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Anni difficili di Franco Rizzi: un romanzo che racconta l’epilogo delle Brigate Rosse


Sapeva benissimo che una pistola non era una difesa sufficiente per il pericolo che l’avrebbe atteso nei giorni, nei mesi a venire, ma non aveva trovato nulla di più efficace da opporre al destino che lo stava aspettando.”

Dalla terrazza dell’albergo in cui alloggia a Caracas, Gianni Trapani amalgama i ricordi del passato a ciò che avrebbe dovuto fare nell’immediato futuro accompagnato dalla musica di quattro suonatori di tromba di una festa al piano di sotto. È la sua quarta volta a Caracas ed, in profonda solitudine, sente di essere giunto alla fine di un percorso, gli avvenimenti degli ultimi anni gli avevano cambiato la vita ed in tutti quei pensieri tragici poteva indicare un solo colpevole: se stesso.

Sì, perché ogni scelta giornaliera modifica il sentiero dell’essere umano, e questo Gianni Trapani lo sapeva bene ma ora sapeva anche che nella vita capita quel momento di estrema disperazione che prende possesso di ogni arguzia – difesa intellettiva – e rende disarmata la capacità di scelta vantaggiosa.

Con una laurea in Lettere da Catania si era trasferito a Milano nel 1969 e per i primi cinque anni aveva lavorato come consulente in un negozio in corso Venezia. Non si lamentava ma non si sentiva soddisfatto della sua vita e forse per questo motivo, per questa insoddisfazione, aveva deciso di aderire alla Massoneria presso il Lions Club di Milano.

Per prima cosa gli era stata chiesta una quota d’iscrizione, poi era stato introdotto in un bugigattolo, dove aveva trovato un teschio di plastica ed un biglietto con tre domande: “Cosa devi a te stesso? Cosa devi alla patria? Cosa devi all’umanità?

Fu, infatti, questa scelta intrapresa senza una dovuta riflessione a modificare il sentiero di Gianni, la noia che provava per il suo lavoro si era manifestata in una nuova opportunità, in una biforcazione della via che lo avrebbe guidato verso la disgrazia.

“Anni difficili” dell’autore Franco Rizzi ed edito dalla casa editrice La Paume nel 2019 racconta, attraverso le vicende personali di tre uomini, l’Italia a cavallo tra gli anni ’70 ed ’80 divisa fra la dura lotta di classe e di ideali fra irriducibili della liberazione del 1945, seguaci del sessantotto e fazioni nostalgiche di estrema destra; la massoneria deviata che si stava formando e l’espansione sempre più energica della mafia siciliana.


L’autore è stato molto abile nel combinare la vita dei tre personaggi con i violenti episodi del decennio di lotta armata della storia italiana, ed infatti sono numerosi i riferimenti ai fatti che portano alla fine delle Brigate Rosse dall’arresto di Renato Curcio passando per gli scioperi di migliaia di operai FIAT, il ritrovamento in Etiopia dei resti fossili della famosa Lucy, l’assassinio degli studenti Claudio Varalli e Giannino Zibecchi, i discorsi di Enrico Berlinguer che da segretario del Partito Comunista parlava di pluralismo democratico, l’omicidio dello stimato intellettuale Pier Paolo Pasolini, il rapimento di Aldo Moro, l’indagine a cui è stato sottoposto Licio Gelli, la morte di papa Paolo VI, il breve pontificato di soli trentatré giorni di papa Giovanni Paolo I (nato Albino Luciani), l’omicidio del 6 gennaio 1980 del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella sino alla strage nella stazione ferroviaria di Bologna del due agosto ed il quattordici di ottobre con la marcia dei quarantamila di Torino. 

Nel passato molte famiglie siciliane, specie se nobili oppure rispettabilmente ricche, seguivano l’antica tradizione di instradare uno dei figli cadetti alla carriera ecclesiastica, perché potesse diventare vescovo, compensandolo in tal modo del fatto di non poter ereditare titoli e beni che erano invece retaggio del primogenito. Quando questo accadeva, i cadetti non diventavano preti per vocazione, ma solo per convenienza e di solito erano dei pessimi preti. […] Altri, specie se vi erano Massoni in famiglia, diventavano a loro volta Massoni e formavano una Loggia coperta all’interno del Vaticano molto segreta, ma molto potente.”

Gianni Trapani incontrò il dottor Aldo Devita nel gennaio 1975 nel suo studio di Santa Margherita ligure, non lontano da Rapallo. Ricevette il suo contatto dal Maestro Venerabile della sua Loggia di Milano.

Devita era un uomo magnetico, fumava una sigaretta dopo l’altra e con fare affettuoso riusciva a dialogare con tutti in modo fraterno. Gianni ne fu subito affascinato e spiegò il motivo della sua visita: aveva perso il lavoro e non riusciva a trovarne uno soddisfacente a Milano.

Il dottor Aldo Devita arrivò nella riviera ligure nel 1961 in fuga da Napoli, aveva colto il momento di grande espansione – deturpazione − del territorio ed aperto un centro privato nel quale si occupava di analisi delle urine e del sangue di ricchi pazienti.

La laurea in biologia e non in medicina non fu mai un ostacolo per lui, Aldo era abile nel truffare e nell’usare le persone individuandone le capacità. Un paroliere eccezionale che si era, sin da subito, presentato come Massone incaricato di riorganizzare la Massoneria nel nord Italia.

Edith era la donna ideale per Aldo. Di origine austriaca era giunta in Italia dopo la fine della guerra, era di carattere molto duro e condivideva con lui la capacità spregiudicata di servirsi di tutte le persone che le capitavano a tiro, per poi lasciarle al loro destino quando non avessero più avuto nulla da dare. […] Così si erano andate consolidando due strutture ben diverse. Sulla superficie si era formata una Loggia che lui un giorno aveva battezzato Cama, cioè Centro Attività Massoniche Accettate, fingendo che fosse un nome molto antico, mentre sotto si agitava un mondo molto eterogeneo e pericoloso, che Aldo gestiva in modo spregiudicato.”

Il modus operandi della massoneria deviata – la Cama − si ripeteva sempre identico: Aldo pensava ad affiliare nuovi fratelli per continuare ad alimentare non solo le casse della Loggia con la quota d’iscrizione ma per aver nuovi volti da mostrare nei vari incarichi in giro per l’Italia e per il mondo, così da non dover rendere conto alla sua ristretta cerchia delle possibilità di grossi guadagni che, invece, voleva tener per sé. Gianni viveva questa situazione in uno stato mentale tra la fascinazione e la paranoia soprattutto dopo il viaggio in Venezuela del febbraio 1976.

Aldo scelse di portare con sé Gianni perché “era fuori dal giro ma sembrava sempre seguirlo come un cane fedele, nonostante lui lo tenesse in disparte”. Similmente alla precedente “missione” in Sicilia, Gianni non era stato informato di nulla e trovandosi del tempo libero decise di chiamare il Lions Club di Caracas.

È in questo modo che viene presentato il terzo protagonista del romanzo “Anni difficili”: Vicente Razini, originario di Pescara emigrato a Caracas negli anni cinquanta che, senza un lavoro fisso, vivacchiava facendo un po’ di tutto senza badare troppo al domani. Vicente non poteva immaginare che quella serata avrebbe innescato un processo fortuito che l’avrebbe fatto diventare un uomo ricchissimo.

Per Gianni si era trattato solo di una telefonata e dopo, preso dai suoi pressanti problemi, non vi aveva più pensato. Il Barbaretti invece si era mosso con abilità, si era immediatamente recato a Caracas, dove si era incontrato con Vicente Razini: il primo aveva le idee molto chiare e l’altro era pronto a seguire qualunque iniziativa.”

A tessere la tela del fato sono le Moire, a tessere la trama di “Anni difficili” è la Mafia siciliana che, onnipresente nel territorio e precisa nelle azioni, rivela la sua forza in ogni pagina di questo intenso romanzo dedicato ad un periodo in cui si è distrutta l’antica bellezza e sapienza dell’Italia.

Certe volte suo padre, che lavorava alle poste di Catania, aveva accennato a uomini d’onore che comandavano, a cui si doveva obbedire senza obiettare, se si voleva vivere tranquilli. Non bisognava mai inimicarseli, al contrario se si riusciva a entrare nelle loro grazie, si poteva anche ricercarne la protezione, perché lo stato era una cosa astratta e lontana, mentre loro erano sempre presenti.

Franco Rizzi è nato a Torino nel 1935, ha vissuto a Milano, città nella quale si è laureato in Ingegneria Elettrotecnica presso il Politecnico. Sin da giovane ha lavorato nella ditta creata da suo padre nel 1938 come progettista di impianti per il risparmio energetico. Appassionato di letteratura ed architettura, oltre al nuovo romanzo “Anni difficili” ha pubblicato “1871 ‒ La Comune di Parigi”, “Luca Falerno ‒ Caccia nelle Murge”, “Mini ‒ Storia di un pittore”, “1945 ‒ Anno zero sul lago”, “… scrivimi!”, “Il delta del Nilo”.

Written by Alessia Mocci
Addetta Stampa

Info
Sito Franco Rizzi
http://www.francorizzi.it/
Facebook La Paume Editrice
https://www.facebook.com/LaPaumecasaeditrice/

Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/05/18/anni-difficili-di-franco-rizzi-un-romanzo-che-racconta-lepilogo-delle-brigate-rosse/


Trattamenti shiatsu gratuiti allo stand Forma 2000 a Rivoli

Nell'ambito del Festival Olistico e del Benessere che si terrà a Rivoli il 25 e 26 Maggio, la palestra Forma 2000 sarà presente con un proprio stand in cui sarà possibile per i visitatori ricevere un mini trattamento shiatsu.

Da oltre 20 anni la palestra Forma 2000 è un punto di riferimento nelll'ambito della ginnastica correttiva e posturale.
Viviana Siberino, responsabile del centro e chinesiologa, con il suo staff specializzato e diplomato ISEF segue gli associati in un percorso riabilitativo altamente personalizzato.

Viviana sostiene  che il benessere fisico è raggiungibile solo se è contemporaneamente presente anche un benessere psichico ed interiore della persona.
Per questo motivo ha affiancato negli anni alle attività di riabilitazione posturale anche discipline che lavorano su aspetti più profondi della persona come ad esempio yoga, pilates e shiatsu.

Proprio quest'ultima disciplina, una vera arte che mette a contatto il profondo io dell'operatore shiatsu e del ricevente, sarà uno delle attività fulcro dello stand.

Forma 2000 è da molti anni una delle sedi della scuola shiatsu ANMA. Presso la sua sede, sotto la guida dei maestri e insegnanti Micalizzi, Gallo e Siberino da anni si formano operatori olistici di alto livello professionale.

Due eventi di prova,  in cui sarà possibile per i partecipanti imparare e mettere in pratica tecniche base di shiatsu, saranno promossi durante il festival.

I due eventi si svolgeranno presso la palestra Forma 2000, via Pasteur 20/C di Rivoli (Torino) il giorno 30 Maggio 2019 ore 20,30 ed il  9 giugno 2019 ore 9,30.

Per informazioni tel. 011 9586251 oppure www.forma-2000.it

Intervista di Alessia Mocci a Silvano Trevisani: vi presentiamo Alda Merini tarantina


L'assillo della contemporaneità è il successo. Tutte le arti vengono esercitate più che come espressione dello spirito e come esperienza di innalzamento culturale, esclusivamente come affermazione della propria personalità.– Silvano Trevisani

Silvano Trevisani, giornalista professionista, è nato e vive a Grottaglie. Attualmente è redattore capo del settimanale “Nuovo Dialogo” e direttore della rivista “l'Officina – Laboratorio delle culture e delle storie” (Edit@ dal 2014). È stato per molti anni responsabile dei servizi culturali del “Corriere del giorno di Puglia e Lucania”, ha lavorato per la redazione di Bari di “Repubblica”, ha collaborato con “l'Osservatore Romano” e collabora con giornali e riviste.

Saggista, poeta, scrittore e critico d'arte, ha pubblicato numerosi volumi e saggi di storia, economia, arte, letteratura, oltre a opere di poesia e narrativa. Ha ideato le celebrazioni ufficiali per il ventennale di Giorgio de Chirico, nel 1998, per conto della Fondazione de Chirico, realizzato un saggio per il catalogo De Chirico e la Metafisica del Mediterraneo (Rizzoli, 1998); ha curato il diario inedito di Carlo Belli, teorico dell'astrattismo geometrico (AltaMarea, 1997).

Per la narrativa: il romanzo umoristico Lo norevole (Manni, 1997), con prefazione di Vincenzo Mollica, Storie di terre di sole (riedita da Capone, 2007), prefazione di Donato Valli e Ombre sulla città perduta (Radici Future, 2017).

Tra i suoi numerosi saggi: Creatività e inclusione (Rubbettino, 2013); Alda Merini e Michele Pierri, cronaca di un amore sconosciuto, (Edit@ 2016).

Per la poesia ha pubblicato le sillogi Poesie (Nuova Amadeus, 1995), prefata da Giacinto Spagnoletti, vincitrice del Premio Saturo d'argento e del Premio Vanvitelli-Caserta, 5 poesie d’amore, in Amore, amore… nei versi di dieci poeti pugliesi” (Edizioni AltaMarea, 1998, con prefazione di Donato Valli), L'altra vita delle parole (Nemapress, 2012), con prefazione di Plinio Perilli e postfazione di Cristanziano Serricchio, Geometrie del desiderio, con le illustrazioni di dieci grandi artisti (Edizioni Galleria Margherita, Taranto 2012), Terra Madre, con le illustrazioni della scultrice Lucia Rotunno (Print Me, 2017).

Ha collaborato con Macabor Editore per alcuni numeri della collana “Sud – I poeti” ed ha curato nel 2019 il volume “Alda Merini tarantina” di cui tratterà la seguente intervista.

L’antologia, disponibile in libreria da maggio, tratteggia la poetessa dei Navigli nella bella città di Taranto proponendo un’interpretazione dei fatti che portarono al matrimonio con il poeta e medico Michele Pierri da parte di intellettuali ed amici che hanno conosciuto la coppia e le due identità.

“Alda Merini tarantina” è anche un viaggio nella Puglia poetica grazie alla presenza della sezione “Voci dal silenzio – Poeti pugliesi contemporanei e da non dimenticare” e da una interessantissima “Antologia dei poeti pugliesi”.

A.M.: Buongiorno Silvano, sono lieta di poter dialogare con lei a proposito della nuova pubblicazione di Macabor Editore “Alda Merini tarantina” che vuole sì ricordare il decennale della morte della poetessa ma anche proporre una riflessione sulla poesia pugliese. Quando nasce l’idea di collaborare all’antologia poetica?
Silvano Trevisani: Ho conosciuto Alda Merini, Michele Pierri, quasi tutti i figli di Michele, Giacinto Spagnoletti e molti degli amici che furono vicini alla coppia negli anni di Taranto. Ho avuto per le mani poesie e documenti inediti e ho per molti anni letto quello che si diceva su Alda, quando era ancora viva, e sul suo rapporto con Taranto, del quale mi sono occupato in alcuni libri molto documentati. Degli anni di Taranto, che sono fondamentali nella rinascita di Alda, si è scritto pochissimo e in maniera quasi sempre sbagliata. Soprattutto nei giornali che si sono occupati di lei in occasione della scomparsa, mi è capitato di leggere errori grossolani, datazioni erronee, giudizi superficiali. Ho cercato di raccontare la verità oggettiva, forse disturbando qualcuno di quelli che si ritenevano i soli biografi, ma ho voluto che si ricordasse che Alda è stata tarantina, che ha svolto un ruolo culturale negli anni di Taranto e dimostrare che gli anni di Taranto sono stati per lei fondamentali. Ricorrendo quest'anno il decimo anniversario della morte, ho pensato che sarebbe stato bello coinvolgere nella celebrazione i poeti pugliesi a me più cari (per molti anni ho curato le pagine culturali del quotidiano Il Corriere del giorno), ma allargando l'orizzonte anche ai poeti scomparsi, che hanno dato lustro alla Puglia poetica. È nata così l'idea di un'antologia che nascesse e si sviluppasse attorno al ricordo di Alda Merini “tarantina”.

A.M.: Nella sua introduzione tratteggia la casa editrice Macabor come impegnata per “la conoscenza e la diffusione della poesia, genere che incrocia il massimo della militanza con il minimo della diffusione, in un paese in cui tutti scrivono e nessuno legge”. Quali sono le cause di questa “impellente” necessità di scrittura senza alcun interesse verso la lettura?
Silvano Trevisani: L'assillo della contemporaneità è il successo. Tutte le arti vengono esercitate più che come espressione dello spirito e come esperienza di innalzamento culturale, esclusivamente come affermazione della propria personalità. In tempi di esasperazione dell'individualismo (leggansi i vari moniti di papa Francesco) quasi tutte le persone scolarizzare, oggi, sono indotte a credere che il possesso di strumenti comuni di espressione le renda potenziali artisti: scrittori, poeti, pittori, cantanti, ballerini, attori, registi, sceneggiatori, musicisti, e così via... Ma se per la maggior parte delle arti occorre acquisire abilità aggiuntive (ad esempio il musicista deve almeno saper leggere il pentagramma) per la scrittura l'accesso è molto più semplice, e la pubblicazione di propri testi è molto favorita dall'abbattimento del costo della stampa. Si sa che la poesia, poi, è un'attitudine quasi universale, soprattutto in età adolescenziale, solo che oggi quasi tutti coloro che hanno scritto poesie, non aggiornandosi, si convincono di aver scritto qualcosa d'importane e non ci pensano due volte a stampare. Detto questo, accade che la maggior parte dei poeti, che continua a scrivere secondo forme e linguaggi di livello scolastico, sia convinto che la vera poesia sia la sua, non avendo attrezzatura critica, e non ha mai l'interesse a leggere i libri degli altri, neppure per affinare il proprio stile. Perciò tutti scrivono ma pochissimi leggono. Ciò porta la poesia a essere un genere per niente commerciabile e gli editori come Macabor, che pubblicano poesia e anzi organizzano progetti di poesia, sono davvero degli eroi. Che meritano sostegno e collaborazione, anche perché non sono editori-stampatori e non favoriscono il proliferare delle pubblicazioni per trarne profitto.

A.M.: Si è scelto di dedicare un capitolo dell’antologia a Michele Pierri, punto di riferimento della cultura pugliese purtroppo, oggi, poco conosciuto. Qual è stato il suo rapporto con Pierri?
Silvano Trevisani: Michele Pierri è stato, soprattutto per noi tarantini, ma non solo, un punto di riferimento. Persona straordinaria e umile dalla vita avventurosa e affascinante. Grandissimo poeta che ha scontato, come tutti coloro che scelgono di rimanere al Sud, la distanza dai centri di potere, nonostante fosse amato da Ungaretti, Betocchi, Pasolini, Maria Corti e moltissimi altri. Lo consideravo mio maestro e lo frequentavo soprattutto per conoscere il suo parere sulle mie poesie. Ho incrociato molte volte Alda, negli anni del loro matrimonio, che interveniva spesso con le sue osservazioni e i suoi apprezzamenti. Michele, che era molto umile e molto disponibile, mi disse di far leggere le mie poesie a Giacinto Spagnoletti, che era il critico letterario più autorevole, e anch'egli tarantino. Così feci: passai tutto a Giacinto, secondo il consiglio di Michele, che però ebbe vari problemi di salute e soprattutto per la vista, e mi portò via molto tempo. Alla fine, curò la pubblicazione della mia prima racconta di poesie. Purtroppo, però, Michele era già morto da qualche anno.

A.M.: Michele ed Alda si incontrano nel 1981 con “frequentazioni telefoniche ed epistolari”. Come fu affrontato il problema della “pazzia” della Merini?
Silvano Trevisani: Michele, rimasto vedovo da alcuni mesi della amatissima moglie Aminta, morta nel 1980, da cui aveva avuto dieci figli (un undicesimo era morto infante), fu sensibilizzato da Giacinto Spagnoletti alla vicenda di Alda, che era da poco uscita dal manicomio, chiuso per effetto della legge Basaglia ed era completamente smarrita. Michele ritrovò una lettera del '52 in cui Giacinto, scopritore di Alda, parlava già della sua pazzia e della sua grande poesia e ne fu toccato. Cercò di esserle utile con le sue parole e la sua disponibilità e lei gli si attaccò morbosamente. Quando poi si sposeranno Michele, che era un grande medico ed era stato anche direttore sanitario dell'Ospedale di Taranto, la fece visitare da vari amici specialisti che riscontrarono come la bipolarità di Alda fosse effetto della sua smania di affermarsi come poetessa, frustrata già negli anni dell'adolescenza. In effetti, Alda che non risolverà mai i problemi mentali, troverà un certo equilibrio solo dopo il grande successo degli anni '90.

A.M.: Alda Merini e la città di Taranto. Perché la poetessa dei Navigli anelava la Città dei due mari?
Silvano Trevisani: Alda era delusa da Milano. Una volta dimessa dal manicomio, dopo circa quindici anni d'internamento, si ritrovò sola: il marito, Ettore, un panettiere, brava persona che però era molto lontana dai suoi interessi letterari, era malato terminale e lei non si sentiva in grado di assisterlo. Era stata dimenticata da tutti. Le case editrici non le dettero credito e nemmeno Maria Corti riusciva a venirne a capo e lei stampò delle plaquette autoprodotte senza esito. Michele rappresentava una via di fuga da Milano, perché le dedicava grande attenzione, la sosteneva economicamente negli anni della malattia di Ettore. Insomma: voleva cominciare da capo con un grande poeta che potesse accompagnarla e sostenerla. E così cominciò ad assillare Michele, nel vero senso della parola. Arrivò a iniziative sconcertanti, come scrivere al Papa. Insomma: capiva che il suo futuro era nella città dei “due” mari. E lei di mari non ne aveva mai visto neanche uno!

A.M.: L’editore Bonifacio Vincenzi è il firmatario della presentazione in “Alcune considerazioni su Silvano Trevisani” e scrive: “[…] egli spesso con la memoria scavalca il suo tempo e, nell’inevitabile latenza, attraversa l’oblio per ritornare ai momenti fondamentali dove la parola poetica non era ancora accesa e se ne stava nella dimensione indeterminata del futuro.” Ritiene che queste parole siano rappresentative?
Silvano Trevisani: Se un critico letterario può, talvolta, valutare la qualità formale e letteraria delle poesie, solo un poeta può entrare nei meandri e cercare i luoghi spirituali, emozionali, letterari, nei quali una poesia ha preso corpo. E Bonifacio Vincenzi è un poeta.

A.M.: Lino Angiuli, Vittorino Curci, Dino De Mitri, Daniele Giancane, Giuseppe Goffredo, Giacomo Leronni, Anna Santoliquido, Gerardo Trisolino hanno omaggiato Alda con una lettera od una poesia. Compare anche una sua lirica intitolata “Per una storia d’amore (Alda e Michele)”. È stata composta in occasione della pubblicazione oppure in precedenza?
Silvano Trevisani: La mia poesia l'avevo già scritta ma non pubblicata, poi per l'occasione l'ho ritoccata. Nella mia silloge “L'altra vita delle parole” ne avevo dedicata un'altra ad Alda.

A.M.: È in programma una presentazione del volume “Alda Merini tarantina”?
Silvano Trevisani: Sì, è in programma una presentazione a Taranto il 30 maggio prossimo, nel salone degli specchi del Municipio.

A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Silvano Trevisani: Poesia poesia/ sembra che non ci sia/ poi ti prende la mano/ e ti porta lontano” − Riccardo Cocciante

A.M.: Silvano la ringrazio per il tempo che mi ha voluto dedicare e la saluto con una citazione tratta dal volume “Alda Merini tarantina” scritta da Giuseppe Pierri nel paragrafo “Un profilo biografico di Michele Pierri”: Tutte le attese, le certezze, le paure che attraversano la mente del poeta atterrito dal dolore si riversano momento per momento nella sua poesia che diviene esigenza di conoscere Dio quale Egli è, di avere certezza dell’aldilà, anche immediata. La parola diviene violenta, esasperata, di provocazione, quasi torturante, per costringere Dio a manifestarsi, a dare un segno certo della sua esistenza, e non conta se si dovrà pagare il prezzo dell’inferno, perché l’inferno è già qualcosa, è certezza di Dio, “il suo ultimo scalino”.

Written by Alessia Mocci

Info
Sito Macabor Editore
http://www.macaboreditore.it/home/
Acquista “Alda Merini tarantina”
http://www.macaboreditore.it/home/index.php/libri/hikashop-menu-for-products-listing/product/76-alda-merini-tarantina

Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/05/14/intervista-di-alessia-mocci-a-silvano-trevisani-vi-presentiamo-alda-merini-tarantina/

Intervista di Alessia Mocci a Franco Rizzi: vi presentiamo il romanzo Anni difficili




Tutti noi corriamo il rischio di cadere in un baratro, piccolo o grande, mentre percorriamo la strada della nostra vita e tanti “furbetti” sono lì pronti per aiutarci. Dal prete che promette un felice “al di là”, magari migliore, se i tuoi beni li lasci in eredità a chi di dovere “al di qua”, per non parlare delle ciarlatane scuole di pensiero che ripropongono il ben noto “nosce te ipsum”.” – Franco Rizzi

Franco Rizzi è nato a Torino nel 1935, sin da bambino ha vissuto a Milano, città nella quale si è laureato in Ingegneria Elettrotecnica presso il Politecnico. Da giovane ha lavorato nella ditta creata da suo padre nel 1938 come progettista di impianti per il risparmio energetico. Ha dimostrato di aver capacità notevoli ed i “suoi figli di ferro” ‒ in questo modo egli stesso denomina gli apparecchi di sua progettazione ‒ sono installati in raffinerie di petrolio sparse in tutto il mondo, a bordo di molte navi ed in molte centrali termoelettriche. Lavoro che gli ha dato la possibilità di viaggiare e di conoscere paesi in modo approfondito grazie alla collaborazione con agenti locali che gli hanno mostrato l’altra faccia dell’Asia, dell’America, dell’Africa, quella non turistica.

Appassionato di letteratura e scrittura, di quel mondo artistico che instrada alla conoscenza dell’uomo e del mondo per decine di anni ha scritto migliaia di pagine di appunti che solo recentemente ha trasformato in romanzi. Storie vere, episodi vissuti in ogni parte del globo che diventano carta stampata.

Vengono così alla luce “1871 ‒ La Comune di Parigi”, “Luca Falerno ‒ Caccia nelle Murge”, “Mini ‒ Storia di un pittore”, “1945 ‒ Anno zero sul lago”, “… scrivimi!, Il delta del Nilo”, “Anni difficili” ed un neo progetto di una casa editrice con pubblicazione gratuita, La Paume Editrice.

In questa intervista puntiamo il focus sul romanzo “Anni difficili” che traccia l’Italia a cavallo tra gli anni ’70 ed ’80 divisa fra la dura lotta di classe e di ideali fra irriducibili della liberazione del 1945, seguaci del sessantotto e fazioni nostalgiche di estrema destra; la massoneria deviata che si stava formando e l’espansione sempre più energica della mafia siciliana.

A.M.: Ciao Franco è un piacere aver l’opportunità di dialogare nuovamente con te per presentare ai lettori la tua ultima pubblicazione: “Anni difficili”. In un’intervista del dicembre del 2017 avevi accennato velocemente l’argomento del libro senza dare, però, anticipazioni. La stesura è iniziata dopo il 2017 oppure negli anni avevi raccolto appunti che ultimamente hai amalgamato?
Franco Rizzi: La stesura del libro è molto antecedente al 2017. Inizia circa dieci anni dopo il periodo preso in esame dal libro e cioè i sette anni dal 1974 al 1981. Quel periodo è stato un momento molto intenso per la mia vita, è stato un periodo centrale cui sono seguiti, direi come una sorta di contrappasso, alcuni anni di disimpegno più o meno fino alla caduta del muro di Berlino. Anno dopo anno ho sempre tenuto una rubrica dei fatti che hanno interessato la mia vita e così con gli anni ‘90 ho iniziato a raccogliere dati e notizie e successivamente metterli insieme e correlarli ai personaggi, alcuni come ho scritto presi dalla realtà di quei giorni. Per tante ragioni, alcune ovvie, sono poi trascorsi molti anni prima che il libro vedesse la luce e fosse dato alle stampe.

A.M.: L’espressione “anni di piombo” è ripresa dal film omonimo della regista Margarethe von Trotta ed utilizzata per un periodo storico italiano che va circa dalla fine degli anni Sessanta agli inizi degli anni Ottanta. Ho dunque ragionato sul titolo da te scelto “Anni difficili” volendo accostare “piombo” a “difficili” e cercando nell’etimo di piombo, oltre al latino “plumbum” di derivazione greca (πέλιος – blu-nerastro), ho trovato dal sanscrito “bahu-mala” con traduzione: molto sporco. Così il piombo diviene un concetto oscuro, molto sporco e che richiede uno sforzo dell’intelletto per essere inteso. È sotto questo punto di vista che ho esaminato il tuo nuovo romanzo e l’epoca storica che hai voluto raccontare. Ritieni che le cause di quei ripetuti massacri siano stati compresi dagli italiani che li hanno vissuti oppure che si siano semplicemente annidate sempre più in profondità?
Franco Rizzi: Gli anni di piombo, il piombo scuro delle pallottole, è stato un brutto e oscuro periodo della nostra storia più recente. Molti di quelli che ne sono stati protagonisti oggi sono morti e altri ancora vivi preferiscono non parlarne più, fiduciosi forse di essere arrivati in un tempo migliore. A quel tempo spesso si sparava per uccidere, altre volte solo per ferire, ma intimidire gli avversari e farli uscire di scena, questo veniva detto gambizzare. Il tutto era simile, mutatis mutandis, a quanto era già avvenuto nei tristi anni dal 1919 al 1922 e descritto molto bene nel bel libro “M il figlio del secolo” di Antonio Scurati uscito di recente. Oggi possiamo forse concludere che in quel periodo abbiamo assistito a una resa dei conti per quella mancata guerra civile, che non aveva trovato sfogo con il 25 aprile 1945 per la presenza massiccia delle truppe alleate presenti in Italia. Ovviamente adesso la maggioranza degli italiani ritiene ormai chiuso quel capitolo e anch’io ho addolcito il titolo riducendo il pesante anni di piombo a quello di “Anni difficili”.

A.M.: Il mio anno di nascita è il 1982, non sono stata testimone degli anni di piombo e purtroppo con i programmi scolastici di storia non si arriva mai a studiare questa parte nefasta dell’Italia. I trentenni e quarantenni di oggi non conoscono le vicende che hanno portato alle stragi e quando qualcuno accenna nei programmi televisivi sembra quasi un argomento tabù, si citano gli attentati, si ricordano i morti ma non si parla mai del perché e del come si è arrivati a tutto quell’odio riversato per le strade.
Franco Rizzi: Naturalmente chi è nato dopo gli anni ‘80 non conosce i fatti e i misfatti di quel triste periodo. Il tutto era nato come rivendicazione sociale prima nel 1968 in Francia (il maggio parigino) e l’anno dopo in Italia, l’autunno caldo del 1969. Ovvio che “chi di dovere“ ci mettesse subito lo zampino con la bomba alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano. Poi l’odio è stato fomentato in un crescendo di attentati e contro attentati, di attacchi e di vendette, effettuati da militanti estremisti di destra e di sinistra. E qui torniamo alla mia risposta precedente. Gli anni di piombo sono stati anni di duro scontro tra nostalgici fascisti e nostalgici comunisti leninisti, ma approfittando di questo fatto anche mafia e servizi segreti hanno partecipato alla bagarre. Naturalmente una organizzazione solida, bene innervata nella politica come la mafia è sempre pronta ad approfittare delle circostanze e così è stato. In conseguenza dopo gli anni di piombo, rimase proprio la mafia a fare da contraltare allo stato con i ben noti attentati dinamitardi di via dei Gergofili e di via Palestro a Milano, sfociati poi nella trattativa stato-mafia con gli ultimi processi ancora in corso ai giorni nostri.

A.M.: Nel romanzo “Anni difficili” ci sono tre protagonisti principali: Aldo Devita, Gianni Trapani e Vicente Razini che, trasportati in analogia con il regno animale, si identificano bene con il lupo, l’agnello e la volpe.
Franco Rizzi: Dei tre personaggi principali del romanzo, Aldo Devita è sicuramente il lupo e l’ho preso dalla realtà. È stato uno di quegli uomini, “diabolici” che ho conosciuto. Era davvero un lupo malvagio, ma travestito da persona per bene e dotato di un grande fascino al quale era difficile sottrarsi. Gianni Trapani invece l’ho creato per farne l’io narrante delle losche trame di Aldo e di altri fattacci connessi alla mafia, alla droga e al Venezuela. Così possiamo definirlo un agnello, ma un agnello finto e scaltro, adatto per poterlo infilare nelle tane dei lupi. Vicente Razini è una simpatica volpe, anche lui è preso dalla realtà, il nome con cui compare nel romanzo è quasi uguale al suo nome vero, è deceduto da poco e le sue due figlie vivono tuttora in Venezuela. Chi l’ha fatto diventare ricchissimo sono io e il racconto del come questo sia potuto accadere, è assolutamente veritiero. Aveva un anno più di me, ma mi aveva sempre considerato il suo fratello maggiore, il suo mentore, e mi dispiace veramente che nell’ultima parte della sua vita fosse stato colpito da una sorta di demenza senile.

A.M.: Oltre alla politica, oltre agli scontri tra fazioni ideologiche diverse troviamo due forze importanti: la mafia siciliana e la massoneria deviata. “Deviata” perché non rappresenta più i valori delle antiche associazioni iniziatiche ma si occupa principalmente di traffico di denaro e sovversione dell’assetto socio-politico. Gianni Trapani, infatti, si trova all’interno di questi due mondi senza conoscere le regole del gioco, non è conscio di ciò che accade ma è portato avanti da due pulsioni: la curiosità e la disperazione. Che cosa consiglieresti ad una persona affetta da queste pulsioni?
Franco Rizzi: Massoneria deviata: ho dei dubbi che ne esista una diversa. Il rifarsi a una associazione corretta, non deviata, che si richiami ad antichi valori iniziatici è fittizio, nessuno li considera adatti per la vita attuale, tutti sentono invece il fascino dell’associazione segreta. Ogni uomo incontrando uno sconosciuto vorrebbe trovare invece un “fratello” che condivida le sue stesse idee, che si apra a lui senza i filtri e le distanze che dividono gli uomini. Di qui a fare “delle cose” insieme, ad avere interessi privati in atti pubblici il passo è breve. Anche Gianni Trapani cade in questa trappola e crede che la massoneria possa essere una salvezza in un periodo politico oscuro. La sua curiosità non viene soddisfatta e invece è usato senza scrupoli. Non viene minimamente aiutato e finisce in uno stato di povertà. E nel desiderio di uscirne cade nel baratro più profondo e diventa un omicida. Tutti noi corriamo il rischio di cadere in un baratro, piccolo o grande, mentre percorriamo la strada della nostra vita e tanti “furbetti” sono lì pronti per aiutarci. Dal prete che promette un felice “al di là”, magari migliore, se i tuoi beni li lasci in eredità a chi di dovere “al di qua”, per non parlare delle ciarlatane scuole di pensiero che ripropongono il ben noto “nosce te ipsum”. La semplice verità è che non abbiamo altra salvezza se non in noi stessi.

A.M.: Che cos’è il bene comune? L’uomo può costruire una società fondata sul bene? Oppure è l’illusione di molti creata ad hoc dai pochi?
Franco Rizzi: Il cosiddetto bene comune non esiste. Ovviamente è un miraggio, creato da pochi, per incanalare in una certa direzione gli sforzi che ognuno di noi fa per la propria esistenza. Il detto l’unione fa la forza, il fascio littorio sono esempi di questa illusione.

A.M.: Hai in programma delle presentazioni del libro?
Franco Rizzi: Per adesso non ho in programma alcuna presentazione di questo libro. Credo sia un libro un po’ difficile. Forse in futuro.

A.M.: Ricordo ai lettori che alcuni anni fa hai fondato la casa editrice La Paume. Quali sono state le pubblicazioni del 2018 e 2019?
Franco Rizzi: La casa editrice La Paume sta appena muovendo i primi passi e non ha ancora un catalogo strutturato. Spero di tornare su questo in una prossima intervista.

A.M.: Salutaci con una citazione…
Franco Rizzi: Non v’è sentiero alcuno difeso contro la forza del destino e l’inclemenza del fato.” − Pedro Calderon de la Barca

A.M.: Franco, ti ringrazio per queste sincere risposte che, per il lettore attento, portano profonde riflessioni sull'Italia di ieri e di oggi. Ti saluto con i versi di Pietro Metastasio: “Chi vede il pericolo,/ né cerca di salvarsi,/ ragion di lagnarsi/ del fato non ha”.

Written by Alessia Mocci

Info
Sito Franco Rizzi
http://www.francorizzi.it/
Facebook La Paume Editrice
https://www.facebook.com/LaPaumecasaeditrice/

Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/05/13/intervista-di-alessia-mocci-a-franco-rizzi-vi-presentiamo-il-romanzo-anni-difficili/


Intervista di Alessia Mocci a Giancorrado Barozzi: vi presentiamo Utopia Selvaggia


La riproposta di Utopia selvaggia non corrisponde dunque a una sorta di nostalgico revival della letteratura terzomondista, genere narrativo che fu in voga alla metà del secolo scorso, quanto piuttosto al bisogno, sempre più urgente, di riprogettare un nuovo modello di futuro che non rifiuti l’apporto fecondo delle culture indigene.” ‒ Giancorrado Barozzi

Storico di formazione, Giancorrado Barozzi dal 1986 al 2000 ha diretto l'attività scientifica dell'Istituto Mantovano di Storia Contemporanea. Per conto della Regione Lombardia e di altri Enti ha realizzato ricerche nei campi della storia sociale, delle tradizioni del lavoro e della narrativa orale.

È direttore della collana "Il Pasto Nudo, assaggi di antropologia" per la Negretto Editore con la quale ha pubblicato "Cartiera Burgo. Storie di operai, tecnici e imprenditori nella Mantova del Novecento" e nel 2013 “Altruismo e cooperazione in Pëtr A. Kropotkin”, saggio che presenta il Mutual Aid del filosofo e scienziato russo Kropotkin ed il Digest della scrittrice americana Miriam Allen deFord.

Giancorrado Barozzi è stato molto disponibile nel rispondere ad alcune domande per presentare la nuova pubblicazione “Utopia selvaggia ‒ Saudade dell’innocenza perduta. Una fiaba” romanzo del famoso sociologo, antropologo, scrittore, educatore ed uomo politico brasiliano Darcy Ribeiro (Montes Claros – Minas Gerais 26-10-1922/ Brasilia 17-2-1997), in libreria dal 1 maggio 2019 nella collana editoriale “Il Pasto Nudo” con la nuova traduzione ad opera di Katia Zornetta.

A.M.: Giancorrado, ci siamo incontrati una prima volta per cercar di esporre ai lettori le tematiche della pubblicazione “Altruismo e cooperazione in Pëtr A. Kropotkin” riuscendo a raccontare la storia del grande filosofo e scienziato russo, quasi totalmente sconosciuto in Italia, e che a causa “delle sue prese di posizione politiche libertarie fu tacciato, sia da destra che da sinistra, di essere un utopista”. Che cosa comporta per un intellettuale/filosofo l’“essere utopista”?
Giancorrado Barozzi: Esercitare il pensiero utopico comporta degli enormi vantaggi, qualora ci si limiti a restare solo nel campo delle idee, essi si accompagnano però, va anche detto, a degli inevitabili svantaggi se si provi a calare queste idee sul piano pratico. Uno dei principali vantaggi del pensiero utopico consiste nell’assoluta libertà di creare ipotesi di «mondi possibili», infinitamente migliori di questo, senza dover sottostare ai condizionamenti imposti dalla «realtà sociale» del proprio tempo. Tra gli svantaggi va invece messa in conto la scettica accoglienza della maggioranza dell’uditorio nei confronti delle idee professate dall’«utopista». Atteggiamento che, nel caso di non immediata desistenza da parte del portatore di pensiero utopico, viene ad assumere tratti persecutori. Nel passato ne fecero le spese quegli utopisti che, non rassegnandosi a serbare solo per sé le proprie idee, cercarono d’istituire un dialogo con la società circostante. Penso a Socrate, a Gesù Cristo e a Thomas More, il quale nel 1516 ebbe, tra l’altro, l’indubbio merito d’avere coniato il termine «utopia», anche se egli, prima di essere suppliziato, riuscì a sua volta a mandare sul rogo alcuni «eretici» che giudicò essere più «utopisti» di lui.
Viste le tragiche sorti toccate ai primi filosofi e profeti dell’utopia, i successivi sviluppi di questa forma di pensiero trovarono riparo in un porto più sicuro: quello della creazione letteraria. Penso, ad esempio, alle «utopie» ecologiche e femministe di un’autrice contemporanea dalla fervida fantasia, come Ursula Le Guin, figlia dell’antropologo Alfred Kroeber, morta di recente (ma il cui decesso è almeno potuto avvenire in tarda età e nel proprio letto), o anche al libro Utopia selvaggia di Darcy Ribeiro, romanzo-saggio scritto da un altro inguaribile «sognatore» il quale tuttavia fu costretto a subire, a causa delle proprie idee, un lungo periodo di esilio lontano dal suo paese, il Brasile.

A.M.: Dalla Russia al Brasile il passo è breve soprattutto se ci si muove nel terreno dell’οὐ-τόπος. E qui entriamo nel vivo della nostra intervista: perché è stato doveroso pubblicare una nuova traduzione del romanzo “Utopia selvaggia” dello scrittore ed antropologo Darcy Ribeiro?
Giancorrado Barozzi: Di questi tempi, segnati dalla globalizzazione e dall’universale dominio delle nuove tecnologie, ritengo utile, e addirittura necessario, tornare a parlare d’«utopia», nel senso che a questo termine attribuirono quanti, in passato, osarono sfidare a viso aperto il «senso comune» della loro epoca nel tentativo d’aprire la strada ad altri metodi, più solidali e compassionevoli, di convivenza sociale e di simbiosi tra l’uomo e l’ambiente naturale. Nel suo terzo romanzo, Ribeiro ha osato indagare appunto l’eventualità di questa specie d’«utopia», guardando alle culture amazzoniche in via d’estinzione, nell’intento di recuperare da loro tecniche materiali e valori spirituali da riproporre come viatico del grave malessere che affligge il mondo urbano e civilizzato. Utopia selvaggia, fu composto da Ribeiro agli inizi degli anni ’80 del Novecento, ma la quarantina d’anni trascorsi da allora non ha vanificato le ragioni di fondo del suo appello. Anziché avviarsi sulla via d’un operoso cambiamento di rotta, l’umanità dei paesi post-industriali sembra essersi infatti inoltrata ancor più lungo una china, già perfettamente intuita da Ribeiro, che conduce al collasso ecologico del pianeta e alla standardizzazione delle sue forme di vita e di cultura. La riproposta di Utopia selvaggia non corrisponde dunque a una sorta di nostalgico revival della letteratura terzomondista, genere narrativo che fu in voga alla metà del secolo scorso, quanto piuttosto al bisogno, sempre più urgente, di riprogettare un nuovo modello di futuro che non rifiuti l’apporto fecondo delle culture indigene. Per millenni quelle culture furono il valido presidio d’un equilibro ecologico tra l’uomo e l’ambiente, specie nelle aree di maggiore importanza vitale per la sopravvivenza della Madre Terra (come il bacino amazzonico e la foresta pluviale). Equilibrio che oggi viene invece compromesso da una dissennata politica portata avanti da quei governanti «populisti», alla Bolsonaro (per intenderci, qualora si pensi al Brasile), che stanno programmando l’esaurimento del polmone verde del nostro pianeta, senza curarsi in alcun modo di garantire alle future generazioni la salubrità dell’aria, nonché di proteggere la varietà di specie biologiche e di culture umane a tutt’oggi ancora presenti nel mondo «selvatico».
Sono queste le motivazioni di fondo, e le urgenze, che hanno spinto l’editore Negretto (da sempre sensibile a tali «ragioni») a riproporre ai nuovi lettori l’«utopico» appello già lanciato, tempo fa, dall’antropologo brasiliano con questo suo romanzo ambientato ai Tropici. I linguisti ci hanno inoltre insegnato che, al passaggio d’ogni generazione, le lingue vanno incontro a mutazioni profonde, perciò si è voluta dotare la nuova edizione del libro anche d’una nuova traduzione. Su mio consiglio, l’Editore l’ha affidata a una giovane traduttrice, Katia Zornetta, la quale, nei propri studi universitari compiuti a Venezia e in Brasile, ebbe modo di conoscere di persona la precedente traduttrice in lingua italiana di tutti i romanzi di Ribeiro, Daniela Ferioli, una persona umanamente e professionalmente straordinaria purtroppo venuta a mancare nel 2004.
La traduzione realizzata da Katia, pur dimostrandosi rispettosa delle soluzioni linguistiche già adottate da Ferioli e da lei messe a punto grazie al suo diretto confronto con l’autore del romanzo, del quale fu amica oltre che traduttrice, appare però ancor più innovativa sul piano linguistico. Katia ha infatti realizzato un inedito mix lessicale che mantiene inalterato, nel corpo stesso della traduzione, un gran numero di termini provenienti delle lingue e culture amazzoniche: nomi di piante e di animali tipici della foresta pluviale derivati dalle tassonomie etnobotaniche ed etnozoologiche delle popolazioni indigene, nomi di oggetti d’uso profano o rituale propri delle varie tribù stanziate lungo le rive del Rio delle Amazzoni visitate da Ribeiro negli anni del suo giovanile apprendistato «sul campo» come antropologo. La ricchezza culturale di questo «lessico selvaggio» riaffiora ora pressoché intatta in questa nuova traduzione del romanzo, rendendo piena giustizia al paziente recupero di centinaia di termini «etnici» operato da Darcy Ribeiro al fine di spargere nuove spezie tropicali sull’idioma brasil-portoghese. L’adozione anche in traduzione italiana d’un simile «meticciato» linguistico corrisponde a una nuova sensibilità linguistica, orientata a favore di un consapevole recupero delle lingue minoritarie prossime all’estinzione; sensibilità che, una trentina d’anni fa, al tempo cioè delle traduzioni dei romanzi di Ribeiro realizzate da Daniela Ferioli, non aveva ancora trovato qui in Italia un terreno fecondo.

A.M.: Nella prefazione descrivi il protagonista del romanzo “Un po’ Amleto e un po’ Socrate, Pitum/Orelhão, grazie a questa sua predisposizione al saper porre (e porsi) domande, si dimostra in fin dei conti assai meno sprovveduto di quanti intorno a lui vivono in modo animalesco, seguendo ciecamente antiche tradizioni (le icamiabas/amazzoni), o di chi appare dominato da una qualsiasi ideologia, sia essa del progresso (le suore missionarie) o dell’atavismo (lo sciamano Cunhãmbebe).” “Utopia selvaggia” è un romanzo antropologico?
Gancorrado Barozzi: Più che un «romanzo antropologico», sarei tentato (e non si tratta di un gioco di parole) di definire Utopia selvaggia un’«antropologia romanzesca». È stato proprio per questo motivo che ho voluto includere il libro di Ribeiro nella collana «Il Pasto Nudo» delle edizioni Negretto. Questa collana, che dirigo da una decina d’anni, si propone d’avvicinare infatti lettori nuovi e non specialisti alla conoscenza antropologica e alle scienze umane, facendo appello, come sta scritto nella quarta di copertina di ogni volume della collana, a «testi che parlino dell’uomo, dei suoi problemi, del suo ambiente e delle sue culture...». Tutto ciò mi pare sia stato compendiato alla perfezione in questo bizzarro frutto (autentica primizia) d’«antropologia romanzesca». Ribeiro ebbe all’Università di San Paolo del Brasile un’ottima formazione socio-antropologica; egli compì poi una serie di ricerche etno-antropologiche sul campo presso varie tribù del bacino amazzonico; nel corso della sua lunga e poliedrica carriera ebbe inoltre modo di pubblicare numerosi testi accademici d’argomento antropologico, ispirati alla corrente neo-evoluzionista dell’antropologia: un indirizzo disciplinare nato negli Stati Uniti a partire dagli anni Quaranta del Novecento, che traeva ispirazione dalle scoperte scientifiche compiute nel XIX secolo da Charles Darwin e dagli studi antropologici realizzati sempre nell’Ottocento da Leslie Henry Morgan. In Utopia selvaggia Ribeiro osa però oltrepassare i tradizionali confini della sua disciplina. Il suo è un anomalo romanzo, dotato di tutti i requisiti d’una fiction post-moderna: ha un protagonista «senza qualità» sballottato da eventi che non dipendono dalla sua volontà; è ambientato in un «mondo selvaggio» che vagamente ricorda l’isola in cui naufragò Robinson Crusoe; ha un cast d’assurdi personaggi degni d’una kermesse carnevalesca... Eppure, nonostante questa profusione d’ingredienti romanzeschi, Utopia selvaggia è pur sempre, e così va intesa, una delle sperimentazioni ante-litteram più ardite, e forse più riuscite, di quel genere di «scrittura antropologica» che trovò la propria definizione teorica nel corso di un seminario scientifico tenuto a Santa Fe nei primi anni ’80 del Novecento (è da sottolineare questa, non casuale, coincidenza cronologica).  In quel seminario un gruppo di giovani antropologi osò proclamare la necessità di passare dalla classica antropologia descrittiva a una nuova forma di «scrittura antropologica» ove l’autore (fattosi «nudo» al cospetto del «selvaggio» da lui stesso osservato) prendesse a dialogare alla pari con i nativi, sino al punto di rinunciare alla propria «autorità etnografica». Non è questa la sede per valutare con quali risultati queste intenzioni manifestate dai partecipanti al seminario di Santa Fe siano state tradotte in pratica. Per tornare a Ribeiro, mi viene tuttavia spontaneo pensare che molte pagine di Utopia selvaggia espressero al meglio, e con un grande savoir faire, la gran parte delle perorazioni di principio formulate dagli antropologi post-moderni partecipanti al seminario Writing Cultures tenutosi a Santa Fe. Perorazioni che invece, quei giovani antropologi yankee attivi nelle Università degli USA non riuscirono a sviluppare oltre lo stadio di abbozzo. Con la sua formidabile capacità di captare, anche a lunghe distanze, standosene sulle coste del Brasile, il vento che soffiava dall’altra parte del continente, Ribeiro ci ha invece lasciato, con Utopia selvaggia, un maturo esempio di scrittura antropologica sperimentale. Con la sapiente leggerezza della raggiunta maturità di uomo e d’autore (descritta in modo toccante in un capitolo del bel romanzo brasiliano di Fernanda Torres, Fine), Ribeiro ha insomma saputo compiere nel concreto quella «sovversione» dell’antropologia classica astrattamente solo ipotizzata dai suoi più giovani colleghi statunitensi.
Per evitare equivoci, devo qui precisare che l’«antropologia romanzesca» ha ben poco a che vedere col genere letterario del «romanzo antropologico». Queste due categorie non vanno assolutamente confuse. Nell’«antropologia romanzesca» a prevalere è sempre l’indagine antropologica, anche se mostra alcune analogie formali con l’opera letteraria. La discriminante di base tra questi due generi sta nel fatto che, mentre un testo d’«antropologia romanzesca» può essere composto unicamente da un autore che (come Ribeiro) abbia una solida formazione antropologica e la sappia dimostrare nel racconto (articolando, ad esempio, in forma dialogica il congegno del plot e/o ricorrendo a ben precise «tecniche escussive» per tratteggiare il carattere dei personaggi), nel caso del «romanzo antropologico», l’autore invece, anche se sta narrando dell’incontro tra un osservatore estraneo e un gruppo di nativi, fa semplicemente appello a una forma d’inventio letteraria, e non a un metodo d’indagine antropologico. Un ottimo esempio di «romanzo antropologico» è, ad esempio, il libro di Lily King, Euforia, dove si narrano le vicende del triangolo amoroso verificatosi, negli anni ’30 del Novecento, fra i protagonisti d’una serie incrociata di ricerche «sul campo» in Nuova Guinea, i quali adombrano, in modo volutamente scoperto, le personalità di Margaret Mead, Reo Fortune e Gregory Bateson. Pur ispirandosi ad autentici «mostri sacri» dell’antropologia, Lily King, esperta in creative writing, fa muovere e agire i protagonisti del suo romanzo come le pedine d’un comune intrigo sentimentale, appiattendo sullo sfondo (quale esotico fondale), sia il paesaggio «umano» ove si svolge la vicenda che le spinose questioni sollevate dalla ricerca etnografica le quali dovettero assillare, ancor più delle romanzesche «faccende di cuore», i tre reali ricercatori che l’autrice prese a modello. Ne è uscito un valido prodotto di consumo che non ha tuttavia nulla a che vedere con quegli autentici capolavori d’«antropologia romanzesca» che furono prodotti da autentici antropologi di professione, come Darcy Ribeiro o Claude Lévi-Strauss.

A.M.: Possiamo affermare senza alcuna ombra di dubbio che Darcy Ribeiro ha inaugurato un sistema di analisi della società sudamericana riuscendo nel difficile allontanamento dai condizionamenti europei e nordamericani?
Giancorrado Barozzi: Storicizzando, si può tranquillamente affermare che Darcy Ribeiro compì, specie durante gli anni del suo esilio (tra la seconda metà dei ’60 e la prima metà dei ’70 del Novecento), un importante tentativo di reinterpretare la storia sociale dell’intero continente sud-americano. Come egli stesso ammise, già allora quella sua generosa fatica mostrava tuttavia, e a distanza di circa mezzo secolo li dimostra ancor più, alcuni limiti, i quali consistono, in sostanza, nel volontario rifiuto da parte dell’autore di avvalersi di strumenti preparatori messi a punto da altri studiosi latino-americani per interpretare quella «società dell’insoddisfazione» che Ribeiro contrappose a quella dei popoli «soddisfatti» dell’Occidente. Una nota, collocata da Ribeiro a pie’ di pagina nell’introduzione del primo dei suoi tre ponderosi volumi su Le Americhe e la civilità, escludeva infatti, in modo tranchant, qualsiasi possibilità di trarre un effettivo giovamento dagli esiti di quelle che egli stesso definì: «le interpretazioni classiche dell’America Latina». A suo dire: «esse non giungono ad articolare una teoria del mutamento sociale», e una rapidissima, sintetica rassegna bastò a Ribeiro per liquidare in modo definitivo tutte quante queste «interpretazioni»:
«Partendo da una posizione fatalistica, alcune di esse attribuiscono l’arretratezza al clima o alla razza (Sarmiento 1915; Bunge 1903; Oliveira Viana 1952; Arguedas 1937) oppure a qualità negative del colonizzatore (Bomfim 1929; Ingenieros 1913; Ramos 1951). Altri discutono tali determinismi (Alberdi 1943; Cunha 1911; Freyre 1954; Buarque de Hollanda 1956; Estrada 1933; Paz 1950; Murena 1964), senza che tuttavia oppongano ad essi nessuna teoria conseguente» [Ribeiro, 1975, p. 6 nota 1].
Dopo avere omericamente bruciato alle proprie spalle tutte le «navi» da guerra uscite dai cantieri allestiti da altri autori latino-americani, Ribeiro si accinse a compiere (in solitudine) un compito gigantesco, superiore alle forze di un qualsiasi singolo studioso. Ragione per cui, nel corso di questa sua improba fatica egli non poté fare altro che chiamare in proprio soccorso una nuova «flotta». Fuor di metafora, dopo avere rifiutando di riconoscere i suoi legittimi «padri» latino-americani, Ribeiro andò in cerca di nuovi «padrini». Fortunatamente li trovò alzando i propri occhi verso il Nord-America. Tutti i libri che egli scrisse in quel periodo risentono infatti dell’influsso esercitato su di lui dalla scuola statunitense d’antropologia neo-evoluzionista. Se dunque, a parole, Ribeiro ebbe a criticare la «letteratura nominalmente scientifica sulla dinamica sociale, prodotta soprattutto dai paesi prosperi e caratterizzata dal loro scoraggiamento e conservatorismo», rivolgendo ad essa l’accusa di compiere «mistificazioni destinate a sostituire la saggistica corrispondente alla mentalità arcaica con un discorso sofisticato, ma ugualmente conformistico» (Ribeiro, 1975, p. 44); nei fatti, egli finì invece con l’adottare come linee guida dei propri studi sul Processo civilizzatore (1968) e su Le Americhe e la civiltà (1969-1973) metodi e concetti mediati dal classico schema evoluzionistico dello sviluppo delle società già elaborato, nel lontano 1877, dall’avvocato e antropologo statunitense Lewis Henry Morgan; schema sfumato, intorno alla metà del Novecento, in direzione «multilineare» da una compagine (minoritaria) di brillanti antropologi sociali formatisi, sempre negli Stati Uniti, in aperta polemica col «culturalismo relativistico» della scuola di Franz Boas. E avvenne così che Ribeiro, da fiero oppositore degli antropologi yankee, si ritrovò invece ad applicare la lezione ricavata da quel gruppo d’antropologi statunitensi che, come lui, pure avversarono le posizioni «antievoluzionistiche» di Franz Boas e dei suoi allievi (Ruth Benedict, Margaret Mead, Alfred Kroeber, ecc.). Va in ogni caso riconosciuto a Ribeiro il fatto che la sua adesione alle posizioni neo-evoluzioniste lo portò a sfuggire ai condizionamenti del main stream rappresentato in campo antropologico dalla scuola di «Cultura e Personalità» e dal «Relativismo Culturale», le cui teorie si erano diffuse dall’America Settentrionale a quasi tutto il mondo occidentale (con l’unica eccezione del «funzionalismo» allora regnante nell’antropologia britannica).
Nell’appoggiarsi alla corrente neo-evoluzionista, Ribeiro perse però, purtroppo, di vista le novità più significative che, proprio in quel periodo, stavano emergendo altrove nel campo degli studi antropologici. Mi riferisco, in particolare, alla concezione strutturalista dell’antropologica elaborata da Claude Lévi-Strauss, il quale era venuto anch’egli (prima di Ribeiro) a diretto contatto con le tribù amazzoniche, rimanendo contagiato dall’insospettata ricchezza dei loro valori simbolici, e in seguito prese a dedicarsi allo studio dei rapporti di parentela, del totemismo e dei miti indigeni. Nei confronti dello «strutturalismo antropologico» e del suo massimo esponente, Ribeiro mantenne a lungo un atteggiamento d’ostinato distacco, sconfinante in certo qual senso con l’incomprensione. Egli ritenne infatti che quella dello strutturalismo fosse soltanto una tra le tante mode «nominalmente scientifiche», alimentate dal ceto intellettuale dei «paesi prosperi», per mascherare il loro sostanziale «conservatorismo». Solo negli anni della raggiunta maturità, allorché, placati i giovanili furori della militanza politica e dell’intransigenza neo-evoluzionistica, una nuova forma di pacata saggezza venne a dargli conforto, Ribeiro si risolse a intraprendere un fecondo dialogo a distanza con l’opera di Lévi-Strauss e, in particolare, con quel capolavoro assoluto d’«antropologia romanzesca» che è Tristi Tropici. Solo negli anni ’80, deposti i bagagli dell’esule e le armi dialettiche del rivoluzionario terzomondista, l’autore brasiliano riuscirà dunque a creare, con Utopia selvaggia, la sua garbata, pirotecnica risposta ai Tristi Tropici di Lévi-Strauss. Questo terzo romanzo scritto da Ribeiro altro non è, a ben vedere, che il suo deferente omaggio a quel mondo amazzonico gioioso e disinibito, felicemente carico di primordiale, travolgente energia che l’antropologo e filosofo francese aveva invece mestamente smorzato di tono narrando, nel proprio memoriale autobiografico, dei contatti avuti con le genti e la natura di quello stesso ambiente tropicale, che egli (con gli occhi dell’esule europeo) vide invece appannato da un impalpabile velo di struggente malinconia. Questi due inarrivabili esempi d’«antropologia romanzesca» composti, ad alcuni decenni di distanza, da Claude Lévi-Strauss e da Darcy Ribeiro, andrebbero letti in parallelo, per poter cogliere, attraverso il loro serrato confronto, ogni aspetto della varia e sempre mutevole realtà amazzonica. 
                 
A.M.: In un’intervista rilasciata poco prima della sua morte a Luís Donisete Benzi Grupioni e Maria Denise Fajardo Grupioni, Ribeiro dichiara a proposito della necessaria tutela per gli indios “La tradizione liberale, in nome della libertà, ordinò che gli indiani fossero trattati alla pari, così si stabilì con gli indiani del Perù, del Messico, in modo tale da renderli liberi di vendere la terra che avevano, ma è capitato troppo spesso che qualcuno comprasse quella terra per un bottiglia di rum. Quindi qui [in Brasile] la legislazione è totalmente nuova, e conferisce all'Indio un'eguaglianza relativa, assicurandogli tutti i diritti che ha il cittadino ordinario, senza imporre oneri. Gli dà un diritto di cittadinanza, ma stabilisce una tutela che apparentemente sarebbe offensiva, perché paragona l'indiano ad un minore, ma questa eguaglianza relativa non è stata fatta per offenderli, al contrario, è stata pensata per preservare la sua terra.
Giancorrado Barozzi: La riposta data da Ribeiro ai suoi intervistatori ripropone il tema della posizione politica da assumere nei confronti della «libertà» e dei «diritti» delle popolazioni native del Brasile e anche di quelle di tutti quanti gli altri paesi che presentino analoghe complessità in campo sociale. Da politico riformatore e pragmatico quale egli fu, Ribeiro espresse qui un principio che, a prima vista, parrebbe stridere con un’astratta applicazione della libertà politica e con l’affermazione di una piena autonomia giuridica da accordare agli indigeni che ancora abitano e si procacciano da vivere nella foresta pluviale. Ribeiro formulò qui invece un ragionamento perfettamente logico e conseguente alla sua impostazione evoluzionistica in campo antropologico, tracciata, sin dal XIX secolo, dal suo più autentico «maestro»: Lewis Henry Morgan. In una pagina del trattato scritto da quest’autore, La società antica, opera molto apprezzata ai suoi tempi anche da Marx ed Enges, Morgan segnalò il fatto che «varie tribù e nazioni, presenti sullo stesso continente, e perfino appartenenti alla stessa famiglia linguistica, si trovino a vivere nello stesso momento in condizioni differenti» [Morgan, 19813, p. 9] e che a ciascuna di queste «condizioni» veniva a corrispondere «una sua peculiare cultura e (...) un modo di vita che più o meno specificatamente gli appartiene» [ibidem]. Proprio il rispetto di queste «differenti condizioni», già sancite da Morgan, consigliò a Ribeiro la proposta politica di graduare la concessione delle «libertà giuridiche» a quegli strati della popolazione del Brasile che ancora vivevano a uno stadio evolutivo che ignorava il senso e il valore del concetto giuridico di proprietà. Concedere agli indigeni la libertà incondizionata di stipulare contratti di compra-vendita sarebbe stato come, disse Ribeiro, attribuire questo stesso potere a un minorenne. L’«eguaglianza relativa», invocata dal «nostro» autore, non funge dunque in questi casi da stigma sociale, ma al contrario serve da garanzia e da reale tutela degli inalienabili diritti di una fascia di popolazione brasiliana, rimasta ferma, per dirla alla Morgan, a uno dei primi stadi di sviluppo sociale.
Certo, qualcuno potrà obiettare (e, ahimè, lo si sta facendo proprio ai nostri giorni in un Brasile che non è più quello utopico e «riformista» di Ribeiro, ma quello distopico e «populista» di Bolsonaro) che dai tempi di L. H. Morgan, e dei suoi estimatori Marx ed Engels, molta acqua è passata sotto i ponti. La modernizzazione esige che le tappe del progresso vengano accelerate il più possibile, senza curarsi di attendere che quanti sono rimasti indietro nella scala dello sviluppo sociale si decidano da sé a compiere un balzo avanti. A supporto di queste argomentazioni opera inoltre tutta una pletora d’accademici, finanziati da «qualcuno», che da decenni cercano di smontare, pezzo per pezzo, con scientifica acribia, ogni residuo tassello della complessa impalcatura «evoluzionistica» elaborata da Morgan e restaurata (a ogni colpo inferto dagli avversari) dagli antropologi neo-evoluzionisti.
La partita è ancora incerta, ma questa riproposta di Utopia selvaggia di Ribeiro non lascerà, credo, alcun dubbio ai suoi lettori da che parte stare.
                 
A.M.: Perché oggi, in Italia ed Europa, abbiamo bisogno di leggere opere come “Utopia selvaggia” e conoscere uomini come Darcy Ribeiro? Quanto siamo distanti dall’idea d’integrazione e di protezione delle culture minoritarie?
Giancorrado Barozzi: Penso di avere in parte già risposto alla tua domanda, vorrei però ribadire il concetto che, per sostenere la protezione delle culture indigene e minoritarie, preziose custodi dell’equilibrio ecologico mondiale, converrà guardarsi dalla smania della loro integrazione a tutti i costi. Dietro la parola «integrazione» talora possono occultarsi delle pessime intenzioni, quali ad esempio: rendere omogenee società altrimenti complesse; ridurre o eliminare del tutto ogni differenza in ambito culturale (acculturazione/deculturazione), economico (egualitarismo) o sociale (conformismo). Va da sé che non sono di certo questi i tipi d’«integrazione» da sostenere. Ogni volta che una comunità si propone d’integrare qualcun’altro, occorre pensare, molto seriamente, alle eventuali conseguenze (talvolta disastrose) che questo processo, se compiuto senza le opportune cautele, potrebbe innescare. Ciò non significa, ovviamente, essere fautori della «segregazione», ma non bisogna far sì che il verbo «integrare» diventi un sinonimo di «segregare». In Utopia selvaggia, Ribeiro ridicolizza un esempio d’integrazione fallimentare: la forzata alfabetizzazione degli indigeni adulti compiuta dalle monache missionarie nel seno di una tribù, in origine analfabeta, stanziata nella foresta pluviale. La sostituzione di una cultura orale con una nuova forma di trasmissione del sapere fondata invece in prevalenza sulla scrittura e la lettura ha storicamente comportato, anche nel «nostro» mondo occidentale, fondamentali mutamenti che hanno profondamente modificato gli assetti della vita sociale, recando con sé anche forme d’esclusione e promozioni di élites privilegiate in ambito culturale, religioso, sociale e/o politico. Così, quando in un capitolo di Utopia selvaggia l’autore sembra semplicemente compiacersi a descrivere la caotica confusione derivante dall’alfabetizzazione dei membri adulti di un villaggio amazzonico introdotta dalle monache, appare chiaro che egli, in realtà, sta mettendoci in guardia dal tentare incauti esperimenti socio-culturali di questo genere.

A.M.: Com’è andata questa pubblicazione con la casa editrice Negretto Editore? Hai incontrato difficoltà? La consiglieresti?
Giancorrado Barozzi: È ormai da parecchi anni che collaboro con questo Editore, che conosco di persona sin dai lontani tempi dei nostri comuni studi classici al Liceo «Virgilio» di Mantova, dove frequentavamo classi parallele. Si tratta di un «piccolo editore», ma ha dimostrato di avere coraggio da vendere: pensa che ha osato iniziare la sua avventura imprenditoriale esattamente nel periodo in cui la maggior parte dei piccoli editori, anche di dimensioni maggiori della sua impresa, stavano chiudendo i battenti a causa della crisi economica. «Remare contro corrente» mi pare sia il motto che si addice a questa casa editrice. Il segreto del successo di Negretto Editore (perché, per un’impresa culturale «pura», già il fatto di riuscire a sopravvivere di questi tempi è una dimostrazione di successo) sta nell’estrema oculatezza con la quale egli sta scegliendo le pubblicazioni da mettere in cantiere e da promuovere. Dà alle stampe solo pochi titoli all’anno, unicamente quelli in cui l’editore «crede» fino in fondo, ma questa sua parsimonia gli ha consentito, nell’attuale giungla editoriale, di rimanere presente sul mercato e di farsi apprezzare per la qualità delle sue proposte.
Quanto all’imminente pubblicazione del libro di Darcy Ribeiro, posso dire che l’Editore ha accolto con favore la mia proposta di pubblicare un autore brasiliano anche per il fatto che, da alcuni anni, egli sta intrattenendo personali contatti con quel paese e, in particolare, con alcuni protagonisti del vivace panorama culturale di Rio de Janeiro. Proprio in virtù di questi contatti, Negretto è riuscito a stipulare un importante accordo con la Fondazione Ribeiro, che ha sede a Rio, per il rilancio in Italia delle opere di questo autore (un autentico «classico» del Novecento, tutto da riscoprire).
L’Editore ha inoltre accettato anche la mia proposta d’affidare la nuova traduzione di Utopia selvaggia a una giovane promessa, Katia Zornetta, laureatasi presso un ateneo del Brasile discutendo proprio una tesi sui contatti tra Ribeiro e la cultura italiana. Anche con lei, la collaborazione, che si è rivelata piuttosto intensa, sebbene condotta sempre a distanza, ha dato esiti molto soddisfacenti sul piano linguistico e culturale. Per esperienza so che non è facile trovare in Italia un traduttore che abbia la pazienza e l’umiltà di approfondire le ragioni delle scelte espressive adottate da un autore straniero per restituirle, con lo stesso grado d’intensità, nella nostra lingua. Katia, pure essendo con questo lavoro alla sua prima prova professionale, è riuscita tuttavia alla perfezione nell’intento, osando anche proporre proprie soluzioni traduttologiche fortemente innovative ed orientate a una sorta di «meticciato» linguistico. Opzioni al passo coi tempi, ma che in passato (ai tempi della prima edizione Einaudi di questa stessa opera) sarebbero state impensabili. Ora la parola passerà, com’è giusto che sia, ai lettori, i quali spero vogliano premiare l’impegno messo da tutta quanta la squadra attivata da Negretto Editore per la realizzazione di questa importante proposta culturale.

A.M.: Abbiamo iniziato con l’utopia russa, proseguito con quella brasiliana e di sicuro possiamo chiudere con quella italiana. Fabrizio De André e “La domenica delle salme”. Il nostro amato cantautore genovese ha citato Oswald de Andrade nella sua celebre canzone (“illustre cugino de Andrade”) e nel 1990 dichiara: “Tra i molti poeti sudamericani che conosco, Oswald de Andrade è uno dei miei preferiti, probabilmente per quel suo atteggiamento comportamentale oltre che poetico totalmente libertario, per quel suo anticonformismo formale che lo fa essere qualcosa di più e di meno e comunque di diverso da un poeta in senso classico. E poi è dotato di un umorismo caustico difficilmente riscontrabile in altri poeti dei primi del Novecento.” Sei a conoscenza di un possibile rapporto tra De André e Darcy Ribeiro?
Giancorrado Barozzi: Quanto ai rapporti tra Ribeiro e De André, non saprei dirti, non sapendo se vi siano state delle prove di avvenuti contatti tra i due. Certo, a livello dei contenuti, considerata anche la sottile ironia che aleggia sia nei romanzi di Ribeiro che nei testi delle ballate di De André, appare agevole individuare un filo rosso che leghi entrambi questi autori. Quel filo, io penso, è rappresentato soprattutto dal «culto» del Brasile, dall’amore che essi ebbero in comune per la cultura popolare e per la musica di quella nazione «meticcia».
La citazione dei versi qui da te proposti proviene dalla canzone La domenica delle salme: un testo «sapienziale» composto da De André poco dopo la caduta del Muro di Berlino e, credo, per la sua forza antagonistica mai trasmesso dalla nostra tivù. Un testo che va, come lui stesso ha detto, «in direzione ostinata e contraria». Mentre tutti quanti allora si affannavano a esaltare quell’evento come una provvidenziale «fine della storia», lui intuì invece che, da allora in poi, nel futuro d’Europa, col definitivo trionfo del «capitale», sarebbero rinati, uno ad uno, tutti quegli spettri che con la fine della seconda guerra mondiale ci si era illusi d’avere esorcizzato per sempre: il nazismo, l’antisemitismo, il militarismo, i nazionalismi d’ogni sorta, quella forma d’egoismo statalista che oggi ha preso il nome di «sovranismo», il conformismo dominante in campo culturale e la spietata repressione da parte del potere nei confronti di tutte le minoranze e i «bastian contrari» d’ogni specie.
Per queste ragioni De André disse di sentirsi «cugino» del poeta brasiliano d’avanguardia Oswald de Andrade, il quale aveva redatto negli anni Venti del Novecento un provocatorio Manifesto antropofago: dichiarazione poetica d’intenti che esaltava la forza nativa della «cultura cannibale» degli indios, contrapponendola al disagio della civiltà occidentale, urbana e massificata.
Mi sembra significativo far notare che, pochi anni prima della composizione di questa canzone di De André, sull’altra sponda dell’Atlantico, Darcy Ribeiro espresse, con Utopia selvaggia, la medesima necessità di rilanciare il messaggio di de Andrade, individuando, sia pure con tutte le cautele del caso, nella cultura primigenia dei nativi amazzonici un autentico modello da imitare per riuscire a salvare la «natura» e rigenerare in modo radicale, la decadente vita sociale e politica del mondo cosiddetto «civilizzato».     

A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Giancorrado Barozzi: Ti ringrazio per questa intervista e ti lascio, come mi hai chiesto, con una breve citazione: l’ho tratta da un testo del XIX secolo molto amato da Ribeiro, La Società antica, dell’antropologo evoluzionista Lewis Henri Morgan:
«Noi siamo debitori della nostra presente condizione, i cui mezzi di sicurezza e di felicità si sono moltiplicati, alle lotte, alle sofferenze, agli sforzi eroici ed al paziente lavoro dei nostri antenati barbari, e prima ancora, selvaggi».

A.M.: Giancorrado ti ringrazio per il tempo che hai dedicato per esplicare maggiormente la tua opinione su Darcy Ribeiro e su “Utopia selvaggia”. Ti saluto, per agganciarmi al concetto – oltre lo spazio ed il tempo − di felicità con le parole di John Lennon: “Quando avevo cinque anni, mia madre mi ripeteva sempre che la felicità è la chiave della vita. Quando andai a scuola mi domandarono come volessi essere da grande. Io scrissi: felice. Mi dissero che non avevo capito il compito, e io dissi loro che non avevano capito la vita.”


Written by Alessia Mocci
Responsabile dell’Ufficio Stampa di Negretto Editore

Info
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Sito Fundação Darcy Ribeiro
https://www.fundar.org.br/
Intervista Darcy Ribeiro
http://www.scielo.br/scielo.php?pid=S0104-71831997000300158&script=sci_arttext

Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/04/23/intervista-di-alessia-mocci-a-giancorrado-barozzi-vi-presentiamo-utopia-selvaggia/

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