Registrati subito:
Potrai inserire nella directory tutti i siti che vorrai!
L'inserimento è: gratuito, semplice ed immediato
Garanzia di qualità: non riceverai mai SPAM e potrai cancellarti in qualsiasi momento con 1 semplice click!
*** ATTENZIONE: abbiamo qualche problema con blogger, quindi sino a quando non saranno risolti il servizio non sarà garantito per i nuovi iscritti *** Per questo riceverai in alternativa l'invito a Directory Italia 2
Parcheggio all'aeroporto di Catania
Fast Parking: Parcheggio Coperto Video Sorvegliato con telecamere a circuito chiuso, Navetta h24, servizio di Car Valet.
Info su: https://www.fastparkingcatania.com/
Opportunity Commerce Elettrodomestici e arredamento
Consegne veloci in tutta Italia, offerte sempre aggiornate per arredare la tua casa scegliendo la convenienza.
Info su: https://www.opportunitycommerce.com/
Noleggio Auto Roma - Napoli - Firenze
Frank Autonoleggio possiede una vasta gamma di automobili e veicoli per qualsiasi occasione. La nostra attività possiede auto di ogni categoria, costantemente controllate e verificate, auto efficienti e dalle prestazioni elevate, diversi modelli da cui potrete scegliere: dall’auto di lusso all’auto classica, dalla Limousine all’auto sportiva.
Noleggia ora SENZA CARTA DI CREDITO su : https://www.autonoleggiofranksrl.it/it/
Noleggio auto a Catania
MIGLIOR PREZZO PER AUTONOLEGGIO A CATANIA, TRAPANI, PALERMO E MILANO MALPENSA
AutonoleggioOne: https://www.autonoleggioone.it/
Intervista di Alessia Mocci a Claudio Alvigini: vi presentiamo il saggio L’inconcepibile esercizio
“L’attaccamento alla legge del padre Platone o del padre
Aristotele o del padre Tolomeo degli intellettuali di allora divenne sempre più
forte. Essi, infatti, temevano che, perdendo ciò in cui loro, la chiesa e
tutti, credevano, avrebbero perso il loro potere e quindi… anche la loro
privilegiata posizione di assistiti e beneficiati dal signore di turno. Forse
un pensiero sul perché ci sia voluto tanto tempo per scardinare il mondo di
Tolomeo, può condurci a qualche considerazione su Colombo e sulla scoperta
delle Americhe.” – Claudio Alvigini
Nel mese di luglio 2019 la casa editrice Macabor Editore
ha pubblicato, per la collana Noisette, il saggio “L’inconcepibile
esercizio” di Claudio Alvigini.
L’autore è nato in Svizzera ma ha vissuto a Palermo,
Pozzuoli e Roma. Giovanissimo ha iniziato la sua carriera aeronautica come
pilota civile dell’Alitalia e per svariati anni è stato comandante di Boeing
747.
L’adolescenza in Sicilia ha fortemente segnato le
prime prove letterarie di Claudio e si può constatare l’ininterrotta attività
che ha visto i primi frutti nel 1997 proprio con il saggio “L’inconcepibile
esercizio” edito nella rivista di psicoterapia e psichiatria “Il sogno della
farfalla”.
Successiva di un anno, nel 1998, è uscita la sua prima
silloge poetica “Visita in città” con Nuove Edizioni Romane, nel 2002 per
Edizioni La camera verde è uscita “La casa sol terrazzo”, nel 2005 “Ulàn
Batòr” per Edizioni Helicon, nel 2007 “Trafficante di colori” per
Edizioni LietoColle, nel 2012 “Il principio di non contraddizione” per
Manni Editore, e nel 2018 con Macabor Editore il romanzo “Il Capitano di
Bastur”.
A.M.: Salve Claudio, sono lieta di questo nuovo
incontro. Nel 2018, in una nostra intervista, hai parlato di un possibile
ritorno alla poesia ed invece ti ritrovo con una pubblicazione di un saggio
filosofico. “L’inconcepibile esercizio” è stato, infatti, pubblicato per la
prima volta nel 1997, perché hai deciso di riprendere in mano il lavoro?
Claudio Alvigini: Cara Alessia, intanto permettimi di
ricambiare, anch’io sono lieto di questo nuovo incontro, il ricordo delle tue
belle domande su “Il capitano di Bastur” edito da Macabor, è ancora vivissimo.
Mi chiedi perché ho deciso di riprendere in mano un lavoro di più di 20 anni
fa. Era uscito, infatti, nel 1997, nobilitato dall’accoglienza nelle belle
pagine della raffinata rivista di psicoterapia e psichiatria “Il sogno della
farfalla” che si avvaleva allora come oggi dell’elaborazione teorica di Massimo
Fagioli. Mi chiedi come venne quel titolo che, anche a distanza di anni,
continua a piacermi assai. Fu un giorno lontano, un decollo assai mattutino da
Addis Abeba; ricordo uno strato compatto e uniforme di nubi che si stendeva a
perdita d’occhio. Una smisurata coperta immobile e sospesa a poche decine di
metri da terra, pronta a posarvisi da un momento all’altro, non so se per
difenderla così dal freddo del mattino o per… soffocarla. C’era quel tanto di
visibilità orizzontale che consentiva il decollo. Iniziammo così la nostra
corsa sulla pista, con, sulla testa quel tappeto volante e senza fine di nubi
che schiacciava la terra… a terra. Ed ecco, un attimo dopo la rotazione, giusto
quel mezzo secondo necessario ad attraversare in accelerazione quello strato e
ci trovammo proiettati, sbucammo, irrompemmo in un delirio di luce e di sole. E
il nostro giorno (il nostro destino?) cambiò. Sulla terra sotto di noi e su
coloro che su di essa si aggiravano, rimase quella buia incombente coperta, la
loro giornata non cambiò, non so del loro destino… Pensai all’assurdità
dell’esercizio del volo e forse fu proprio allora che il termine
“inconcepibile” cominciò a farsi strada in me. All’Inconcepibile esercizio ero
e sono legatissimo; con esso, infatti, tentai di penetrare il centro nascosto,
il cuore segreto di quello che per anni e anni è stato il mio mestiere e che,
pensavo, “sentivo” non essere stato ancora sufficientemente e correttamente
“indagato”. Tieni presente poi che “L’inconcepibile” è stato anche il mio primo
lavoro pubblicato. Dunque amore grande. L’idea di scrivere sul volo l’avevo in
mente da tempo; la spinta definitiva mi venne da un fortuito colloquio con
Massimo Fagioli. Si parlò del volo mi chiese qualcosa. Poi buttò lì una di
quelle sue apparentemente semplici quanto geniali e definitive frasi… “Vedi”,
mi disse, “il problema del volo è che è disumano…” Testuale. Rimasi allo
stesso tempo fulminato e illuminato. Mi aveva suggerito la strada, avevo finalmente
in mano il bandolo della matassa.
Come dicevo, a mo’ di bella addormentata nel bosco,
l’Inconcepibile dormiva un sonno profondo e apparentemente definitivo; nessun
principe nei dintorni che potesse risvegliarlo. Accadde che, in occasione della
prima presentazione in Calabria de “Il Capitano di Bastur”, m’incontrai con
Bonifacio Vincenzi e gli consegnai una copia dei miei lavori precedenti,
poesie, racconti e questo lavoro su cui mi intervisti. Gli editori, si sa, sono
molto occupati e Bonifacio non fa eccezione alla regola, anzi! Poi un giorno,
per chissà quale fortunata combinazione astrale, ha avuto il tempo e la
curiosità di leggere il lavoro in questione (anche se, te lo posso confessare,
aspetto ancora che legga il resto…). Come lui stesso mi ha confessato, ne restò
molto colpito e mi disse subito che lo avrebbe pubblicato con entusiasmo nella
preziosa collana di saggi “Noisette” della Macabor. Dunque, cara Alessia io non
ho deciso nulla, ho solo risposto all’entusiasmo di Bonifacio. E, permettimi di
dirlo, è stato il modo migliore di rimettere mano a quel lavoro, il modo più
auspicabile, rispondere all’interesse sincero di qualcuno, all’entusiasmo…
giovanile di Bonifacio. (Dovendo lui, nello specifico del mio esempio,
rappresentare il principe che sveglia la bella addormentata dal suo invincibile
sonno, il termine “giovanile” mi sembra più che mai adatto… Lui mi perdonerà −
spero −). Sapevo che quel vecchio lavoro aveva una sua originalità, sapevo
quanto mi era costato e che anche in esso, come ne “Il Capitano di Bastur”
c’era una spremuta di vita ma, sinceramente, pensavo che nulla avrebbe potuto
interromper il suo sonno. Puoi dunque immaginare con che gioia abbia accettato
la proposta di Bonifacio; una conferma del mio rapporto con lui, un rapporto
che, fino ad ora e facendo i debiti scongiuri, confermo essere quello ideale
che ciascun autore sogna di avere con il proprio editore. Ho naturalmente
apportato diversi cambiamenti al testo, non tanto nella sua sostanza, che
rimane la stessa, quanto nella forma utilizzata: le note, che erano tantissime
e avevano la stessa dignità del testo e che, nella versione originale e grazie
alle dimensioni della rivista stavano a fondo pagina, sono entrate a far parte,
con piccoli accorgimenti, del testo. E qui, un grazie di cuore va all’amico
Pietro de Simoni per avermelo suggerito. Come un grazie sincero va all’amico
Carmelo D’Angelo per le infinite riletture cui lo ho sottoposto. È stata
un’emozione anche per me rileggerlo, ricordare le fatiche e le ricerche, le
varie biblioteche visitate e i miei stati d’animo di allora, in primis la
grande emozione che la scoperta della straordinaria storia del sarto di Ulm mi
procurò e che divenne lo snodo centrale di tutta la narrazione. La storia del
sarto impone all’Inconcepibile una decisa accelerazione, uno slancio
immaginifico e bello come immaginifico e bello fu il sogno di Albrecth Ludwig
Berblinger (questo era il nome del sarto), la sua “follia”: il volo umano!
A.M.: La dedica del saggio recita: “Vi sono stati
in tutti i tempi dei grandi ingegni/ che hanno avuto questa pazzia in capo”.
Di chi è la citazione?
Claudio Alvigini: La citazione è di Carlo Moretti, abate
e bibliotecario all’Ambrosiana di Milano cui era affidato il delicato incarico
di custodire e preservare i libri Sul volo di Leonardo da Vinci. Quelle sue
parole mi sembrarono il modo migliore di iniziare il lavoro. Siamo negli anni ‘80
del 1700. È stata una delle tante felici scoperte dei due e più anni di lavoro
per preparare L’inconcepibile e che mi hanno visto peregrinare tra le
biblioteche di mezza Italia e anche all’estero. Profittavo degli scali dei miei
voli e, se avevo un giorno libero o anche mezza giornata, spendevo quel tempo
nelle locali biblioteche cercando materiali per l’Inconcepibile. All’Ambrosiana
di Milano, fondata dal Borromeo nel 1607 e che è stata la prima biblioteca
pubblica italiana, ho fatto questa scoperta (sono passati molti anni e spero di
non sbagliarmi e di ricordare bene), è lì che si trova anche il Codice
Atlantico di Leonardo, meraviglia difficilissima da consultare e da me
utilizzata nell’Inconcepibile. Molte ricerche le ho fatte (e molte cose le ho
trovate) nella biblioteca nazionale di Roma, ma stranamente un libretto
Feltrinelli del 1991, Leonardo l’uomo e la natura, a cura di M. De Micheli, si
è rivelato preziosissimo, direi fondamentale.
Libretto che − intuizione non cosciente? − mi regalò allora mia figlia
Elda, del tutto ignara di ciò cui stavo lavorando.
A.M.: Come ben scrivi nel saggio, i tentativi umani
di volare sono documentati dal Medioevo ma scorrendo nella mitologia greca si
deve forzatamente passare da Dedalo e da suo figlio Icaro. Perché l’uomo, ribellandosi
al peso del corpo, guarda in alto e si ingegna per alzarsi in volo?
Claudio Alvigini: Forse perché l’uomo, come dice Fagioli,
appartiene a “… una specie animale che ha per sorte una fantasia, ha per
sorte un’intuizione e una conoscenza della propria soggettività precaria, della
propria corsa verso la morte…” Perché c’è sempre un oltre, Alessia, c’è
sempre un nuovo viaggio, nuovi rapporti, nuove conoscenze; si può sempre fare
di più e fare meglio, correggere gli errori di navigazione della vita e dirigersi
verso terre, o cieli, che mai avremmo creduto di poter raggiungere. Il volo è
libertà totale e forse eccessiva, esercizio… inconcepibile e misterioso, atto
empio, acquisizione superba di una dimensione che non attiene all’uomo, alla
sua antropologia, furto agli dei. È “disumano”, appunto. Ed è stato solo l’uomo
a ribellarsi al peso del corpo, non gli animali (sì, sì, è vero, gli uccelli
volano ma è la loro condizione naturale…). Perché, se è vero che l’uomo ha
mille limiti − a partire dal peso del corpo per arrivare alla finitezza della
vita − la sua curiosità, la sua ansia di sapere, la sua fantasia non ne hanno.
Naturalmente qui ci riferiamo a quei pochi che, con il loro coraggio, hanno di
volta in volta rifiutato il sapere attuale, hanno infranto le regole,
rivoluzionato il pensiero, Copernico, Giordano Bruno, Leonardo, Einstein cioè,
Fagioli in epoca più recente. Certo, come quest’ultimo dice, schierarsi contro
la cultura dominante, rifiutare i maestri del pensiero… richiede indubbiamente
coraggio…
A.M.: Impeccabile il passaggio da Claudio Tolomeo a
Niccolò Copernico passando per il “De Rerum Natura” di Lucrezio: “L’animo
infatti richiede di conoscere a pieno, essendo infinito lo spazio oltre i muri
del mondo, cosa esista lassù, dove intenda scrutare la mente, dove il libero
balzo dell’animo voli spontaneo”. Perché per più di tredici secoli non si è
riusciti a riesumare le teorie del filosofo Aristarco di Samo?
Claudio Alvigini: La domanda è molto interessante, c’è
proprio da chiedersi perché è passato così tanto tempo e, contemporaneamente,
come fu che Aristarco, che tu opportunamente citi, in un tempo così remoto
seppe spingersi così lontano, essere così moderno. Forse mi sbaglio, forse, per
quel che riguarda il pensiero dell’uomo, attribuisco troppa influenza
(negativa) alla religione, ma un pensierino su politeismo e monoteismo lo
farei. Aristarco fiorisce nel terzo secolo a. C. C’erano gli dei burloni e
vendicativi, Eolo cacciava fuori i venti dai suoi otri, Giove scagliava saette
e seduceva giovani donne, Giunone ce l’aveva a morte con Enea e aiutava Ulisse.
Ma, nell’ingenuità della rappresentazione antropomorfa, tutti quei dei
lasciavano l’uomo un po’ più libero, ognuno adorava quello che voleva o gli era
più simpatico; nella Roma imperiale convivevano culti diversissimi, orientali,
dell’Egitto, portati da terre lontane dai soldati che tornavano. Una grande
tolleranza tra questa miriade di rappresentazioni e, credo, un’aria più
leggera. Tanto leggera che permise ai presocratici, con l’acqua, il fuoco,
l’aria, la terra di cercare oltre quegli stessi dei… Poi ci fu Costantino (mi
si perdoni la brutale sintesi), la religione cristiana fu prima accettata poi
nel 380, con Teodosio, divenne religione di stato. Nacque il dio unico, il
monoteismo. E qui non c’è lo spazio per discuterne, ma un dio unico, al di là
della benevola − almeno a parole − comprensione e pacifica convivenza, porta
con sé l’idea, tanto nascosta quanto profonda, che solo esso, essendo l’unico,
è quello giusto e vero; gli altri no. Con tutte le tragiche conseguenze cui
nella Storia e, purtroppo, anche nella nostra epoca assistiamo… Poi, certo,
mettiamoci anche il buio della caduta dell’Impero, le invasioni dei “Barbari”,
i saccheggi e le distruzioni e poi l’anno mille, l’attesa della fine del mondo.
Le eclissi che sconvolgevano e generavano angosce profonde, le malattie, la
peste e la sifilide… L’attaccamento alla legge del padre Platone o del padre
Aristotele o del padre Tolomeo degli intellettuali di allora divenne sempre più
forte. Essi, infatti, temevano che, perdendo ciò in cui loro, la chiesa e
tutti, credevano, avrebbero perso il loro potere e quindi… anche la loro
privilegiata posizione di assistiti e beneficiati dal signore di turno. Forse
un pensiero sul perché ci sia voluto tanto tempo per scardinare il mondo di
Tolomeo, può condurci a qualche considerazione su Colombo e sulla scoperta
delle Americhe. Fagioli osservava che una dilatazione così clamorosa e
lacerante dello spazio fisico, dello spazio esterno, costrinse l’uomo a
dilatare il proprio spazio interiore, ad avere un animo più ampio che potesse
contenere la nuova immagine del mondo che le scoperte della navigazione
marittima imponevano. I tempi grossomodo coincidono, Leonardo fa i suoi studi sul
volo intorno al 1505, Copernico elabora le sue teorie nei primi del 500 e
comincia ad esporle nel 1515, l’America era stata scoperta, l’immagine del
mondo aveva già, come dire, rotto gli argini…
A.M.: “La luna densa e grave, come sta la luna?”
Claudio Alvigini: La luna pesante e compatta come fa a
reggersi? Come mai, assieme agli astri e alle stelle non precipita sul capo
dell’uomo annientando ogni cosa? È la bellissima domanda che si poneva Leonardo
ed è, secondo una geniale interpretazione di cui nell’Inconcepibile dò conto,
il riecheggiamento, nella maturità, delle immagini del bambino Leonardo
sdraiato sulla culla in quelle calme, dense e limpide notti d’estate, col viso
rivolto al cielo, ad osservare... (Leonardo passò in campagna il primo lustro di
vita). Poi c’è il fascino e lo sgomento che la luna, piazzata lassù,
apparentemente a portata di mano, bianca e fredda ha sempre esercitato ed
esercita sull’uomo, c’è Leopardi e… c’è Armstrong, il comandante Armstrong che,
primo uomo nella Storia, calca il suolo lunare.
A.M.: Il 20 luglio 1969 è la fatidica data
dell’allunaggio ad opera di Neil Armstrong. Ma già dal 1976 si è iniziato a
parlare di un finto atterraggio sulla Luna da parte degli americani. Il primo
che ne parlò fu Bill Kaysing nell’opuscolo autopubblicato “We Never Went to the
Moon”. Perché, secondo te, la teoria del complotto ha avuto così tanto successo
sino ad arrivare ai nostri giorni?
Claudio Alvigini: Ed eccoci al 20 luglio del 1969, l’uomo
mette piede sulla luna. Domando che sembra spezzata in due questa, dalla data
fatidica si passa subito alla contestazione dell’evento, al finto allunaggio,
al complotto. Non credo che la teoria del complotto abbia avuto poi tanto
successo in questo caso, non credo cioè che sia così diffusa; alcuni la
sostengono, ne parlano, ci fu anche un film mi pare. Io ho letto molto sul
programma di conquista dello spazio, sull’addestramento degli astronauti, sulla
conquista della luna, sul “dopo” delle loro imprese. Conosco molti aneddoti. Potrebbe
essere interessante, dopo aver parlato del sarto di Ulm, parlare del… barbiere
di Armstrong. Il comandante si accorse che quando gli tagliava i capelli, il
suo barbiere li raccoglieva da una parte con una cura eccessiva che lo
insospettì. Scoprì poi che li metteva in certi vasetti che vendeva a qualche
centinaio di dollari l’uno; erano pur sempre i capelli del primo uomo che era
stato sulla luna!... Dovette cambiare barbiere. La moglie racconta che dopo
l’allunaggio si sia chiuso in un silenzio lungo tre anni… Un suo sospiro,
diceva, era una parola e un suo cenno o una delle rarissime parole che comunque
pronunciava, un intero discorso. A proposito, quanti sanno che Armstrong è
morto qualche anno fa per una banale operazione di bypass mal condotta? Il
primo uomo ad essere stato sulla luna muore per un caso di mala-sanità e
nessuno, o pochissimi, ne sanno qualcosa…
Domandi perché si creda al complotto. Non so rispondere
con esattezza, ma un’idea ce l’ho e nell’Inconcepibile, tra le righe, è
contenuta. Qui potrei accennare brevemente ad un’impresa “eccessiva” per i
tempi in cui avvenne, “inconcepibile”, per restare in tema. Dalla quale ci si
difende cercando di farla sparire (anche qui la teoria fagioliana mi è di
fondamentale aiuto). E quale maniera migliore per ottenere questo scopo di
quella rappresentata dal complotto? Quell’impresa era eccessiva? Bene, diciamo
allora che fu solo mimata e mai realmente avvenuta, parliamo, scriviamo di un
complotto, facciamola sparire. Poi, sai, alcuni credono alle scie cosmiche o
come diavolo si chiamano, altri agli extraterrestri che sono già tra noi o che
li hanno anche rapiti e con i quali hanno fatto persino dei figli. Infine ci
sono quelli che credono che la terra sia piatta, i terrapiattisti, ultimamente
alla ribalta. Perché meravigliarsi allora se qualcuno dice che sulla luna non
ci siamo mai andati? Io faccio parte di coloro che non credono al complotto, ma
una piccola considerazione sul complotto può essere comunque fatta. Da una
parte un atteggiamento critico serve, la cosiddetta controinformazione
necessaria ed essenziale per non farsi abbindolare da false notizie – argomento
questo, grazie ai social e a internet, più attuale che mai – dall’altro la
tendenza a vedere complotti d’ogni parte, potrebbe nascondere, sotto
insospettabili spoglie, una voglia di conservazione, una forma di opposizione a
quanto di nuovo può scardinare il vecchio mondo e il vecchio modo di pensare.
Ogni caso comunque, va valutato a parte, non si può generalizzare. Era un
complotto dire che la strage di Piazza Fontana era stata causata dagli
anarchici, fu allora importantissimo dirlo che era un complotto, rifiutare la
falsa verità sparata a nove colonne sui quotidiani. La contro informazione fu,
nell’occasione, sacrosanta. Non credo che si possa sostenere lo stesso per quel
che riguarda l’allunaggio del ‘69. Del resto si sta programmando un ritorno a
breve sulla luna da parte degli americani e forse dei cinesi, ricordo che ci
sono un paio di jeep con cui, nelle missioni che seguirono all’Apollo 11, gli
astronauti scorrazzavano lassù. False anche quelle? Se saranno ritrovate, assieme alla bandiera
che lasciò Armstrong, cosa diranno gli scettici? Senza parlare poi di quelle
centinaia di chili di roccia lunare che sono osservabili tutt’oggi e gli
infiniti filmati. Ne è stato presentato
uno che dicono formidabile e mai visto prima sull’intera impresa, il mese
scorso a Zurigo (era presente il quasi novantenne Aldrin, pare più in forma che
mai, secondo uomo a calcare il suolo lunare); uscirà a settembre in Italia. C’è
poi da considerare l’attenzione spasmodica con cui le reti radar e
l’intelligence russa hanno seguito ogni passo della vicenda, se ci fosse stato
imbroglio ed inganno vi sarebbero balzati sopra come un sol uomo. Ripensiamo a
quegli anni: si era in piena guerra fredda, la Russia, dopo lo Sputnik del 1957
che, volteggiando ben visibile nel cielo americano, si prendeva gioco di
un’intera nazione con i suoi beep-beep ad ogni passaggio (circa ogni ora e
mezza), dominava la competizione spaziale. Sembrò averla definitivamente vinta
con l’impresa del 1961 del ventisettenne Yuri Gagarin, primo uomo in orbita
attorno alla terra. L’America doveva rispondere in qualche modo, va tenuto
infatti presente che la supremazia nella corsa allo spazio era sinonimo, in
quegli anni, di dominio mondiale. Nel 1962, in un celebre discorso, Kennedy,
per recuperare il terreno perduto, lanciò il decennio della luna e promise che
nei prossimi dieci anni l’America avrebbe portato un uomo sulla luna e lo
avrebbe riportato a terra. Partì la più colossale cooperazione tecnico
industriale che la storia abbia mai visto. Milioni di contratti, di moduli, di
simulatori, costruzione di Hangar giganteschi, selezione tra i migliori piloti
americani per scegliere gli astronauti, lo straordinario addestramento cui
furono sottoposti, il diario che molti di loro hanno tenuto. Tutti d’accordo
nella grande recita? Tutto un bluff?
A.M.: Questa nuova fiducia posta su Macabor Editore è
prova di affidabilità della casa editrice?
Claudio Alvigini: O.K., torniamo… sulla Terra. Credo che,
in quanto detto nei punti precedenti, sia già contenuta una risposta. Posso
aggiungere che siamo di fronte, in questo caso, al rovesciamento delle parti, è
l’editore a spingere l’autore, a proporgli la pubblicazione… Altro che
affidabilità Alessia! Auguro alla Macabor ogni successo, perché lo merita come
nessun altro, perché è una casa editrice che ama ancora il bello, lo cerca e lo
stimola. La mia stima e amicizia con Bonifacio, consolidata da interminabili
telefonate tra Lisbona e Francavilla Marittima (in genere lo colgo mentre sta
cucinando e gli faccio bruciare tutto...) è oramai consolidata, la passione con
cui fa il suo lavoro, il suo disinteresse, mi fanno pensare che anche oggi,
nonostante si cerchi solo il danaro ed il successo a poco prezzo e con poca
fatica, sia possibile fare bene le cose in cui si crede, seguire la propria
strada infischiandosene di dove vanno gli altri, perseguire la propria idea, il
proprio sogno, proprio come fece il sarto di Ulm. E, a proposito del sarto,
l’entusiasmo di Bonifacio per questa dimenticata eppur storica figura è stato
tale che ha deciso di dare alla rivista di poesia che si appresta a pubblicare
(e questa è una vera anticipazione!) proprio questo nome: Il sarto di Ulm.
A.M.: Hai già il programma delle presentazioni estive
de “L’inconcepibile esercizio”?
Claudio Alvigini: La pubblicazione dell’Inconcepibile, mi
ha come sorpreso, tutto, da un certo momento in poi si è svolto molto
rapidamente e dunque le presentazioni le stiamo organizzando solo ora. Penso
quindi di fartele sapere e renderle pubbliche quanto prima.
A.M.: Mi è rimasta la curiosità sul tuo ritorno alla
poesia: in quest’ultimo anno sei stato visitato dalle Muse?
Claudio Alvigini: Sì, cara Alessia, e ancora una volta
grazie della tua attenzione e sensibilità; qualcosa è accaduto, qualche musa si
deve essere smarrita finendo così sulle soglie dell’Atlantico; lì ci siamo
incontrati.
A.M.: Salutaci con una citazione…
Claudio Alvigini: Ripensavo al sarto di Ulm, a Bonifacio,
a come intende il mestiere e la vita, a come la intendo io la vita, ripensavo
alle tue domande e continuava a venirmi in mente una citazione apparentemente
semplice ma, a guardar bene, profondissima e tale da segnare un discrimine tra
gli uomini: “Bisogna spendere i soldi per la vita, non la vita per i soldi.”
Indovina un po’ di chi è?
A.M.: Ora ho finalmente compreso perché Mnemosýne ha
lasciato i monti della Pieria: sta cercando una delle sue adorate figliuole! Ti
ringrazio, Claudio, per la tua gentilezza nell’accogliere le mie domande e per
il tempo che hai dedicato. Questo caro amico sarto che spese ogni suo denaro
per un prototipo di deltaplano e che morì di malnutrizione nel 1829 − dopo aver
donato il suo grande ingegno ad Ulm − è stato celebrato dal drammaturgo e poeta
tedesco Bertolt Brecht. Saluto, dunque, con due strofe della favola allegorica “Il
sarto di Ulm”: "Vescovo, so volare",/ il sarto disse al vescovo./
"Guarda come si fa!"/ E salì, con arnesi/ che parevano ali,/ sopra la
grande, grande cattedrale.// Il vescovo andò innanzi./ "Non sono che
bugie,/ non è un uccello, l'uomo:/ mai l'uomo volerà",/ disse del sarto il
vescovo.”
Written by Alessia Mocci
Photo Claudio Alvigini by Barbara Ledda
In copertina foto di Claudio Alvigini ventenne
Info
Sito Macabor Editore
http://www.macaboreditore.it/home/
Acquista “L’inconcepibile esercizio”
https://www.macaboreditore.it/home/index.php/libri/hikashop-menu-for-products-listing/product/84-l%E2%80%99inconcepibile-esercizio
Facebook Macabor Editore
https://www.facebook.com/Macabor-Editore-232652587202894/
Articolo The Guardian Bill Kaysing
https://www.theguardian.com/science/2019/jul/10/one-giant-lie-why-so-many-people-still-think-the-moon-landings-were-faked
Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/07/17/intervista-di-alessia-mocci-a-claudio-alvigini-vi-presentiamo-il-saggio-linconcepibile-esercizio/
Intervista di Alessia Mocci a Francesco S. Mangone: vi presentiamo La spazzola dell’ingegnere
“Furore prende il
titolo dal grande romanzo di John Steinbeck, uscito nel 1939; leggendolo si
capisce come la crisi umana, sociale e politica di quegli anni assomiglia alla
disperazione dell’oggi. Il romanzo sociale è tale perché rimette al centro la
vita delle donne e degli uomini in carne e ossa, in questo tempo dello
spettacolo e della finzione.”
– Francesco S. Mangone
Francesco Siciliano
Mangone è nato e vive a Trebisacce sul golfo di Sibari. È stato docente nelle Medie e presso il
Liceo della sua cittadina. Ha collaborato con la redazione della rivista
letteraria “La colpa di scrivere” e successivamente nel “Fiacre n° 9”.
Per anni, come
volontario nell’associazione Passaggi, ha insegnato ai migranti ed ancora conduce un laboratorio teatrale di
giovani e anziani.
Le sue passioni sono i libri, la barca a vela, le api, ed ultimamente
l’orto e le sue coltivazioni. Ha pubblicato romanzi, raccolte di poesie e
saggi. Ricordiamo “Schnellboot s-57” (Aljon, 2009), “Jonion” (Robin Edizioni,
2011), “1961, Le vacche di Fanfani” (Robin Edizioni 2012), “Misura minore” (Pungitopo
Editrice, 2016), “Il maestro illecito” (Robin Edizioni, 2018).
Con l’associazione
culturale il Musagete di Bonifacio Vincenzi ha partecipato alle tante iniziative svolte sul territorio e
recentemente ha preso l’incarico di condurre la neo collana della casa editrice
Macabor Editore “Furore
– il romanzo sociale”. La collana è
inaugurata proprio con un romanzo di Francesco S. Mangone: “La spazzola dell’ingegnere”.
A.M.: Salve Francesco è un piacere poter dialogare
con lei per presentare ai lettori due novità della casa editrice Macabor
Editore. Partendo dalla prima: com’è nata la collaborazione con l’editore
Bonifacio Vincenzi per la creazione della collana di narrativa “Furore – il
romanzo sociale”?
Francesco S. Mangone: Grazie Alessia, con Bonifacio
Vincenzi ci conosciamo da anni, dapprima che diventasse editore. Con lui,
fondatore dell’associazione il Musagete, per anni abbiamo fatto tantissime
cose, dalla promozione del libro, serate dedicate all’arte, alla cultura, in
giro per i paesi calabro-lucani intorno al Pollino. Successivamente a gestire
la rivista letteraria “La colpa di scrivere” e in seguito con “Il fiacre n° 9”.
Anni di passione e formazione. Qualche mese fa ci siamo rivisti e gli ho
proposto di pubblicare “La spazzola dell’ingegnere”, ma di farlo in una collana
apposita, che avesse il profilo del romanzo sociale. E lui subito mi propose di
occuparmene. Così venne fuori l’idea di Furore. Prende il titolo dal grande
romanzo di John Steinbeck, uscito nel 1939; leggendolo si capisce come la crisi
umana, sociale e politica di quegli anni assomiglia alla disperazione
dell’oggi. Il romanzo sociale è tale perché rimette al centro la vita delle
donne e degli uomini in carne e ossa, in questo tempo dello spettacolo e della
finzione. All’inizio del terzo millennio, furono dati per finiti la storia e i
conflitti sociali che lacerarono il Novecento. In questa visione, anche l’opera
d’arte doveva ridursi a una questione di linguaggio, di stile. Ridurre i
contenuti a un semplice gioco letterario. Non è così. Vedi, ritornano i drammi,
gli orrori, la necessità della Storia, per capire.
A.M.: La seconda novità di cui mi piacerebbe parlare
è l’uscita del primo romanzo della collana “La spazzola dell’ingegnere”.
Francesco S. Mangone: Il titolo trova soluzione
nell’esergo di W. Benjamin. Laddove la visione storicistica vede una linearità
crescente del progresso in un determinismo teleologico, l’ingegnere Carlo
Sarracini, seguendo il filosofo tedesco, racconta (spazzola) la storia non dal
lato dei vincitori ma da quello dei perdenti, degli ultimi (di contropelo,
cioè). Nel romanzo si parla dell’inganno della fabbrica negli anni ’50 al Sud,
del suo lato oscuro, e della sottomissione dell’uomo alla “macchina” fordista,
mentre si pone la questione della nascita della dualità italiana. (L’attualità
anche in questo caso è evidente. In questi giorni, il governo sta per varare la
cosiddetta autonomia fiscale delle tre regioni più ricche d’Italia.) Si
continuano a ribadire le politiche che separano l’Italia. Nel tempo si è fatto
del Nord una macroregione ricca, sviluppata ed europea, e dell’Italia di giù
una terra di mafie, di servitù militari, mercato del lavoro; di briganti ed
emigranti. I buoni al Nord e i cattivi al Sud. Il romanzo raccoglie e struttura
questa complessità, per ricordarla. Quando lavoro a un romanzo so che è solo
una tessera di un più complesso metaromanzo. In questo modo scrivo
contemporaneamente più cose, mentre leggo e prendo appunti su altre storie e
personaggi. Impiego anni per scrivere. Da questa massa di scrittura viene fuori
il romanzo e io con loro. Vivo e cresco leggendo e scrivendo. Spesso sono i
personaggi o le maschere che mi indicano direzioni, dove andare. La scrittura è
spostare la dicibilità e la visibilità del mondo, del mio tempo.
A.M.: Il romanzo è ambientato in Calabria ma possiamo
ben affermare che racconta una realtà che si è verificata in varie regioni
d’Italia. Quel “Fare il Sud come il Nord”
è la promessa di benessere che non è stata mantenuta e “l’utopia di strada” è la soluzione comunicativa dell’ingegnere Carlo
Sarracini. “Procedere a piedi. Sentire il
corpo abitare gli spazi. Deambulare. […] Vedere d’intorno il lavoro e la cura
che ebbero gli avi.”
Francesco S. Mangone: “Fare il Sud come il Nord” è un
inganno. Una frase a effetto usata dai politici d’accatto. Non vale forzare,
imitare. Bisogna partire dalla cultura e dalle radici d’un popolo, di là si
parte per migliorare. Sapere del genius loci che accompagna le eccellenze
intime e speciali dei luoghi. Assecondare le vocazioni, mai più la speculazione
e lo sfruttamento, ma la Cura. In molti pensano che vale invece vendersi
l’anima. Sarracini viene deluso dalla fabbrica e dal consumismo che porta, così
opera quella inversione che sarebbe necessaria a noi singolarmente e
collettivamente. È un passaggio dall’io individualistico e nichilista al noi
della comunità solidale e inclusiva. Dal basso dice Sarracini, dai “giovani
innamorati dell’ambiente”. L’utopia di strada viene da sé, significa porsi
sullo stesso piano dell’altro da noi. S’incontra l’altro non solo per aiutarlo,
ma anche per imparare da lui.
A.M.: Carlo Sarracini è solito dire: “La morte, quando Nostro Signore vorrà, non
mi troverà di certo indifferente e in ozio… ma nel pieno del mio essere
cristiano”. Quando l’esser cristiano di Carlo è divenuto “un soggetto storico pronto ad accogliere il
messia, la rivoluzione”?
Francesco S. Mangone: Non mi sento un credente, ma
leggendo i Vangeli ho compreso la carica rivoluzionaria che c’è ancora in
quegli Annunci. Mi hanno colpito i riferimenti al corpo degli ultimi. Corpi
ammalati, folli, impazziti e piagati dalla miseria, e così via. Da quella
prassi, credo, Cristo abbia imparato ad amare la fragilità dell’uomo. Ne è
caduto follemente in amore. “Il maestro illecito” (Robin Edizioni), il romanzo
precedente uscito la scorsa estate, parla del maestro Rolando dell’A, lui,
laico reduce dal Maggio ’68, che insegna italiano ai migranti tra la miseria e
la violenza nella Piana di Sibari. In quel caso le premesse sono differenti, ma
l’umanità messa in campo identica. Per Sarracini, di cultura e formazione
cattolica, è essenziale la concordanza tra lettura dei vangeli e la propria
vita. Ma attenzione, non è un mero formalismo il suo: apre qualità nuove di
resistenza. Sarracini ha imparato che solo quando il tempo diventa storia e
l’anima si concilia con il corpo si apre la possibilità d’una inversione. Lui
l’ha sperimentato. Curiosamente Sarracini “incontra”, senza saperlo, Walter
Benjamin ed Ernest Bloch.
A.M.: “La spazzola dell’ingegnere” porta avanti una
tematica calda anche se inizia il suo racconto nel 1990 quando la motonave
Jolly Rosso si è insabbiata in zona Formiciche. Infatti, anche se il processo
che indaga sull’avvelenamento della vallata del fiume Oliva è stato formalmente
chiuso nel 2017, recentemente è stato riesumato in Corte d’Appello d’Assise a
Catanzaro. Forse quella sentenza di due anni fa che proclamava l’assoluzione di
tutti gli indagati è stato un ulteriore maltrattamento dei calabresi? C’è
possibilità che la giustizia corra il suo corso? E com’è la situazione odierna
visto il meteo incerto di questa primavera?
Francesco S. Mangone: Le cosiddette “navi a perdere”,
“carrette del mare” o “navi dei veleni” sono l’argomento d’un altro mio romanzo
“Jonion” del 2008. Dentro questa storia c’è l’alleanza tra malavita del Sud e
industriali del Nord. Sono temi scandalosi, difficili da accettare. Oggi questa
storia sembra finita. Ma si sa che le nuove discariche sono diventate zone del
mondo a bassa capacità di controllo democratico. Sono vicende che nei nostri
media vecchi e nuovi, restano sfrangiate, sempre nuove. Occasione di
chiacchiericcio, con noi a stupirci e impotenti. Ecco il limite del giornalismo
o dei talk show televisivi. Restano frammenti e mai che si riesce a mostrare la
razionalità che presente in noi li fa accadere (Sì, perché noi non siamo
innocenti). È diffusa invece da qualche tempo una sorta d’irrazionalità che fa
sembrare l’accadere come colpa d’un destino cinico e baro. In cui forse la magia
o le affezioni salvifiche sono demandate all’uomo solo al comando, che ci salva
e libera. A complicare le cose le sentenze della magistratura, che anch’esse
arrivano in ritardo oppure si contraddicono a secondo dei livelli di giudizio.
Intercorre una crisi più generale che è quella della verità. Sembrerebbe che la
stessa Magistratura resti nel guado d’un mutamento del diritto e che non riesca
a produrre chiarezza sui ciò che bisogna intendere per “giustizia”. Sarebbe
necessario perciò ricostruire, affidarsi a un nuovo pensiero critico,
restituendo alla ragione e alla cultura il primato che ora sembrano aver perso.
Ma si sa che poco può fare la magistratura se deve supplire la politica e la
coscienza della gente.
A.M.: Ma oltre al Cesio 137, nel romanzo si racconta
della diossina TCDD che, il 10 luglio 1976, fuoriuscì dall’azienda ICMESA di
Meda ed investì una vasta area dei comuni adiacenti toccando particolarmente
Seveso e delle 40 tonnellate di MIC (isocianato di metile) della multinazionale
statunitense Union Carbide (oggi proprietà di Dow Chemical) che, il 3 dicembre
1984 nella città indiana di Bhopal, provocarono la morte di un numero ancora
non chiaro di vittime (alcune agenzie governative parlano di 15.000). Quando si
avrà modo di punire i colpevoli?
Francesco S. Mangone: Di questi disastri parla il
romanzo. Le cose dal mio punto di vista non sono cambiate. Il Cesio 137, la
diossina e i tanti veleni che a profusione immettiamo nei nostri circuiti
alimentari e di vita restano conosciuti e chi avrebbe il compito di intervenire
non lo fa. Sarracini con il giovane Greg Malari sono protagonisti
nell’informazione e controinformazione su queste sciagure. Ma ad entrambi tocca
fare un lavoro oscuro nell’indifferenza. Come il romanzo, Sarracini non si
piega all’ignavia. Col tempo diventa una sorta di megafono della verità, dal
basso. Andando per le strade a realizzare l’utopia vera, non quella minestra
cucinata dall’alto. Così si ispira al Cristo, ma anche allo stesso Mao della
lunga marcia. Ma la crisi attuale è qualcosa di molto più grave e decisiva. Le
multinazionali della chimica hanno potere immenso e producono qualsiasi cosa
pur di ottenere il profitto del capitale investito. Non ci resta che insistere.
Sapendo che oltre c’è l’indifferenza. La cosa folle del pensiero corrente è che
nelle crisi ci si rimanda sempre al futuro, alla tecnica. E con la tecnologia e
gli algoritmi si sostituiscono le scelte umane e si indeboliscono le sue
capacità di giudizio. L’impotenza di punire i colpevoli corrisponde all’impossibilità
di risalire e giungere al dominus d’una tale razionalità. Non si tratta di
singole persone, dunque, ma d’un sistema logico astratto che tutto tiene:
potenti e deboli, vittime e carnefici. S’intreccia il dominio ferreo delle
élite finanziarie ai poteri vasti delle multinazionali: il pericolo è per la
stessa democrazia e come l’abbiamo conosciuta e realizzata dal dopoguerra a
oggi.
A.M.: Quanto la gravosa questione ambientale è
sentita dalle persone? Oppure si è ancora in uno stato di alienazione tale da
non preoccuparsi perché si demanda questo problema foriero di morte alle genti
future non riflettendo sul semplice fatto che le “genti future” sono già qui e
siamo “noi del presente”?
Francesco S. Mangone: Si continua a dare segnali
contraddittori. Ci si dice che la colpa della crisi è il livello alto di vita
che abbiamo condotto, e dall’altro ci si invita a consumare, con i Governi a
promettere sviluppo. Si parla di Green Economy e si continua usare le energie
fossili e dare licenze alle multinazionali del petrolio di perforare coste,
mari e fragili territori. È un miserabile spettacolo, mentre si invoca l’uomo
forte per colpire i più poveri, i migranti, le famiglie quali responsabile del
disordine generale. A fare da grancassa i media che puntano sulle emozioni,
l’irrazionale e lo svuotamento del reale, senza andare alle radici del male.
Sarebbe necessario una visione antropologica intelligente e positiva per
tentare una presa di coscienza. L’illegalità, le mafie, la corruzione, il
disprezzo e la solitudine sembrano essere le truppe cammellate del sistema. La
cancrena che si attacca e lentamente vince. Carlo Sarracini, in un discorso a
Cetraro, la bella città sul Tirreno calabrese, parlando della nave Kunskj
affondata dalla ‘ndrangheta locale, per sollevare i cittadini, giunge ad usare
toni apocalittici sulla fine del pianeta, ma serve a poco.
A.M.: Ci sono in programma presentazioni del romanzo
“La spazzola dell’ingegnere”?
Francesco S. Mangone: Ci saranno certamente delle
presentazioni nei mesi a seguire, ma avremo modo di precisarlo meglio quanto
prima. Presso il sito della casa editrice informeremo chi sarà interessato.
A.M.: È presto per chiedere un’anticipazione sul
secondo romanzo che sarà pubblicato nella nuova collana?
Francesco S. Mangone: Bè, Sì. Abbiamo delle idee, ma è
ancora presto per decidere. La nostra intenzione è farla diventare un punto di
riferimento per scrittori che hanno in mente la storia e la lettura del
presente come storia. Mostrare lo scarto tra ideologia e vita naturale. Usando
lingua e forma non in se stesse, ma per tentare una diversa rappresentazione
della realtà. Approfittiamo perciò dell’occasione che ci concede la rivista per
invitare quanti vorranno di inviare i loro manoscritti.
A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Francesco S. Mangone: Essendo il romanzo in un certo
senso sotto l’egida di Benjamin, ho pensato di salutarla citando da un pensiero
comune Sarracini-Benjamin: “Ogni nostra singola azione ha il ritmo della
natura messianica, perché partecipa e anticipa il regno di Dio, perciò bisogna
operare come se il Messia ci fosse da presso.”
A.M.: Francesco ringrazio per la sincerità delle sue
parole, è complesso trattare alcune tematiche, perché è complesso interessarsi
di ciò che accade – che noi uomini facciamo accadere −. Per questo motivo ho il
piacere ed il dovere di sottolineare in chiusura una sua bellissima asserzione
che sale come grido disperato pregno di coscienza: “noi non siamo innocenti”.
Saluto con il versetto 17 del Vangelo di Tommaso: “Gesù disse: − Gli uomini
certamente credono che io sia venuto a portare la pace nel mondo, ed essi non
sanno che io sono venuto a portare sulla terra le discordie, il fuoco, la
spada, la guerra. Infatti saranno cinque in casa e si schiereranno tre contro
due e due contro tre, padre contro figlio e figlio contro padre, e si leveranno
come solitari.”
Written by Alessia Mocci
Info
Sito Macabor Editore
http://www.macaboreditore.it/home/
Acquista La spazzola dell’ingegnere
http://www.macaboreditore.it/home/index.php/libri/hikashop-menu-for-products-listing/product/81-la-spazzola-dell%E2%80%99ingegnere
Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/07/01/intervista-di-alessia-mocci-a-francesco-s-mangone-vi-presentiamo-la-spazzola-dellingegnere/
Intervista di Alessia Mocci a Cristina Zaltieri: vi presentiamo Spinoza e la storia
“Nietzsche coglie cinque motivi di consonanza tra il suo
pensiero e quello del pensatore olandese: entrambi combattono l’illusione del
libero arbitrio, confutano il finalismo di matrice aristotelica, distruggono la
concezione di un ordine morale inerente al mondo, mostrano l’interesse come
motore di ogni umano agire, negano il male ontologico, insito nelle cose stesse.”
– Cristina Zaltieri
“Spinoza e la storia” edito nel
maggio 2019 dalla casa editrice mantovana Negretto Editore è un saggio
critico sul filosofo olandese Baruch Spinoza (Amsterdam, 24 novembre
1632 – L'Aia, 21 febbraio 1677) comprendente una ricca selezione di saggi
curati da Cristina Zaltieri e Nicola Marcucci, pubblicato nella collana
“Il corpo della filosofia”.
Il saggio si apre con
l’introduzione “Spinoza. Come pensare altrimenti la storia” di Cristina
Zaltieri nella quale sono illustrate le quattro parti che compongono
l’ambizioso e ben riuscito progetto corale di nuova rilettura del filosofo
olandese seguendo la moderna attenzione riservatagli dai filosofi Gilles
Deleuze e François Zourabichvili.
La prima parte, “Alle radici di una
storia spinoziana”, inizia con il saggio di Chiara Bottici e Miguel de
Beistegui, seguono il saggio di Patrizia Pozzi, il saggio di Francesco
Toto, con chiusura di Nicola Marcucci.
La seconda parte, “Una solitudine
condivisa. Tra precursori e seguaci”, prende avvio con il saggio di Augusto
Illuminati, seguono il saggio di Guillermo Sibilia, il saggio di Riccardo
Caporali, con chiusura di Cristina Zaltieri.
La terza parte, “Contro la lettura
astorica”, vede come primo saggio “Spinoza e la storia” di Vittorio Morfino,
seguono il saggio di Thomas Hippler; il saggio di Andrea Cavazzini,
con chiusura di Homero Santiago.
La quarta parte, “Spinoza
oltremoderno”, si apre con il saggio di Ezequiel Ipar, seguono il saggio
di Manfred Walther, il saggio di Maria de Gainza, con chiusura di
Stefano Visentin.
Cristina Zaltieri è docente di
filosofia ai licei e cultrice di filosofia all’Università di Bergamo.
Dirige assieme alla stimata collega Rossella Frabbrichesi la collana “Il corpo
della filosofia”. Precedentemente altri suoi lavori filosofici sono stati
pubblicati per gli editori Guerini e Mimesis.
A.M.: Ciao Cristina ci siamo
conosciute grazie alle pubblicazioni che hai curato sul filosofo francese di
origini georgiane François
Zourabichvili che si dedicò interamente alla comprensione al commento
dell’opera di Baruch Spinoza e Gilles Deleuze. Oggi non ci discosteremo molto
dall’argomento, infatti la nostra chiacchierata verterà sulla nuova
pubblicazione che hai curato con Nicola Marcucci, “Spinoza e la storia”. Come
nasce l’idea di questa raccolta di saggi su Baruch Spinoza?
Cristina Zaltieri: Nel giugno 2013 alcuni studiosi italiani di
Spinoza, Raffaella Colombo, Vittorio Morfino, Gianfranco Mormino e Nicola
Marcucci convocarono a Milano per un convegno di tre giorni esperti di studi
spinoziani da ogni parte del mondo al fine di considerare il complesso rapporto
che il pensiero di Spinoza intrattiene con la storia, al di là di un secolare
interdetto che nelle interpretazioni tradizionali gravava su tale rapporto. Ne
emerse un panorama di studi e di letture variegato e davvero cospicuo che
subito si mostrò meritevole di pubblicazione in quanto il tema risultava nella
letteratura spinoziana pressoché inesplorato. Ma per alterne vicende, in primo
luogo legate al finanziamento della pubblicazione, l’impresa si bloccò fino a
quando, nello scorso anno, Silvano Negretto mostrò interesse al testo per la
sua collana di filosofia “Il corpo della filosofia”. Nicola Marcucci ed io, che
avevo partecipato come relatrice al convegno, ci facemmo carico ben volentieri
del lavoro di curatela della pubblicazione.
A.M.: Quali sono − nella diversità dei punti di vista
evidenziati nei diversi saggi − i temi e concetti chiave per i quali Spinoza
può dirsi interessato al movimento e alle trasformazioni della storia?
Cristina Zaltieri: Spinoza nella sua breve vita ha
elaborato una filosofia che ha il proprio cuore pulsante in un progetto di
liberazione etico-politica, progetto ben testimoniato dall’Etica e dai due Trattati.
Emancipazione, democrazia, libertà, formazione, sono tutti temi che
riecheggiano nelle pagine di Spinoza e la
storia e che ogni studioso di Spinoza sa essere cari al nostro filosofo. Di
certo un interesse per la storia traspare lungo il Trattato teologico-politico ed è presente pure nel Trattato politico; ciò spiega come la
gran parte dei saggi raccolti in Spinoza
e la storia si riferiscano ai due testi in questione. Nel primo testo
Spinoza mostra una profonda conoscenza dei costumi e delle vicende della storia
ebraica biblica che fa valere in senso critico nei confronti di una lettura
astorica della Bibbia. Nel Trattato
politico la disamina dei tre modelli statuali, monarchico, aristocratico e
democratico (quest’ultimo purtroppo non affrontato da Spinoza che muore
lasciano incompiuto il testo) è arricchita da continui exempla tratti dalla storia delle comunità umane – dei romani, degli
aragonesi, degli inglesi, ecc. − ben conosciuta da Spinoza.
Ora, un progetto emancipativo richiede un confronto con
la storia come luogo del divenire umano. Si tratta di capire quali caratteri
assuma l’indubbia attenzione di Spinoza per il divenire umano. È questo il tema centrale del testo,
declinato in molteplici forme dai vari autori. Ad esempio, Manfred Walther
considera la distanza (e anche i punti in comune) tra la concezione spinoziana,
che non ammette l’emergere dell’assolutamente nuovo, e la lettura evolutiva.
Homero Santiago legge nel more geometrico
non l’antitesi ad ogni divenire (come spesso si è detto), bensì la possibilità
di dar conto delle trasformazioni nel senso di un’esplicazione di ciò che ogni
ente inviluppa in sé, proprio come ogni figura geometrica implica in sé
molteplici proprietà. Mariana de Gainza legge in Spinoza una lettura della
storia che l’autrice chiama “prospettivismo critico” e che è antidoto ad ogni
costruzione di una storia universale.
A.M.: Quali sono, secondo te, le fasi storiche
fondamentali (e relativi autori più significativi) nelle quali si svolgono e
via via mutano le interpretazioni della filosofia complessiva di Spinoza?
Cristina Zaltieri: Quando Spinoza muore, nel 1677, non ha
adepti né lettori, al di fuori della cerchia ristretta dei suoi amici; è in
odore di ateismo e per un secolo sarà pressoché dimenticato (se si escludono
rari commentatori come Pierre Bayle) fino a quando nel 1785 il filosofo tedesco
Jacobi rende pubblica una sua conversazione con il grande letterato illuminista
Lessing in cui quest’ultimo dichiarava di sentirsi in piena consonanza con il
pensiero di Spinoza. Lessing asseriva che le tradizionali forme di religione
non gli dicevano più niente, egli riposava ormai su un unico pensiero: en Kai
pan, ossia “tutto è uno”. Ne emerse un dibattito che coinvolse i maggiori
pensatori del momento e che servì per riportare all’attenzione di tutti il
pensiero dell’eretico Spinoza anche se molti dei lettori del tempo, tra cui
Kant, stigmatizzarono in Spinoza un razionalismo esaltato, fanatico, privo di
alcuna misura e limite, che pretende di spiegare ogni verità metafisica. Le
letture idealiste che ne seguirono, quella di Hegel, in primis, se da un lato
riconoscevano al pensiero di Spinoza una grandezza indiscussa, dall’altro lo
inchiodavano a pensiero della sostanza immota, dove il finito e il molteplice,
in quanto effimera apparenza, si inabissano.
Bisogna giungere agli anni sessanta del Novecento per
assistere, in terra francese, a un radicale cambiamento di paradigma nella
lettura di Spinoza. Ne è esponente significativo Gilles Deleuze che nelle sue
ricerche dedicate a Spinoza, Spinoza et le problem dell’expression (1968) e
Spinoza. Philosophie pratique (1981) fa di Spinoza il filosofo della radicale
immanenza valorizzando temi quali quello del desiderio, del corpo, della
filosofia come cammino di liberazione. Negli anni settanta Althusser e i suoi
discepoli, Etienne Balibar e Pierre Macherey, leggono in Spinoza un filosofo
rigorosamente materialista, una sorta di precorritore, nella considerazione
dell’ideologia, del pensiero di Marx. Ad Althusser dobbiamo la lettura di uno
Spinoza portatore di una storia “altra”, una storia policronica e
evenemenziale.
Da allora ai giorni nostri Spinoza è sempre più studiato,
in tutte le parti del mondo, come dimostra la varietà di provenienza degli
studiosi ospitati in Spinoza e la storia. La popolarità di Spinoza ha reso
paradossalmente questo filosofo − così difficile e arduo da comprendere − una
sorta di esponente della pop-filosofia, citato persino da Vasco Rossi prima di
un suo concerto qualche anno fa. Questa popolarità di Spinoza dà ragione a
Deleuze che, mentre lo definiva “il principe dei filosofi”, lo chiamava anche
il “filosofo dei non filosofi” perché il suo pensiero rende possibile una sorta
di approccio “affettivo”, selvaggio, ai suoi concetti.
A.M.: Perché le interpretazioni raccolte sul saggio “Spinoza
e la storia” sono differenti da quelle tradizionali?
Cristina Zaltieri: Spinoza, accompagnato in vita come
dopo la morte, dall’aura negativa del pensatore che fu maledetto dalla sua
stessa comunità di appartenenza, esecrato da tutte le chiese, isolato dalla
cultura ufficiale del suo tempo, ritornò ad essere oggetto di attenzione, anzi
di una vera e propria Spinoza Renaissance,
nel contesto del Romanticismo tedesco. Ora, sia i detrattori sia gli entusiasti
adepti del filosofo dell’Etica, lo
lessero, in quel contesto, come colui che considerava la totalità del reale,
incarnata nella Sostanza infinita, come immobile, dunque senza storia,
abbandonando il divenire dei singoli modi, uomini, esseri animati o cose, alla
conoscenza immaginativa. Questa è una lettura di Spinoza che è durata più di
due secoli e che ha inibito una ricerca in direzione dei possibili apporti
della filosofia di Spinoza per pensare la storia.
Nei saggi raccolti in Spinoza
e la storia si va oltre la tradizionale accusa volta a Spinoza di un
rifiuto della storia e si assume ciò che il testo stesso di Spinoza, in
particolare i due Trattati, chiaramente esprime: un interesse per la storia, considerando
le peculiarità della storia pensata à la
Spinoza. Ne emerge una storia in cui costantemente è al lavoro
l’imprevedibilità del desiderio che sfugge a ogni incanalamento (Bottici – de
Beistegui). Una storia che assume dal toledot,
storia generativa ebraica, caratteri singolari e carnali, legati al passaggio
madre/figlio, senza possibilità di uno sguardo universale e oggettivo, quale la
storia dominante nella cultura platonico-cristiana – di ispirazione erodotea –
esige (Pozzi). Una storia in cui non è agente un soggetto libero e
autodeterminantesi ma un automaton,
ossia un soggetto sociale che si esprime in pratiche determinate (Toto). Si
deve considerare che alla base della concezione spinoziana del tempo, sta la
lettura epicureo-lucreziana che lo vede come una pluralità di ritmi, una
policronia (Illuminati), restando il tempo privo di valenza ontologica, mero ausilio
dell’immaginazione, mentre è la durata, sempre singolare, del modo finito che
ogni ente è, a scaturire dalla potenza della sostanza, ad avere quindi una
realtà ontologica (Sibilia).
A.M.: “Nietzsche e Spinoza contro la moderna
formazione dell’umano” è il titolo del tuo contributo che chiude la seconda
parte del saggio. Cito dal testo: “Sia
Spinoza sia Nietzsche rifiutano di considerare degni di valore concetti quali
quelli di «perfezione» o «imperfezione», «ordine» o «disordine» attribuiti agli
enti, poiché entrambi vi leggono il segno di una riduzione delle cose alla
misura dell’uomo, al criterio del proprio utile.” Quali sono in breve gli
elementi di fondo che si ritrovano nei due filosofi?
Cristina Zaltieri: Nietzsche incontra Spinoza almeno
dieci anni dopo i suoi esordi filosofici, come testimonia la famosa lettera a
Franz Overbeck del 31 luglio del 1881. Ne rimane estasiato, finalmente non si
sente più totalmente isolato, si sente legato a Spinoza in una solitudine a
due, come egli stesso racconta. Nietzsche coglie cinque motivi di consonanza
tra il suo pensiero e quello del pensatore olandese: entrambi combattono
l’illusione del libero arbitrio, confutano il finalismo di matrice aristotelica,
distruggono la concezione di un ordine morale inerente al mondo, mostrano
l’interesse come motore di ogni umano agire, negano il male ontologico, insito
nelle cose stesse. Si potrebbe dire che
Nietzsche legge in Spinoza un suo antecedente in quanto maestro del sospetto,
impegnato a distruggere i falsi idoli della nostra tradizione di pensiero. In
realtà, nella mia ricerca, intendo evidenziare che i punti di contatto sono ben
più numerosi, alcuni non considerati affatto da Nietzsche che spesso condanna
in Spinoza un atteggiamento ascetico, un razionalismo esangue che in realtà non
c’è. D’altra parte come ha recentemente mostrato lo studioso Maurizio
Scandella, Nietzsche non lesse di prima mano Spinoza ma si affidò alla lettura
offerta da Kuno Fischer nella sua storia della filosofia di impostazione
hegeliana. Nel mio lavoro mi interessa in primo luogo la comune lettura
“energetica” della realtà: per entrambi l’essenza di ogni ente è potenza. La
formazione dell’umano è letta da entrambi come pieno dispiegamento
dell’essenza/potenza che definisce ognuno di noi e che richiede un percorso
singolare: entrambi contrastano l’idea di una formazione dell’uomo mirante
all’utile da conseguire il più velocemente possibile e fondata su modelli universali
pre-costituiti. Infine entrambi vogliono combattere i moralisti, i maestri che
giudicano e condannano in nome di passioni tristi (disprezzo per l’uomo, odio,
risentimento…) al fine di una vita che sia davvero liberata e finalmente umana.
A.M.: Poco più avanti troviamo “[…] l’aggettivo «duplice» si presta a due letture: in primo luogo dice
l’innaturale naturalità di cui l’uomo è affetto in quanto animale che crea per
natura l’artificio, che contravviene alla natura modificandola. Dunque, non ha
senso, per Nietzsche, il motto stoico «vivere secondo natura» poiché la vita
umana è ‘innaturale’, ossia è natura che si fa sforzo, artificio, tentativo di
dar forma e stile alla forza”. Che cosa ci fa pensare che l’artificio − la
possibilità di intervenire sulle “cose” − non sia esso stesso dato dalla Natura
essendo una nostra capacità “innata”?
Cristina Zaltieri: Hai colto perfettamente il senso di
ciò che chiamo “naturale innaturalità” dell’uomo: è la nostra natura quella di
essere innaturali, ossia di produrre tecnicamente continue protesi del nostro
corpo, dal bastone acuminato con cui ai primordi del tempo umano il primitivo
suppliva alla scarsa forza delle sue mani per uccidere l’animale, fino al
computer, protesi della nostra mente, della nostra memoria. Questo carattere
dell’uomo era perfettamente colto ben prima di Nietzsche, dal sofista Protagora
come testimonia il mito a lui attribuito e narrato nel dialogo di Platone, il Protagora. In tale mito Epimeteo è
incaricato dagli dei di distribuire i doni divini a tutti gli esseri viventi.
Egli li esaurisce tutti (denti aguzzi, artigli, zampe veloci…) attribuendoli
agli animali e, quando giunge all’uomo, non ha più doni da offrirgli. L’essere
umano avrebbe dovuto soccombere nella lotta per la vita se non fosse
intervenuto il titano amico dell’uomo, Prometeo, che ruba a Efesto il fuoco e
lo dona all’uomo insieme all’entechne
sophia, alla tecnica. Protagora nullifica, migliaia di anni fa, tutte le
lamentazioni, ancora inutilmente presenti, sulla tecnica che snatura l’uomo. In
verità la tecnica, l’artificio, anche quello educativo, è la nostra innaturale
natura.
A.M.: Che cos’è la Bildung e perché “entrambi i filosofi condividono un progetto
di Bildung che resta isolato nel contesto di una modernità protesa a formare
nel modo meno dispendioso e più veloce individui utili e docili alle richieste
dello Stato e del mercato; entrambi avvertono il pericolo della cattiva
educazione che vedono in tal senso agire nelle diverse società a cui appartengono.”?
Cristina Zaltieri: Uso il termine tedesco Bildung perché è equivalente a ciò che i
greci chiamavano paideia e perché è
utilizzato con grande profondità teoretica da Goethe che è il vero tramite tra
Spinoza e Nietzsche. Goethe era spinoziano, si potrebbe dire non per scuola, ma
per natura di pensiero e Nietzsche, amandolo e facendo propria gran parte della
sua riflessione, si è nutrito di pensiero spinoziano ben oltre il suo cosciente
e tardivo entusiasmo per Spinoza di cui ho prima parlato. Bildung, ci spiega Goethe, è termine legato a Bild, che è forma mobile, non fissa come invece in tedesco è Gestalt. Dunque Bildung dice una formazione dell’umano che non è legato a un
modello universale e stereotipato e che si addice perfettamente a ciò che
intendono sia Spinoza che Nietzsche quando riflettono su tale tema. Spinoza
nell’Etica si scaglia contro i
cattivi maestri che invece che firmare l’animo
dei discenti, frangono, distruggono
la loro singolarità. Ancor oggi questo monito severo contro l’omologazione nell’educazione
(che è appunto la distruzione della singolarità) deve farci pensare. Nietzsche
è sconcertato, da parte sua, degli esiti nefasti che egli legge all’esordio
dell’educazione di massa e che consistono nel ridurre l’uomo a moneta corrente,
ossia a merce il più presto possibile pronta ad essere utilizzato nel mercato.
I veri maestri non sono coloro che ci abbandonano all’istinto del gregge
(presente per pigrizia, per inerzia, in ognuno di noi), ma sono coloro che ci
indicano la nostra vera natura, che ci aiutano a dispiegarla appieno. Lo scopo
di ogni educazione autentica è proteggere quel nucleo ineducabile che è la
nostra propria singolarità. Si tratta di riflessioni che sembrano purtroppo
poco o per niente frequentate dalle nostre istituzioni scolastiche.
A.M.: θαυμάζω. Thaumàzein. Nel Teeteto, Platone indica nel pathos
della meraviglia il principio primo. Aristotele parte dall’idea che la
meraviglia possa far stimolare alla ricerca delle cause ultime. Contrari
Nietzsche e Spinoza. Ma trasportiamo questa diatriba ai nostri giorni e
consideriamo quanto la psiche umana sia confusa da orari da rispettare, notizie
che si accavallano ed alle quale non si riesce a trovar il tempo per creare
connessione. Il mondo virtuale che ha modificato l’attività giornaliera del
mondo fisico per un’esaltazione della maschera o dell’Io. In questa insicurezza
del vivere è possibile che la meraviglia di veder il tramonto od il sorgere del
sole senza il bisogno di scattare una fotografia da inserire su un profilo
social, possa portar la capacità di interrogarsi? L’uomo riesce ancora a
chiedersi: ma perché avviene? Se la meraviglia può portare nuovamente il dubbio
a quel punto ci può essere l’ascesa alla pace, al bene, al silenzio?
Cristina Zaltieri: Per quanto concerne la lettura che
Spinoza offre della meraviglia rimando al bel saggio di Nicola Marcucci
contenuto nel libro. Ricordo solo che per Spinoza l’admiratio è il nostro atteggiamento mentale di fronte a ciò che non
colleghiamo a nulla di già esperito, di fronte all’insolito, o meglio, a ciò
che pensiamo, immaginiamo, lo sia. Per questo non ha valenza conoscitiva, ci fa
sospendere qualsiasi connessione e relazione e ha il potere di ingigantire le
passioni che accompagnano l’emergere dell’insolito. Nietzsche poi propende per
concepire l’inizio del pensiero piuttosto che dal tradizionale thaumàzein, da
un trauma, da una ferita che richiede il pensiero come farmaco, come rimedio. Quanto
alla meraviglia che tu identifichi piuttosto con la contemplazione, con il
raccoglimento, con il tempo del pensiero, mi trovi del tutto in sintonia con la
tua preoccupazione: è triste e disumano che le nostre vite non trovino più modo
di ospitare un po’ di vuoto, di silenzio, di tempo da perdere che poi è quello
che nutre il nostro pensiero critico e la nostra creatività.
A.M.: Ci sono in programma presentazioni di “Spinoza
e la storia”?
Cristina Zaltieri: La prima presentazione di Spinoza e la storia è prevista in
Università degli studi di Milano lunedì 24 giugno e vedrà alcuni autori dei
saggi contenuti, Vittorio Morfino, Riccardo Caporali, Stefano Visentin, i
curatori del libro, Nicola Marcucci ed io, discuterne con Roberto Diodato e Giorgio
Mayer Gatti sotto la presidenza di Gianfranco Mormino. Sarà una buona occasione
d’incontro tra spinoziani sulla questione della storia.
A.M.: Puoi darci un’anticipazione? Stai lavorando ad
un nuovo saggio?
Cristina Zaltieri: Sono impegnata nella scrittura di un
testo collettaneo che, a cinquanta anni dalla pubblicazione di Differenza e ripetizione, capolavoro
giovanile di Gilles Deleuze, si interroga sull’attualità dell’opera.
A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Cristina Zaltieri: Direi che dobbiamo concludere con
Spinoza, con le ultime parole con cui egli chiude la sua Etica:
“[…] la via che ho
mostrato condurre a questo [la vera tranquillità dell’animo] pur se appare molto difficile, può tuttavia
essere trovata. E d’altra parte deve essere difficile, ciò che si trova così
raramente. Come potrebbe accadere, infatti, che, se la salvezza fosse a portata
di mano e potesse essere trovata senza grande fatica, venisse trascurata quasi
da tutti? Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare.”
A.M.: Cristina ti ringrazio per questa
interessante chiacchierata. Seguo il tuo esempio e saluto anche io con una
citazione dell’Etica, dalla parte terza “Essenza ed origine
delle emozioni” (Laterza, 2009): “Di
quanti hanno scritto sulle emozioni e sulla maniera di vivere degli uomini, i
più sembrano trattarne, non già come di cose naturali, conformi alle leggi
comuni della natura, bensì come di cose estranee ad essa. Anzi, sembrano
concepire l’uomo, nella natura, alla stregua d’un impero all’interno d’un altro
impero; credendo che, anziché seguire l’ordine della natura, lo perturbi,
poiché avrebbe un potere assoluto sulle proprie azioni, come non determinato da
altro che da se stesso.”
Written by Alessia
Mocci
Responsabile
Ufficio Stampa Negretto Editore
Info
Sito Negretto
Editore - https://www.negrettoeditore.it/
Facebook Negretto
Editore - https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/
Acquista “Spinoza e la storia” - https://www.ibs.it/spinoza-storia-libro-vari/e/9788895967363?lgw_code=1122-B9788895967363
Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/06/12/intervista-di-alessia-mocci-a-cristina-zaltieri-vi-presentiamo-spinoza-e-la-storia/
Intervista di Alessia Mocci alla Fondazione Darcy Ribeiro per l’uscita della nuova traduzione italiana di Utopia Selvaggia
“Per Darcy, la sopravvivenza degli indios risiede nella
loro apparente incapacità di essere decomposta ed annullata nella società
nazionale. Qualunque siano le condizioni che affrontano, gli indios, anche se
profondamente mescolati con neri e bianchi, rimangono indios e si dichiarano
indios.” – Fondazione Darcy Ribeiro
Il primo maggio in tutte le librerie fisiche ed online è
uscito il romanzo “Utopia selvaggia ‒ Saudade dell’innocenza perduta. Una
fiaba” del famoso sociologo, antropologo, scrittore, educatore ed uomo
politico brasiliano Darcy Ribeiro (Montes Claros – Minas Gerais
26-10-1922/ Brasilia 17-2-1997), pubblicato nella collana “Il Pasto Nudo,
assaggi di antropologia” curata da Giancorrado Barozzi per la casa editrice
mantovana Negretto Editore con la nuova traduzione ad opera di Katia Zornetta.
La scelta da parte della casa editrice Negretto Editore
in dialogo e collaborazione con Fundar (Fundação Darcy Ribeiro), con sede a
Rio de Janeiro, offre un contributo importante all’attuale dibattito sui temi
di identità e diversità presenti non solo nel nostro paese ma anche in tutta
Europa.
La cosiddetta “crisi migratoria”, che da una decina
d’anni si è palesata sulle coste del Mar Mediterraneo e sui confini della
Turchia, è una problematica che ancora non ha risposte convincenti e che pian
piano si allontana, per la grande paura del disuguale sempre più presente nel
popolo europeo, dal concetto di mutuo appoggio tra popolazioni e culture
diverse.
Per addentrarci nell’argomento si è deciso di
intervistare le tre donne di rilievo della Fondazione Darcy Ribeiro: Haydée
Coelho, Lúcia Velloso e Elizabeth Brêa, ricercatrici e docenti universitarie,
che operano in diverse aree della letteratura dell’educazione e
dell’antropologia.
A.M.: Nel gennaio del 1996, un anno prima della
morte, Darcy Ribeiro istituisce la Fondazione Darcy Ribeiro con sede a
Copacabana con l’obiettivo di mantenere in vita il suo progetto di comprensione
ed integrazione della variegata moltitudine brasiliana. Da quell’anno ad oggi
cosa avete fatto per portare avanti il lavoro di Ribeiro?
Fondazione Darcy Ribeiro: A questa intervista hanno
risposto tre consigliere della Fondazione Darcy Ribeiro, tre donne − Haydée
Coelho, Lúcia Velloso e Elizabeth Brêa −, ricercatrici e docenti universitarie,
che operano in diverse aree della letteratura dell’educazione e
dell’antropologia. Due di noi, che attualmente partecipano al Comitato
esecutivo della Fondazione, hanno lavorato con Darcy Ribeiro, negli anni ‘80 e
‘90, quando era vicegovernatore dello stato di Rio de Janeiro, sviluppando, tra
le altre "costruzioni" [fazimentos], il più grande programma di
educazione a tempo pieno che il Brasile abbia vissuto. La terza consigliera si
avvicina alla Fondazione grazie alla sua brillante ricerca nel campo della
letteratura, che accompagna il lavoro e la produzione di Darcy Ribeiro nel suo
esilio, in diversi paesi dell'America Latina. Continuiamo, attraverso la
Fondazione, a organizzare eventi e curare libri su Darcy Ribeiro ed i suoi
ideali, per introdurre i giovani studenti universitari al pensiero di questo
autore, attraverso il nostro lavoro nelle università e in altri uffici pubblici.
A.M.: Ribeiro racconta in “Utopia Selvaggia” la
Guerra Guiana come una lotta del Brasile contro un nemico ignoto perché sia i
guiani sia i venezuelani dell’Amazzonia hanno iniziato una resistenza pacifica.
Che cosa vuole rappresentare Ribeiro con questa idea di collasso della guerra?
Cos’è la guerra per Ribeiro?
Fondazione Darcy Ribeiro: Il riferimento alla guerra nel
romanzo di Darcy Ribeiro è legato alle azioni "eseguite dall'esercito
brasiliano a nord del Rio delle Amazzoni". Il primo tenente Gasparino
Carvalhal, agente civile della SNI (National Information Service, creato
durante la dittatura militare nel 1964), prese parte alla guerra. Dal punto di
vista storico, si può dedurre che si trattasse di una forma di vigilanza da
parte del regime militare, durante la Guerra Fredda, per impedire l'espansione
del comunismo (Stéphane Granger). Per quanto riguarda il nome dell'ufficiale,
come osservato, si tratta chiaramente di una parodia di Gaspar de Carvajal, il
prete domenicano spagnolo che prese parte alla spedizione di Gonçalo Pizarro
alla foce del Rio delle Amazzoni. Sempre sulla falsariga della parodia, il
personaggio di Orelhão è un riferimento al conquistador Francisco de Orellana,
il cui viaggio esplorativo è anch’esso associato alla scoperta del Rio delle
Amazzoni.
In A fundação do Brasil (un libro curato da Darcy Ribeiro
e Carlos de Araujo Moreira Neto): "la spedizione di Orellana è sempre
stata importante per il piano geopolitico di occupare la regione amazzonica e
tutto il Sud America (...)."
D'altra parte, le attività militari permettevano anche
l'incontro tra il cosiddetto popolo civilizzato e gli indigeni, rappresentati
dalle Amazzoni e dagli indios Galibi, del popolo Calibã. Poiché il libro fa
riferimento a diversi periodi (il passato, il recente regalo dei brasiliani -
degli anni '60 e '70) e si proietta verso il futuro, l'autore si avvale della
dislocazione spaziale del personaggio, come membro dello staff militare, per
menzionare il Brasile nel capitolo sulla conquista dell'America, che non è
stato fatto solo dai portoghesi. Inoltre, il romanzo, in un modo dialogico,
contiene una diversità testuale che colpisce profondamente i lettori. Qui si
possono citare i testi relativi ai resoconti dei viaggiatori europei in
Brasile; la tradizione letteraria europea che include, tra gli altri testi, La
Tempesta, di William Shakespeare, attraverso le figure di Prospero e Caliban;
le letture e le riletture del dramma dell'autore inglese, incluse versioni e
interpretazioni che hanno prodotto importanti saggi di scrittori
latinoamericani, come Ariel, di José Rodó e Calibán e altri, di Roberto
Fernández Retamar.
La dimensione utopica del libro si impegna in un dialogo
con la tradizione europea, attraverso la lettura di Sérgio Buarque de Holanda
dell'Eldorado (Visão do Paraíso - Vista del Paradiso), attraverso
l'antropofagia e l'utopia di Oswald, e si proietta sul presente/futuro politico
che "è nelle mani sagge e computazionali di Prospero". Data la
complessa cornice (di riferimenti a più letture e testi), si può affermare che
la guerra di Darcy Ribeiro è una guerra di scrittura che implica un impegno
verso una visione multipla e polifonica del mondo che non annulla l'impegno
etico dello scrittore contro lo status quo.
A.M.: Ribeiro cita ‒ talvolta rimescolando i nomi ‒
missionari e storici che si addentrarono nel Sud America (Gaspar de Carvajal,
Francisco de Orellana, Cristóbal de Acuña e CharlesMarie de La Condamine,
Manuel de Nóbrega, Pero de Magalhães Gândavo, Luís Vaz de Camões). In che modo
uomini come quelli citati hanno modificato gli usi e costumi degli indigeni?
Fondazione Darcy Ribeiro: L'espansione iberica ha
scatenato uno dei più grandi processi di civiltà nella storia moderna,
distruggendo migliaia di popoli, lingue e culture. Evangelizzazione, schiavitù,
sottomissione forzata, decimazione da malattie sono aspetti di questo processo
che si è verificato nel continente americano, ma con conseguenze diverse tra l’America
del Nord e l’America portoghese. In Brasile, fu attuato un dominio sulle popolazioni
indigene che è avanzato dalla costa atlantica mentre la conquista del
territorio diventava effettiva. Lo scontro tra civiltà europea e indios a causa
delle malattie sconosciute, delle guerre di sterminio, della cattura degli
indigeni e dell'evangelizzazione etnocida portò all'estinzione di circa 4
milioni di indios nei primi due secoli di conquista. Negli anni '50 e '60, gli
indios stavano per scomparire, vittime di malattie, violenza o acculturazione,
processi di assimilazione o integrazione nella società nazionale. In tale
contesto, Darcy Ribeiro ha sviluppato una concezione che cerca di spiegare
perché l'indiano non è scomparso, al contrario, è tornato a una crescita
demografica. È il concetto di trasfigurazione etnica, in cui
"un popolo già strutturato resiste tenacemente
alla sua destrutturazione, ma lo fa appunto assumendo quei cambiamenti che ne
consentono l'esistenza nel contesto in cui interagisce" − O povo
brasileiro, 2013: 234
Per Darcy, la sopravvivenza degli indios risiede nella
loro apparente incapacità di essere disfatta nella società nazionale. Qualunque
siano le condizioni che affrontano, gli indios, anche se profondamente
mescolati con neri e bianchi, rimangono indios e si dichiarano indios.
A.M.: “Utopia selvaggia” è una storia, è una favola
ma in realtà è molto di più. Ribeiro interviene spesso come voce narrante per
spiegare al lettore ciò che sta leggendo in quel momento e dunque ciò che
accade al personaggio principale Pitum e ciò che pensa dell’incompreso passato
del Brasile. Lo stile del libro si presta al teatro considerando la forza delle
garbate intromissioni dell’autore. Si è mai portato in scena la fiaba o si è
pensato di farne un film?
Fondazione Darcy Ribeiro: Il narratore ha diverse
funzioni nel romanzo di Darcy Ribeiro: si rivolge al lettore; accompagna i
personaggi e il loro movimento attraverso diversi spazi; diventa un saggista e
fa da cronista dei vari periodi. Come tale, tra le altre risorse narrative, il
narratore testimonia e registra attraverso la scrittura, in modo commovente, i
dialoghi tra i personaggi civilizzati e i loro confronti, e le conversazioni
tra Calibã − leader della tribù Galibi − e i rappresentanti degli uomini
civilizzati. Il libro si chiude con un capitolo apoteotico intitolato "A
caapinagem" ["celebrazione di Caapi"]. In esso, Darcy Ribeiro
evoca Glauber Rocha: "Salve, salve Glauber. Benvenuto". In
un'intervista, lo scrittore aveva già annunciato che "A caapinagem"
era un capitolo concepito con l'intento di farlo adattare al cinema dal famoso
regista brasiliano. Nelle Confessioni postume, lo scrittore brasiliano
manifesta anche questo desiderio. Per i cineasti, un'immagine dice tutto.
Indubbiamente, da questa prospettiva, Utopia Selvagem apre la possibilità di
avvicinare il testo di Darcy Ribeiro alla luce della cinematografia e delle
arti visive.
La relazione tra cinema e antropologia, per quanto
riguarda Darcy Ribeiro, è attestata dalle produzioni filmiche che derivano
dalla spedizione etnologica di Ribeiro a Urubus-Kaapor. Nella prefazione a
Diários Índios, afferma che Heinz Foerthmann, quando lo accompagnò in occasione
del suo primo viaggio, produsse un film "su un giorno nella vita di un
popolo nativo nella foresta pluviale". Inoltre, nel 1975 il regista
Gustavo Dahl ha prodotto il film "Uirá, um índio em busca de Deus",
basato sul saggio "Uirá vai ao encontro de Maíra: come esperienze di um
índio que saiu à procura de Deus", pubblicato originariamente nel
periodico Anhembi (1957) e successivamente presentato nel libro Uirá sai à
procura de Deus, sottotitolato Ensaios de Etnologia e Indigenismo.
A.M.: Ribeiro ragiona sul governo brasiliano per
bocca di Pitum e racconta del progetto del maggiore Psiu sui media sul poter
ristabilire in Brasile l’ordine in uno stato sempre più depravato dall’incesto,
nazionalismo, xenofobia, pornografia. Quali sono state le lotte essenziali
della sua vita come uomo politico?
Fondazione Darcy Ribeiro: Darcy Ribeiro, laureato in
sociologia e antropologia, ha iniziato la sua vita professionale lavorando con
il maresciallo Cândido Rondon, che ha definito il suo eroe. Rondon era un
ingegnere militare e un "sertanista" brasiliano, famoso per il suo sostegno
alle popolazioni indiane brasiliane. A quel tempo, Darcy Ribeiro fu assunto
come naturalista, perché ancora non esisteva il ruolo di indigenista o etnologo
nel Servizio di protezione degli indios. Gli anni in cui Darcy Ribeiro visse
tra gli indios lasciò molti legati, tra i quali spicca la creazione, nel 1961,
del Parco Indigeno Xingu, la prima e più grande riserva per i nativi del
Brasile. La convivenza con gli indios e la sua militanza politica hanno segnato
la sua formazione, osservabile nella sua vita professionale e pubblica, in
particolare nell'educazione. Darcy Ribeiro fu educato per opera di Anísio
Teixeira, che egli definì il suo filosofo dell'educazione. Le proposte di
Anísio Teixeira per l'educazione sono state incorporate da Darcy Ribeiro e
implementate in tutte le sue opere nel campo dell'istruzione. Anísio Teixeira
ha presieduto l'Istituto nazionale di studi pedagogici (INEP) e ha consegnato a
Darcy il coordinamento e l'attuazione dei centri regionali di ricerca
educativa, collegati all'INEP. Insieme hanno creato l'Università di Brasilia,
che ha trasformato la comprensione della vita universitaria in Brasile. Darcy
Ribeiro fu il suo primo rettore, consegnando questa responsabilità ad Anísio
Teixeira quando Darcy Ribeiro divenne Ministro della Pubblica Istruzione. Era a
capo della Casa Civile, quando il colpo di stato militare prese il potere. In
esilio, Darcy ha partecipato all'organizzazione di diverse università. Al suo
ritorno, è stato eletto vicegovernatore, con Leonel Brizola, attuando il più grande
programma di educazione integrale nel paese, così come molti altri
"costruttori" [fazimentos], come soleva dire. Negli anni '90 fu
eletto senatore e fu responsabile dell'approvazione delle linee guida e delle
basi della legislazione nazionale sull'istruzione (legge 9394/96), tra gli
altri progetti di legge della sua paternità. È morto 40 giorni dopo
l'approvazione della legge sull'istruzione. Darcy Ribeiro ci ha lasciato il suo
impegno per il Brasile, la sua incessante immaginazione e l'entusiasmo per ogni
nuova idea intellettuale o iniziativa sociale.
A.M.: Indio fu una parola generica che Colombo diede
agli abitanti dell’America ma sappiamo che non è mai esistito un prototipo di
indio bensì un crogiolo di civiltà, popoli e gruppi umani generato da millenni
di processi migratori ed adattamenti. Il Sud-America è diventato un emblema di
mescolanza tra le popolazioni autoctone, gli invasori europei e coloro che
arrivarono come schiavi dall’Africa. Il cosiddetto meticcio è tipico del “Nuovo
Mondo” e mostra la grandezza della possibile integrazione. Ma com’è realmente
vissuta ‒ visto e considerato che lo stesso Ribeiro volle preservare le
popolazioni indios rimaste per non far l’errore di Stati come il Perù ed il
Messico che con la “scusante” di libertà e parità di diritti hanno derubato le
popolazioni della propria terra per una bottiglia di rum ‒ oggi la combinazione
tra indigeno, europeo ed africano?
Fondazione Darcy Ribeiro: In As Américas ea civilização,
un libro che affronta le questioni cruciali della storia americana, come il
senso della colonizzazione, la rottura dell'impero spagnolo in una diversità di
nazioni e le cause di disuguaglianza negli indicatori di sviluppo, Darcy
Ribeiro modella tre tipi di popoli in America: popoli trapiantati, popoli testimoni
e nuovi popoli che derivano dall'unione di bianchi, neri e indios nell'impresa
coloniale, una situazione prevalente in Brasile. Nel prologo alla pubblicazione
di Carta, Darcy Ribeiro scrive:
"Il popolo brasiliano fu costruito come una
popolazione razziale mista, storicamente spezzato in due blocchi: le orde
originate dai regni e dai loro figli creoli, poste in cima come una coorte
dominante, gli indios scampati allo sterminio, delle foreste e dei negri
portati dall'Africa, in opposizione a questi contingenti cresce l'altro blocco
di persone neo-brasiliane, composto da una massa di meticci, mamelucos e
mulatti, che si prendono cura della propria identità, costruendo nella propria
innocenza il loro destino” Carta, n.9, 1993: 16
Secondo Darcy, noi, popolo brasiliano, siamo
"tardo latini, da oltreoceano,
"amorenados" [dalla pelle scura] dalla fusione di gente bianca e
nera, deculturati dalle tradizioni del loro quartier generale ancestrale, ma
che ne portano con se alcune porzioni sopravvissute [di queste tradizioni,
n.d.r] che ci aiutano a contrastare così tanto con i lusitanos." − O povo
brasileiro, 2013: 117
Per Darcy Ribeiro, che fonde patrimonio genetico e
culturale indiano, nero ed europeo, questa è l'avventura brasiliana.
A.M.: Qual è il punto di vista del neo eletto
presidente Jair Messias Bolsonaro sulle popolazioni dell’Amazzonia?
Fondazione Darcy Ribeiro: Nonostante sia un militare e
contando nel suo governo, su una forte partecipazione di membri delle forze
militari, il presidente eletto rompe con il riconoscimento di una politica
indigenista formulata dal maresciallo Cândido Mariano da Silva Rondon che,
all'inizio del XX secolo, nel 1910, creò il Servizio di Protezione degli Indios
[Serviço de Proteção aos Índios-SPI] e difese il riconoscimento dei popoli
indigeni come nazioni autonome, con le quali era necessario stabilire relazioni
di amicizia. Rondon ispirò Darcy Ribeiro che abbandonò la carriera accademica
per diventare un etnologo presso la SPI, dove sviluppò importanti ricerche tra
il Kadiwéu, Urubu-Kaapor, Guarani-Kaiwá, Kaingang e concepì il parco indigeno
di Xingu. Contrariamente a questa visione umanista e al rispetto per il popolo
indio, l'attuale presidente ha intrapreso iniziative deleterie per gli indios
brasiliani. Ha diviso la National Indian Foundation [Fundação Nacional do
Índio-FUNAI], un'organizzazione indigena che è succeduta allo SPI, tra due
ministeri, delegando le azioni di identificazione e demarcazione dei territori
indigeni al Ministero dell'Agricoltura, noto difensore degli interessi dei
grandi proprietari terrieri, che, per la maggior parte, non riconoscono il
diritto alle loro terre tradizionali per le popolazioni indigene, come
stabilito dalla Costituzione brasiliana. Le recenti dichiarazioni del
Presidente Jair Bolsonoro che considerano le terre indigene nelle aree di
confine dell'Amazzonia un pericolo per la sovranità nazionale o che propongono
la liberazione dell'attività mineraria in quei territori mettono a rischio il
futuro delle popolazioni indigene e rivelano una chiara ignoranza della
formazione storica del Brasile.
A.M.: Dagli anni ’70 ad oggi sono vari i libri di
Darcy Ribeiro tradotti in italiano, come avete accolto il progetto di una nuova
traduzione di Katia Zornetta della fiaba “Utopia selvaggia” per la Negretto
Editore?
Fondazione Darcy Ribeiro: È preziosa la scelta di
pubblicare questo libro in questo momento storico del Brasile. Questo romanzo
fu scritto nel 1982 e fondò la sua pertinenza in due argomentazioni: la
profonda credenza di Darcy Ribeiro in cui l'utopia è una forza trainante
dell'umanità che illumina la traiettoria dai sogni alla loro realizzazione; e
il presente sconcertante di questo racconto che registra la saudade di perdita
dell'innocenza, attraverso i collegamenti tra passato e presente, che
proiettano un futuro di speranza, fondato sulla costruzione di una cultura
fondata sull'incrocio di varietà. Darcy ci ricorda che anche in tempi di grandi
avversità, come quello attuale, ci possono essere delle compatibilità, anche se
può sembrare troppo utopico.
A.M.: Salutateci con una citazione…
Fondazione Darcy Ribeiro: Considerando che l'opera Utopia
Selvagem: saudades da inocência perdida: uma fábula si riferisce a vari
intervalli di tempo − il periodo storico della conquista dell'America da parte
di spagnoli e portoghesi, così come i decenni del 1960 e il 1970 (gli anni
sotto la dittatura in Brasile) e il periodo della guerra fredda, trovo la
riflessione sulla cultura presente in Os brasileiros: 1. Teoria do Brasil di
estrema importanza. In questo senso, richiamo l'attenzione sul passaggio:
"In determinate condizioni catastrofiche − come
sconfitte in guerre, ecatombe o conquiste − i mezzi attraverso i quali le
culture si esprimono possono essere ridotti a livelli minimi. Tali
vicissitudini a volte causano traumi così profondi a una cultura che la
condannano alla scomparsa. Tuttavia, poiché ogni uomo è sempre essenzialmente
un essere culturale, un detentore della tradizione che lo ha reso umano, la sua
cultura sparirà solo se gli sarà impedito di trasmetterlo socialmente ai suoi
discendenti. " Darcy Ribeiro, 1985, p.128
A.M.: Vi ringrazio per questa bella chiacchierata e
per l'importante lavoro che svolgete con la Fondazione Darcy Ribeiro. Saluto
con le parole di Antonio Gramsci: "Cultura non è possedere un magazzino
ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere
la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha
cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti
gli altri esseri."
Written by Alessia Mocci
Traduzione in lingua italiana di Claudio Fadda
Info
Sito Negretto Editore
http://www.negrettoeditore.it/
Facebook Negretto Editore
https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/
Acquista “Utopia selvaggia”
https://www.ibs.it/utopia-selvaggia-saudade-dell-innocenza-libro-darcy-ribeiro/e/9788895967356
Sito Fundação Darcy Ribeiro
https://www.fundar.org.br/
Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/05/28/intervista-di-alessia-mocci-alla-fondazione-darcy-ribeiro-per-luscita-della-nuova-traduzione-italiana-di-utopia-selvaggia/
Iscriviti a:
Post (Atom)