cui il Verbo può essere concepito solo coniugandolo al futuro:
In principio era il verbo: queste le parole del mistico.
Strano inganno
delle parole, che chiudono tutto nel tempo!
Cristo è il
presente rapimento eterno – il verbo che nasce quando finisce il pensiero.
Il verbo è
l’incontro tra la verità dell’uomo centrale, che parla di Dio, cerca e illumina
una strada, e la verità indicibile del rapimento fuori dal centro, fuori
dall’organismo, per la quale non esiste un linguaggio nell’essere.
Cristo è l’avvento
della nuova lingua – la lingua che non dice.
Cristo deve ancora
venire – è futuro in ogni momento della storia, per ogni popolo della Terra.
In principio era il verbo diventa, nella nuova lingua, il verbo sarà il principio. (Da L’attesa nel nulla, sezione 4)
A.M.: “L’uomo diventa silenzioso come un albero o un animale, guarda il mondo
con gli occhi di chi dentro tace.” Ritieni che sia possibile per tutti gli
esseri umani giungere (e qui intendo nella dimensione spazio/temporale) a toccare
questa quiete/nulla in contemporanea? Oppure questa è solo un’illusione che si
ciba di speranza?
Claudio
Borghi: Il tornare al nulla non è un
rassegnarsi a una prospettiva sterilmente nichilista, ma uno spegnere l’io per
sentirlo rinascere in altra forma. È un’esperienza accessibile a tutti, basta
non pensare alla fine come distruzione, ma come rinnovamento. Cito alcuni passi
successivi a quello che hai riportato tu, dalla sezione 3 de L’attesa nel nulla:
“L’essere non è più la luce essenziale del
mondo.
La sostanza si
svuota di senso – perde vita – esce dalla filosofia.
L’organismo Uno
appassisce e si scolora.
L’anima si contrae
in voce che non dice, sospesa filtra la sostanza della mattina, espira un’aria
che si sbianca.
Le parole nascono
riempiendo la luce di forme.
Piano sbocciato in
un discorso quasi intoccabile, in una musica senz’altro inudibile, affiora il
centro come goccia dal nulla.
La sostanza pulsa,
brilla in profondo come una gemma di limpidezza nuova – riducendosi a polvere
di ali colorate – a un battito di farfalla luminosa.”
A.M.: “L’attesa del nulla” termina con il
“Tema della rosa”, un insieme di prosa e versi nei quali la rosa è vista come
la mente che pian piano si illumina. Se ora ti chiedessi un nome, quale mi
proporresti?
Claudio
Borghi: Il pensiero va, oltre al Juan Ramon Jimenez della Stagione
totale, alla rosa, pura contraddizione, voglia/ d’essere il
sonno di nessuno sotto così tante palpebre di Rilke, ma, soprattutto, alla Niemandsrose
di Celan:
“Noi un Nulla
fummo, siamo, reste-
remo, fiorendo:
la rosa del Nulla,
la rosa di Nessuno”
fummo, siamo, reste-
remo, fiorendo:
la rosa del Nulla,
la rosa di Nessuno”
la cui tensione si ritrova nel
finale del Tema della rosa:
“– dove finisce il
cuore in eterno sollevarsi?
in alto beve il
nulla, sospeso
nel chiaro flutto
senza forma,
in bianca estenuazione
senza futuro
– in alto dunque
l’ultima presenza del palpito?”
A.M.: Qual è la domanda che non ti ho
fatto ed a cui avresti voluto rispondere?
Claudio
Borghi: Da Muore l’uno, in Itinerario
verso l’Ultimo: “L’estasi è una morte
del tempo, dell’essere-tempo.”
Domanda: come può l’estasi essere
una morte e generare vita?
A.M.: L’11 ottobre hai presentato
“L’anima sinfonica”. Com’è andata?
Claudio
Borghi: È andata molto bene. L’incontro,
in cui sono stato affiancato dal critico Claudio Fraccari, si è svolto al
Centro Baratta di Mantova: è durato quasi un’ora e mezza tra introduzione
critica, commenti, letture di testi, in un silenzio tangibilmente e
profondamente attento di un pubblico molto numeroso. Un’emozione inaspettata,
visto che, data la complessità e densità dei testi, temevo un crollo
dell’attenzione dopo al massimo mezzora.
A.M.: Come ti stai trovando con la casa
editrice Negretto Editore? La consiglieresti?
Claudio
Borghi: Benissimo. Consiglio caldamente ai
lettori di avvicinarsi a una Casa Editrice che punta tutto sulla qualità delle
opere e sulla crescita culturale dei lettori, investendo in testi di ricerca
poetica e filosofica che, come dice Silvano, “verranno metabolizzati magari a distanza di anni, ma lasceranno un
segno”. E questo è indubbiamente un atteggiamento di serietà, competenza,
intelligenza e, soprattutto, grande coraggio.
A.M.: Salutaci con una citazione…
Claudio
Borghi: “Il poeta è davvero un ladro di fuoco (le poète est vraiment voleur de feu)” - Arthur Rimbaud, da La lettera del Veggente
A.M.: Claudio, ti ringrazio per la tua
disponibilità, dialogare con te su queste tematiche mi ha ricondotto al tuo
“L’anima sinfonica” a cui dedicherò una nuova lettura. Augurandomi che in tanti
possano abbeverarsi dei tuoi scritti, ti saluto con l’ultima strofa de “Tra le
mille ore felici” di Novalis: “Chi ho
visto, e chi alla sua mano/ mi apparve, non chieda nessuno,/ questo soltanto
vedrò in eterno;/ e questa sola, tra tutte le ore/ della mia vita, serena e
aperta/ starà per sempre, come le mie piaghe.”
Written by
Alessia Mocci
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