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Mi prende d’amore una forma di Nadia Alberici: la postfazione dell’editore Silvano Negretto


Poesia/ mi avvolge sottovoce mi parla/ Vibra/ fino a sfibrare le corde sottese/ Accende/ fuoco o luce o caldo emisfero/ Parla/ con le mani e la bocca/ Trascende/ corpo in primavera/ Rinasce/ di vita una stilla/ Riprende

Le Domande sulla Vita, sul Bene o sull’Amore?

Nadia indaga il senso delle proprie emozioni qui e ora, delle sensazioni di questa notte, dell’amore in determinati momenti di attesa, di fuggevoli inquietudini o illusioni.

La sua poetica, proprio per questi limiti posti a ogni speculazione metafisica, risponde per altre vie, stimolanti quanto originali, a quei perenni quesiti, mai risolti né risolubili sul piano concettuale.
In queste poesie, mai troviamo il lamento, ma sempre una vitalità pensosa, inquieta, non rammaricata del passato, e invece sorpresa del mistero, dell’ineffabile. Le parole non bastano mai, anche se aiutano, per rispondere ai nostri dubbi; e il dubbio non è mai sofferenza, è presa d’atto cosciente della misteriosa bellezza della Materia o Natura vivente di cui Nadia si sente parte.

L’anima, anche quando appare sconvolta dalle emozioni, anche quando rischia di “perdere il senso”, trova stabilità nella “terra inerte”, nella natura stabilmente viva, nella quale con meraviglia siamo immersi. Nelle poesie d’amore, prevale l’osservazione realistica dell’ambiguità del vivere, positivamente vissuta nella cruda quanto “vellutata” memoria delle piacevoli, inquietanti, “vibrazioni” della carne.

Il faticoso percorso del soggetto pensante, quando si fa accettazione cosciente dell’altro da sé (oggetti eventi passioni), trova un sicuro punto d’approdo nel permanere, forte e sempre vigile, di memorie personali depurate da ogni eccesso passionale, quasi fossero osservate dall’esterno.
Nadia evita in modo deliberato ogni intima “confessione”, troppo spesso in molti altri autori dilatata e compiaciuta, che può infastidire il lettore più esigente: il suo percorso di studio e pratica letteraria è pluridecennale; e in questi ultimi anni si è concentrata sul linguaggio, che si presenta ora asciutto, scarno quanto intenso, a volte inquietante, quasi sempre sorprendente nell’uso inedito di metafore metonimie e sinestesie…

L’uso di figure retoriche non è didascalico né forzato: l’Autrice riesce a raggiungere quella sintesi di esperienza vissuta e di controllo della razionalità cosciente, che i filosofi dell’arte poetica – da Aristotele a Kant – individuarono come condizione necessaria di una poesia che ambisca ad essere “universale”.

Il poeta si imbatte, più volte, nella scoperta del mistero, dell’ineffabile senso del vivere quotidiano. Sebbene parli soprattutto delle cose, degli elementi immobili o viventi della natura, non è su quelli che Nadia focalizza il suo sguardo poetico.

Il suo è infatti uno sguardo interiore, e la suggestione dei suoi versi sta nell’allusione a un “altrove” che solo nel silenzio – fuori da quel mondo comunicativo “commerciale” che Heidegger chiamava “la chiacchiera” – può cominciare a svelarsi come Verità.

Per certi pensatori, Heidegger e Lévinas ad esempio, è l’indicibile che costituisce l’obiettivo proprio della filosofia: mentre il silenzio è la condizione necessaria, per la poesia, di parlare dell’indicibile. Se mancasse il silenzio, la poesia si ridurrebbe a un semplice divertente inutile gioco.
Alcuni grandi classici della letteratura, come Leopardi o Baudelaire, o un uomo del Novecento come Pavese, hanno sottolineato questo lato originale quanto essenziale del lavoro poetico: dagli oggetti ed eventi naturali o umani, persino dai sentimenti o movimenti dell’anima, il poeta parte per guardare al di là di questi.

Le immagini suggestive, quasi sempre inedite, di cui Nadia felicemente si avvale, nascono proprio da questo sguardo che cerca l’altrove, e che sperimenta il dolce naufragio – di leopardiana memoria – di ogni parola comune, ovvero del banale ripetitivo ambito della comunicazione intersoggettiva o sociale quotidiana.

La Verità dell’indicibile è così misteriosa e suggestiva perché si nasconde “dis-velandosi” solo nel linguaggio creativo del poeta: molto più che nel discorso argomentativo sillogizzante delle scienze e della filosofia.

Non pretendevo esaurire in queste mie scarne considerazioni l’intero percorso poetico di Nadia Alberici.

Era soltanto mia intenzione evidenziare i motivi che mi hanno indotto a pubblicare, come un dono che l’editore fa ai suoi lettori, la recente produzione di questa Autrice: una voce sincera e fuori dal coro, della quale sono convinto che sentiremo parlare anche in futuro.

Concludo con un recente inedito di Nadia Alberici, tratto dal suo blog Forse Poesia:
Pochi passi stamane in questo legame di cielo/ e strade/ Letture di poesie smuovono occhi e grovigli/ Ho nuotato senza saper nuotare/ E prostrata sono rimasta in questo lago/ Quasi senza vestiti/ Non importa, mi farei lisciare le ossa/ da questo mondo che non serve a nulla/ Se bevo poesia.‒ “Se bevo Poesia”

Written by Silvano Negretto

Info
Blog Nadia Alberici
https://sibillla5.wordpress.com/
Sito Negretto Editore
http://www.negrettoeditore.it/
Acquista “Mi prende d’amore una forma”
https://www.ibs.it/mi-prende-d-amore-una-forma-libro-nadia-alberici/e/9788895967318
Recensioni “Mi prende d’amore una forma”
http://oubliettemagazine.com/tag/nadia-alberici/
Facebook Negretto Editore
https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/
Sito Odori Suoni Colori
http://www.odorisuonicolori.it/

Fonte
http://oubliettemagazine.com/2018/10/23/mi-prende-damore-una-forma-di-nadia-alberici-la-postfazione-delleditore-silvano-negretto/

Intervista di Alessia Mocci a Cinzia Migani, autrice del saggio Memorie di Trasformazione. Storie da Manicomio


[Erano gli anni dell’applicazione della Legge Basaglia.] Ero decisamente attratta dalle storie di superamento istituzionale che venivano trasmesse nella tv di stato, rese pubbliche da psichiatri, sociologi e cittadini impegnati a mettere in evidenza la decadenza di quella cultura che aveva tracciato la linea di confine tra la società dei sani e quella dei folli, fra il normale e il patologico.” Cinzia Migani

Il primo settembre 2018 è stato pubblicato dalla casa editrice mantovana Negretto Editore un saggio frutto di trent’anni di ricerca: “Memorie di Trasformazione. Storie da Manicomio”.

La pubblicazione è suddivisa in tre sezioni: Storia del manicomio di Bologna nell’ultimo trentennio dell’Ottocento” che presenta gli studi sopracitati dell’autrice coadiuvata dal professor Ferruccio Giacanelli; “Prime soluzioni al sovraffollamento dei manicomi” che presenta la pazzia ai tempi del positivismo con schede di approfondimento di Cesare Moreno, Maria Augusta Nicoli ed Andrea Parma; “Storie da manicomio” che racconta le vite di tre persone che hanno vissuto fin troppi anni in questi istituti.

L’autrice, Cinzia Migani, si occupa dal 1990 di progett-azione sociale con particolare attenzione alle reti di volontariato contro l’esclusione sociale.

È stata responsabile dell’Area Salute Mentale dell’Istituzione G.F. Minguzzi della Provincia di Bologna dal 1998 al 2000, successivamente e sino al 2009 ha ricoperto la posizione di Responsabile dell’Area Ricerca ed Innovazione Sociale e Responsabile di “Aneka. Servizi per il benessere a scuola”. Dal 2010 collabora con A.S.Vo che gestisce VolaBo, il centro di servizio della città metropolitana di Bologna, in veste prima di coordinatrice e poi di direttora di VolaBo.

Ha curato la pubblicazione di libri sul disagio scolastico e sulla salute mentale per la Carocci Editore e dal 2008 collabora con la Negretto Editore per la quale ha portato a termine lavori come “Follia gentile. Dal manicomio alla salute mentale”, “Il Teatro illimitato. Progetti di Cultura e Salute mentale”, “Dire Fare Donareed il progetto di cui parleremo in questa intervista “Memorie di Trasformazione. Storie da Manicomio”.

A.M.: Buongiorno Cinzia, sono lieta di poter tracciare con te una linea guida di questa nuova pubblicazione edita dalla casa editrice mantovana Negretto Editore. “Memorie di Trasformazione. Storie da Manicomio” è disponibile nelle librerie dal primo settembre. Ha ricevuto una buona accoglienza dai tuoi colleghi?
Cinzia Migani: Contrariamente a quanto pensassi sin dal primo momento in cui è uscita la notizia che stava per essere pubblicato il libro “Memorie di Trasformazione. Storie da Manicomio” ho ricevuto richieste di informazioni: dichiarazione di interesse alla lettura del libro. E dire che eravamo prossimi alle vacanze. Alcune di queste persone fanno parte di gruppi fortemente interessate al tema per motivi di lavoro, altre per motivi civici e per sostenere il diritto alla cura delle persone con sofferenze mentali. Ma diverse sono state anche le dichiarazioni di interesse da parte di persone appartenenti alla mia cerchia di parenti, amici o persone prossime a me per le ragioni più diverse. Tre persone, decisamente diverse una dall’altra, più di altre mi hanno sorpreso positivamente per la passione usata nel dirmi che stavano leggendo con interesse il testo. Sento ancora brividi di emozione ripensando a come mi hanno detto che stavano leggendo il libro, perché i contenuti delle loro riflessioni mi hanno permesso di comprendere che forse era una lettura adatta anche per coloro che non sono esperti del settore. Si tratta di mia nipote che per la prima volta ha dichiarato interesse verso un mio scritto; di un noto psichiatra fortemente impegnato nel qui ed ora, attento a promuovere organizzazioni capaci di agire percorsi di salute individuali e azioni per sviluppare comunità competenti e in salute mentale. Dopo averlo letto, mi ha scritto: “Appena ricevuto, l'ho sorvolato come mi invitavi a fare, ma non ho resistito a perdermi nelle pagine, dense di storia e di storie. Cosa ancora più preziosa per chi come me crede non sia possibile alcuna innovazione, alcun progresso, senza una profonda conoscenza delle traiettorie individuali e collettive che ci hanno condotto al momento attuale. Ed infine, di una esperta di sviluppo di reti sociali così esperta da poter essere identificata, nonostante la giovane età, con l’archetipo della rete. Con lei condivido alcuni percorsi di lavoro nel volontariato. Mi ha scritto che aveva letto il libro in vacanza e che il libro l’aveva emozionata e arricchita tantissimo.

A.M.: Com’è nato il tuo interesse per il Manicomio di Bologna?
Cinzia Migani: Il mio interesse per le istituzioni totali nasce negli anni del liceo. Gli anni successivi all’applicazione della legge 13 maggio 1978, n. 180, in tema di "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. La cosiddetta Legge Basaglia. Ero decisamente attratta dalle storie di superamento istituzionale che venivano trasmesse nella tv di stato, rese pubbliche da psichiatri, sociologi e cittadini impegnati a mettere in evidenza la decadenza di quella cultura che aveva tracciato la linea di confine tra la società dei sani e quella dei folli, fra il normale e il patologico. Ma erano anche gli anni in cui alcuni famigliari denunciavano che erano stati abbandonati con i loro cari dimessi di forza dai manicomi o che non sapevano a chi chiedere aiuto quando un proprio caro stava male. Troppe cose che stavano accadendo accanto a me continuavano a risuonarmi. Diverse le domande senza risposta o gli interrogativi alimentati sia da chi era a favore sia da chi metteva in discussione la riforma. Chi aveva ragione? C’era una ragione più ragionevole delle altre? 
Una tarda serata di un mese invernale del 1980 stavo guardando in televisione un servizio di Sergio Zavoli. Ero incollata. Denunciava con vigore il confine assurdo che si era instaurato fra la città dei cosiddetti sani e quella dei malati di mente. Ricordo ancora mia madre che si alzò dal letto e mi intimò di andare a letto perché il giorno dopo dovevo andare a scuola.  Aggiunse che quello che stavo vedendo in televisione avrebbe popolato di incubi il mio sonno.  Non l’ascoltai e a quel punto lei scelse di rimanere vicino a me. Alcune esperienze di sofferenza raccontate dalle persone intervistate le sembravano rimarcare la distanza fra chi sta bene e chi sta male. Non sapeva o non voleva sapere che alcune testimonianze non erano così lontane da alcune sue esperienze di vita: lei aveva provato sulla pelle cosa significasse passare da espansioni vitali a fatica di vivere.
Non le dissi che non erano le immagini a turbarmi, ma le ragioni per le quali le persone finivano lì. Compresi in quel momento perché si evitava di approfondire l’argomento quando qualcuno diceva che il proprio familiare “era stato ricoverato a Imola”. All’indomani andai a scuola e iniziai a fare una serie di domande alla mia professoressa di filosofia, la professoressa Isa Valbonesi. Mi consigliò di leggere un libro che ancora conservo: “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane” a cura di Aldo Gargani del 1979. La mia ricerca è continuata anche all’università. Diversi gli esami messi in programma per approfondire le tematiche del rapporto esistente fra normale e patologico, fra gli scritti più frequentati quelli di Husserl, Bergson, Minkowski e Merleau-Ponty. L’epilogo di quella fase e l’inizio di un modo altro di affrontare la questione avvenne qualche mese dopo l’ottenimento della laurea in filosofia. Grazie a un suggerimento di un compagno di corso seppi che a Bologna esisteva il Centro di studio e di documentazione della storia della psichiatria e della emarginazione sociale, oggi Istituzione G. F. Minguzzi della Città metropolitana di Bologna. Il Centro era locato all’interno delle mura manicomiali e in quegli anni aveva posto fra i temi centrali da indagare la storia dell’istituto manicomiale di Bologna. Ed è così che è nato il mio rapporto con Giacanelli, con gli archivi manicomiali, con gli altri studiosi del Centro (in particolare Augusta Nicoli e Santa Iachini), le persone che vivevano ancora dentro l’ospedale psichiatrico e i loro amici e familiari. Ci capitava spesso di condividere con loro i luoghi di ristoro: il bar e la mensa dell’ospedale psichiatrico. Luoghi la cui convivenza era semplificata da persone come Adelfina, che facevano ponte fra noi del Centro, gli infermieri e i pazienti. Passavo ore a leggere e schedare documenti di archivio, o a discutere con Giacanelli e Iachini su come articolare la ricostruzione storica del manicomio di Bologna e delle persone che vivevano dentro, e alla cultura scientifica del tempo.

A.M.: Il 13 maggio 2018 c’è stato il quarantennale della Legge Basaglia che ha decretato la chiusura dei manicomi. Qual è, dunque, l’intento di “Memorie di Trasformazione”? Oltre all‘aver pubblicato un eccellente saggio che documenta la nascita dei manicomi sino alla loro chiusura, quale messaggio hai veicolato nel libro?
Cinzia Migani: Grazie per la sua gradita valutazione, da tempo ho imparato ad apprezzare i suoi interventi seguendo la pagina web di Oubliette Magazine. Il messaggio principale che ho voluto veicolare ripartendo da ricerche del passato sul passato della storia manicomiale ricostruito con Ferruccio Giacanelli è stato quello di richiamare l’attenzione su un mondo in trasformazione che rischia di intraprendere derive pericolose, quelle che portano a dividere le persone creando barriere culturali e a costruire muri di separazione.

A.M.: Nella prima sezione del libro, “Storia del manicomio di Bologna nell’ultimo trentennio dell’Ottocento”, ed esattamente nel quinto capitolo “La cultura psichiatrica all’interno del manicomio” tracci alcune citazioni d Francesco Roncati. Troviamo tratto da “Ragioni e modi di costruzione ed ordinamento del Manicomio di Bologna” del 1891: “[…] un Manicomio bene costruito ed ordinato forma già per sé uno strumento massimo di cura della pazzia.”.
Cinzia Migani: Era opinione diffusa nella seconda metà dell’800 che chi soffrisse di disagio mentale potesse trovare riparo nel manicomio, un luogo caratterizzato dallo svolgersi di una vita ordinata, da una alimentazione curata e separata dal mondo, dalle persone e dalle loro contraddizioni. Roncati interpretava con vigore quella credenza. Lui stesso scelse di rinchiudersi in manicomio, visto che passò la vita fra quelle mura. Di robusta formazione igienista, attento alle condizioni ambientali in cui viveva la maggior parte della popolazione era fortemente convinto che il ricovero in manicomio rappresentasse la soluzione più adeguata per chi perdeva la ragione. Credeva infatti che a causare molte forme di pazzia fossero la malnutrizione e le pessime condizioni igieniche in cui erano costretti a vivere le persone.  Questa credenza, che trovava riscontro negli ambienti accademici e amministrativi dedicati alla questione igienica in città, lo portò ad investire tutte le sue risorse e competenze sulla tecnica manicomiale e sulla gestione degli spazi e delle risorse umane che lo popolavano, anticipando così l’odierna deriva aziendalistica. Passò ore a studiare come garantire ordine e igiene, a ideare stratagemmi per occultare lo sguardo delle persone cosiddette “sane” da quelle dei malati e viceversa, a studiare diete alimentari, a imporre regole per impedire al malato di scappare o di disturbare la quiete. Passò ore in buona sostanza a occuparsi del corpo del malato, dimenticandosi di occuparsi della sua “testa”.

A.M.: Vorrei riprendere una tua accattivante domanda per riuscire ad aver una spiegazione sul pericolo che si correva in Italia ed in Europa in quel periodo. “Quale virus contagiò la popolazione italiana in quegli anni, visto che mano a mano che passavano i giorni le persone sembravano essere sempre più insane di mente?
Cinzia Migani: L’unico vero pericolo che corse in quegli anni la popolazione italiana fu quello di soccombere alle disuguaglianze economiche, all’esigenza di mantenere l’ordine sociale e alla volontà di potere degli specialisti.

A.M.: Cesare Moreno, Maria Augusta Nicoli ed Andrea Parma partecipano nella seconda sezione del saggio, “Prime soluzioni al sovraffollamento dei manicomi”, con schede di approfondimento dei temi trattati. Quand’è nata la tua collaborazione con loro?
Cinzia Migani: L’incontro è avvenuto in contesti diversi e per ragioni diverse. Cesare Moreno è parte di una fase molto importante della mia vita professionale: quella centrata in cui mi sono occupata con intensità di benessere a scuola con Valentina Vivoli, che ha curato la postfazione del libro. Un periodo che trova la sua origine a seguito di un episodio complesso registratosi in un famoso liceo classico di Bologna, un episodio descritto nel libro Dal disagio scolastico alla promozione del benessere pubblicato nel 2005. Cesare ci permise di cogliere il valore dell’esperienza pedagogica che punta sul protagonismo dei ragazzi valorizzando le risorse della comunità o costruendo le condizioni perché gemmino possibilità di contesto là dove ci sono solo fatiche, deprivazioni e risorse. Ci fece toccare con mano come molti ragazzi avevano deviato il proprio percorso di vita destinato al fallimento, attraverso il sostegno di “maestri di strada”, “volontari” e in senso lato tutti coloro che volevano investire sull’attivazione di percorsi di resilienza ed empowerment sociale.
Con Augusta ho condiviso anni intensissimi fra il 1990 e il 2001. Insieme a Gino Pellegrini (scenografo e pittore) e la sua compagna e preziosa collaboratrice Osvalda Clorari, a tecnici della salute mentale, uomini e donne di cultura e istituzioni abbiamo ideato il Progetto Vita da Pazzi. Mostre film e dibattiti sulla salute mentale per contrastare il pregiudizio delle persone che ancora aleggiava su chi soffriva di disagio mentale, per avvicinare le persone alle tematiche della salute mentale e ai servizi, per avvicinare il mondo del volontariato e civile ai servizi e alle associazioni di familiari o per favorire lo sviluppo dei gruppi di auto-aiuto. E lei che mi ha portato a interessarmi di psicologia di comunità e che mi consentito di arricchire la mia cassetta degli attrezzi per occuparmi di sociale.
L’incontro con Andrea Parma è avvenuto all’interno del progetto Teatro e Salute mentale promosso dall’Istituzione G. F. Minguzzi della Città metropolitana di Bologna e la richiesta di un contributo è stata casuale. Parlando del testo che stavo scrivendo mi ha detto che era interessato alla storia dei luoghi manicomiali e che stava facendo una ricerca su un manicomio delle Marche. Mi è sembrato un segno del destino per mantenere viva la fiammella che anima la memoria attiva sulle ragioni per le quali si è lottato a favore della chiusura dei manicomi e per non dimenticare che le derive sono sempre possibili. 

A.M.: Nella terza sezione del saggio, “Storie da Manicomio”, hai scelto di parlare di tre persone che hanno vissuto in manicomio: Filippo Manservisi, Gaetano Emiliani ed il piccolo Umberto Rossi. Perché proprio loro tre? E quanti nomi hai visto sparire dagli archivi?
Cinzia Migani: Le tre testimonianze le ho scelte per la specificità della loro storia e per i sentimenti e le emozioni che mi avevano attivato quando le ho rinvenute in archivio. La storia di Filippo l’avevo incrociata ai tempi della realizzazione di una dell’edizione della mostra Vita da Pazzi e discusso con Gino e Osvalda che hanno curato la scenografia e l’allestimento di tutte le mostre Vita da Pazzi. Il materiale rinvenuto nell’archivio sanitario del Manicomio di Imola non era adatto per una esposizione scenografica. Continuai a cercare materiale. Ne ho rintracciato così tanto negli archivi storici di Bologna che oggi si potrebbe pensare una sezione espositiva solo per la sua storia. Ho ripreso in mano la sua storia alcuni anni fa in concomitanza con la denuncia degli scandali bancari e la lettura del testo di Marco Revelli, “Non ti riconosco”. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia, che mette in evidenza gli scempi ambientali e sociali compiuti in nome dello sviluppo. E ho capito che era ora di raccontarla.
La storia di Gaetano mi ha accompagnato dal primo momento che ho iniziato a occuparmi della storia del complesso manicomiale di Imola. L’ho rinvenuta in archivio agli inizi degli anni ’90. In quegli anni era vivacissimo il movimento di famigliari, volontari e cittadini a favore del superamento manicomiale. Cittadini, come Marta Manuelli, avevano scelto di rappresentare le istanze delle persone che erano state rinchiuse in manicomio per decenni che cercavano di riappropriarsi della propria vita con il sostegno del servizio ma non avevano nessun parente pronto a farsi carico di loro. Marta si fece parte in causa nell’apertura dell’Associazione Cà del Vento, una casa che è stata aperta per accogliere le persone dimesse dal Manicomi. Sono proprio loro, i residenti, che decidevano ieri come oggi come gestire la casa, cosa mangiare, come gestire il tempo. Differentemente dalle sorti dei residenti di Cà del Vento, Gaetano era possidente e aveva famiglia. Ma né la sua famiglia né i medici né le associazioni di famigliari o di volontariato coltivarono il sogno di ridargli la libertà. Ed ha passato così più di 40 anni in manicomio. Fa male vedere che prevalgono le annotazioni amministrative su quelle sanitarie nel suo fascicolo sanitario.
Ed infine la storia di Umberto, il bambino figlio della povertà. Questa storia è fortemente impressa nella mia mente e guida ancora oggi il pensiero che anima alcune mie azioni a supporto di progetti di contrasto contro l’esclusione sociale.
Ho scelto queste tre storie fra le tante incontrate, esaminando a tappeto tutti i documenti di archivio presenti nel titolo 7/4 dell’Archivio della provincia di Bologna e la corrispondenza della Direzione e dei Pazienti del Manicomio di Bologna dal 1860 al 1907 nonché i documenti sanitari dei due manicomi di Imola e le perizie cliniche. Alcune storie le ho seguite negli anni, come quella di Luigi Veronesi. Il suo caso è descritto in Storia da un manicomio. Vita e vicende di un birocciaio bolognese del XIX secolo, saggio scritto con Di Diodoro, Ferrari, Giacanelli e Iachini del 1997.  La sua storia, caratterizzata da 35 ricoveri in manicomio, susseguitasi tra il 1857 e il 1890, è particolarmente interessante. Permette di seguire il periodo durante il quale si susseguiranno importanti avvenimenti che porteranno alla nascita della psichiatria bolognese ma anche il diverso comportamento degli amministratori dell’epoca verso un “alcolista” con tendenze anarchiche. A seconda del periodo gli effetti delle sue bevute saranno contenute in manicomio o in galera.

A.M.: Hai in programma presentazioni per “Memorie di Trasformazione”?
Cinzia Migani: Recentemente, il 2 ottobre, ho presentato il libro presso la Biblioteca comunale di Imola. Una scelta di cuore. Non poteva che iniziare a Imola il ciclo della presentazione del libro. Il luogo dove ho fatto la mia prima relazione pubblica sui temi di storia delle istituzioni manicomiali, nel 1992. Ma anche il luogo che ha scelto di aprire con la presentazione del libro la manifestazione di Oltre la siepe - La salute mentale è un diritto di tutti: anche il tuo! Una manifestazione fatta e voluta da cittadini, volontari, associazioni di familiari e utenti e operatori della salute e della cultura. Agli inizi di novembre il libro sarà presentato a Bologna, e il 21 dicembre a Taranto.

A.M.: Come ti trovi con la casa editrice Negretto Editore? La consiglieresti?
Cinzia Migani: Sì, la mia opinione non è mutata da quanto dissi che consiglio questa casa editrice in occasione dell’intervista che le ho rilasciato in occasione della recente pubblicazione “Dire Fare Donare. La cultura del dono nelle comunità in trasformazione”.

A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Cinzia Migani: “L'importante è che abbiamo dimostrato che l'impossibile può diventare possibile. Dieci, quindici, venti anni addietro era impensabile che il manicomio potesse essere distrutto. D'altronde, potrà accadere che i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi ancora di prima, io non lo so! Ma, in tutti i modi, abbiamo dimostrato che si può assistere il folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che essere riusciti a condurre una azione come la nostra sia una vittoria definitiva. L'importante è un'altra cosa, è sapere ciò che si può fare. È quello che ho già detto mille volte: noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere. È il potere che vince sempre; noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare.‒ Franco Basaglia in Conferenze brasiliane, 1979

A.M.: Cinzia ti ringrazio vivamente per il tempo che hai dedicato a questa nostra intervista. In chiusura invito i lettori a prendere in mano “Memorie di Trasformazione” perché ritengo sia non solo un saggio utile agli addetti ai lavori ma anche a coloro che promuovono un’azione sociale per il rispetto dei diritti dell’essere umano. Saluto con le parole del filosofo francese Montesquieu (La Brède, 18 gennaio 1689 – Parigi, 10 febbraio 1755): “Si chiudono alcuni matti in una casa di salute, per dare a credere che quelli che stanno fuori sono savi” e con una possibile risposta dello psichiatra Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924 – Venezia, 29 agosto 1980): “Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata […] Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone”.

Written by Alessia Mocci
Ufficio Stampa Negretto Editore

Info
Sito Negretto Editore
http://www.negrettoeditore.it/
Acquista “Memorie di trasformazione”
https://www.libreriauniversitaria.it/memorie-trasformazione-storie-manicomio-migani/libro/9788895967349
Comunicato Stampa “Memorie di Trasformazione”
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Facebook Negretto Editore
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Sito Odori Suoni Colori
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Fonte
http://oubliettemagazine.com/2018/10/16/intervista-di-alessia-mocci-a-cinzia-migani-autrice-del-saggio-memorie-di-trasformazione-storie-da-manicomio/


Intervista di Alessia Mocci a Luc Vancheri: la pubblicazione italiana del saggio francese Cinema e Pittura


Come ogni evoluzione tecnologica, la computer graphics ha sconvolto l’economia delle immagini sostituendo un medium a un altro. Il passaggio dall’analogico al digitale ha profondamente turbato il modello ontologico dell’immagine fotografica – alcuni vi hanno visto una morte del cinema, prima che i cineasti stessi si siano messi a pensare i loro film a partire delle possibilità del digitale – ma ha anche liberato delle potenze plastiche fin ad ora inaccessibili.‒ Luc Vancheri

Pubblicato nel 2007 dalla casa editrice francese Armand Colin, “Cinema e pittura” è stato diffuso in Italia il 30 giugno 2018 con la casa editrice Negretto Editore per la collana editoriale Studi cinematografici, diretta dal prof. Alberto Scandola, docente di Storia e Critica del Cinema presso l’Università di Verona. 

L’autore, Luc Vancheri, è docente di Studi Cinematografici nel dipartimento di Cinema e Studi Audiovisual presso l’Università Lumière di Lione.

Il saggio, con progetto grafico di Ornella Ambrosio, si presenta in copertina con un fotogramma del film del grande regista francese Jean-Luc Godard “Passion” (1982) che presagisce la posizione avanguardistica del suo contenuto.

Suddiviso in quattro capitoli, “Cinema e Pittura” è composto di tre parti fondamentali dedicate alla questione dell’estetica, della poetica e di analisi ‒ plasmate dal confronto fra l’immagine e l’arte ‒ che aprono lo sguardo verso la letteratura, lo studio teorico e l’analisi filmica.

Dando alla metafisica il senso stesso della sua storia e quasi l’immagine del suo ribaltamento, il nichilismo di Nietzsche ha lasciato aperta all’artista (l’artista-filosofo chiamato ad essere il medico della civiltà) la possibilità di essere nel pensiero così come nell’opera, anche se Heidegger si sente ancora troppo debole per assumere «che davvero un dire poetico possa essere anche l’opera di un pensiero». Poiché Nietzsche considera l’arte «il grande stimolante della vita» (Af. 851, 1888) e il valore supremo, di questo privilegio costante dell’artista rispetto alla vita permane l’affermazione di un regime del soggetto e dell’arte che non può ridursi alle sole regole e maniere, e quasi lo sviluppo di un’affermazione vitale dell’opera, vale a dire che essa è effettivamente connessa agli stati fisici, agli stati creatori dell’artista.” ‒ “Cinema e Pittura”

Il Professor Luc Vancheri si è mostrato molto disponibile nel rispondere ad alcune domande di presentazione dei concetti esposti sul saggio “Cinema e Pittura”. L’intervista è stata redatta in francese con traduzione in lingua italiana di Francesca Capasso.

A.M.: Professor Vancheri sono lieta di presentarla ai lettori italiani con questa intervista. Come prima domanda mi piacerebbe che ci raccontasse di com’è nata la passione per il cinema, se da ragazzo o da adulto.
Luc Vancheri: Come molte persone della mia generazione vengo dalla cinefilia, cioè un’epoca in cui si scopre il cinema nelle cinemateche e nei cinema d’essai. Ad ogni modo, quando iniziai a interessarmi al cinema, alla fine degli anni ’70, la tradizione critica dei Cahiers du Cinéma e di Positif non è più sola, ma è accompagnata ormai da una teorizzazione sul cinema influenzata dalle scienze umane. Dal lato della critica, sono stato segnato dal pensiero di André Bazin e della nuova guardia dei Cahiers che avrebbe poi formato la Nouvelle Vague (Godard e Truffaut che sono stati dei critici estremamente brillanti, ma anche Rohmer e Rivette). Tuttavia, sono stato particolarmente sensibile al momento politico dei Cahiers dopo il maggio sessantotto e alla radicalità teorica di una critica militante. Alla fine degli anni ‘70, quando Daney e Toubiana operano quello che si chiama il ritorno al film, comincio a misurare la complessità del cinema come fatto estetico e sociale. Sotto il profilo teorico, se in Francia, alla fine degli anni ’60, la letteratura accademica sul cinema resta ancora influenzata dalle opere-somma di Sadoul e Mitry, le cose cambiano all’inizio degli anni ‘70 con i lavori ispirati dallo strutturalismo, dalla semiologia e dalla psicanalisi. Vengo così influenzato da Christian Metz e i suoi lavori sul linguaggio cinematografico (Il significante immaginario, 1977) che diedero un impulso essenziale al pensiero teorico, ma anche dai primi libri di Pierre Sorlin (Sociologia del Cinema, 1977), da Raymond Bellour sul cinema americano (1980), Jean-Louis Schefer sulla condizione dello spettatore (L’uomo comune del cinema, 1980) e da Pascal Bonizer sulla forma filmica (Il campo cieco, 1982). Inoltre, alla fine degli anni ’70, ha luogo il rinnovamento della storia cinematografica (Congresso di Brighton, 1978) che fa posto al “cinema dei primi tempi”. Vari fenomeni cambiano il mio rapporto col cinema, che da cinefilia diventa ricerca universitaria. La creazione del primo dipartimento di studi cinematografici in Francia alla Sorbonne Nouvelle nel 1969 segna un cambiamento decisivo nella maniera in cui il cinema sarà ormai pensato. Come è stato già osservato da Francesco Casetti (Teoria del Cinema, 1993), il cinema è ormai oggetto di un triplo investimento. È accettato come fatto di cultura divenuto finalmente legittimo; è sottoposto ad una specializzazione del discorso che subisce l’influenza delle scienze umane; e, infine, il fenomeno si diffonde su scala internazionale. Paradossalmente, non sono mai stato tentato dalla critica cinematografica, poiché fin da subito attirato dal versante teorico. Questo forse è dovuto alla mia formazione universitaria dove si affiancano filosofia, storia dell’arte e letteratura moderna. I miei primi testi sono quindi fin da subito analitici e teorici. Il mio primo saggio sul cinema Figurazione dell’inumano (1992), edito dal Presses Universitaires Vincennes nella collezione Hors Cadre diretta da Marie-Claire Ropars, è dedicato alle possibilità plastiche della figurazione umana nel cinema. Non mi sono mai allontanato da questo approccio ragionato al cinema: il mio ultimo libro, edito presso le Presses Universitaires de Rennes in questo mese di agosto, Le cinéma ou le dernier des arts, presenta un panorama storico dedicato alla maniera in cui il significante cinema è stato risemantizzato dalla teoria nel corso della sua breve storia. È chiaro come io abbia conservato lo stesso gusto per la teoria.

A.M.: La copertina del saggio “Cinema e Pittura” omaggia il film del 1982 “Passion” di uno dei più grandi registi francesi Jean-Luc Godard. Film che ritroviamo esaminato nel quarto capitolo con il sottotitolo: “l’elogio dei classici”. Possiamo affermare che ancora oggi Godard non è stato superato in quanto a ricerca estetica in connessione con la settima arte?
Luc Vancheri: Jean-Luc Godard è innanzi tutto un modello e un mito. La sua opera, che è al tempo stesso critica, teorica e filmica, costituisce, per portata storica, per profondità estetica ed esistenziale, per forza audiovisiva (È uno dei rari cineasti ad aver fatto del rapporto tra questi il punto di partenza di una teoria politica del cinema durante il periodo del gruppo Dziga Vertov) e per potenza teorica (penso alle Histoire(s) du Cinéma) un’opera totale senza pari. Con Eisenstein, Vertov, Welles, Pasolini, Tarkovski, appartiene a quella cerchia di rari artisti che hanno pensato il cinema come un fatto di civiltà al quale hanno attribuito un messianismo estetico e politico, cosa che non ha comunque evitato un profondo pessimismo, come per Pasolini alla fine della sua vita. I film di Godard hanno, del resto, raccontato i momenti essenziale della seconda metà del XX secolo, sono stati sintomi delle metamorfosi culturali e politiche che hanno scandito questo pezzo di storia. Prendiamo, ad esempio, Le Petit Soldat sulla guerra di Algeria, o La Chinoise, che anticipa la svolta rivoluzionaria del Maggio ’68, o Je vous salue, Marie, che riprende la problematica religiosa della società occidentale, etc. Tuttavia, il suo rapporto con l’arte è largamente preparato dal classicismo degli anni da critico ai Cahiers – lo si è dimenticato, ma i primi riferimenti sono a Poussin, Crébillon, e Madame Lafayette, come si è dimenticato che a quell’epoca Godard non esitava a definire anticinematografica la modernità di Bresson e Welles. Solamente più tardi farà posto alla pittura di Goya, Manet e Delacroix, che non cesseranno più di abitare la sua opera. Ma anche in questo caso i riferimenti teorici sono in fondo piuttosto classici. Jean-Paul Belmondo legge Elie Faure in Pierrot le Fou. Jacques Aumont ha del resto giustamente osservato che con Histoire(s) du cinéma, realizzato tra il 1988 a 1998, Godard diviene egli stesso l’Elie Faure del cinema. Il solo vero cambiamento consiste nel passaggio all’installazione e all’esposizione museale con Voyages en Utopie (2006) a lui commissionata da Domenique Païni per il Centre Pompidou. Agnès Varda, Claire Denis, Apichtpong Weerasethakul, Tsai Ming Liang, David Lynch, Abbas Kiarostami approdano tutti all’arte contemporanea e presentano delle installazioni in spazi museali. Vediamo allora come Godard sia stato un osservatore estremamente lucido: allo stesso tempo una Cassandra di un secolo traumatizzato dalle sue guerre e un infaticabile profeta della potenza redentrice del cinema.

A.M.: L’introduzione intitolata “L’arte alla prova del cinema” cita ampiamente “Blow Up” di Michelangelo Antonioni. Se ai primordi del cinema la contaminazione tra cinema italiano e cinema francese era estesa e proficua, come vede la situazione odierna?
Luc Vancheri: Blow up (1966) è un film paradossale, realizzato e prodotto da due italiani, Michelangelo Antonioni e Carlo Ponti, che è riuscito a imporre l’immagine della Swinging London degli anni 1960. Il film segna del resto una svolta nella carriera del regista che girerà quello successivo negli Stati Uniti (Zabriskie Point, 1970). Il modernismo colto di Antonioni incrocia la modernità della pop culture. Non dimentichiamo che fu lo studio di John Cowan, al 39 Prince’s Place, che servì da appartamento a Thomas, il personaggio interpretato da David Hemmings. Non dimentichiamo nemmeno il suo arredamento: delle poltrone di John Wright (Dodo Design), delle stampe di John Cowan, una tela di Alan Davie, Joy Joy Stick, un'altra di Ian Stephenson, Still Life Abstraction (1957). Antonioni non si accontenta semplicemente di ispirarsi alle fotografie di moda di David Bailey, Brian Duffy, Terence Donovan e David Montgomery per la seduta di shooting di Thomas; ha anche intuito che il cinema poteva essere l’arte che avrebbe documentato la rivoluzione culturale e artistica degli anni ’60. È precisamente quello che descrive Antonioni in un’intervista al giornale Playboy nel novembre del 1967, dove dichiara “tutto quello che so è che siamo schiacciati da un’accozzaglia di cose vecchie e logore – abitudini, costumi, attitudini radicate, già morte e passate. La forza dei giovani inglese in Blow Up risiede nella loro capacità di gettare a mare tutto ciò” (A candid conversation with Italy’s master of cinematic anomie). Quanto alle prime fotografie che Thomas porta al suo editore all’inizio del film, sono delle stampe di Don McCullin, Man about Time, che aveva realizzato un reportage fotografico sui poveri dell’East London nel 1961. Blow up non si è solamente imposto come l’emblema chic della pop culture (le modelle posano con vestiti di Courrège e Mary Quant) o come una reinterpretazione teorica della pop art; è riuscito a legare due fenomeni estetici differenti. Uno ha a che vedere con il vecchio conflitto fenomenologico tra fotografia e realtà, qui riletto a partire dai saggi sull’astrazione in pittura (a questo titolo Still Life Abstraction è proprio il doppione astratto della fotografia ingrandita nei dettagli di Thomas). L’altro verte sulla tensione etica che oppone i difensori dell’art pour l’art e i sostenitori di un’arte sociale e politica (si tratta di una ripresa della querelle estetica nata in Francia verso il 1830). Ciò che è interessante in tutto questo è il fatto che sia un erede del neorealismo a riprendere i fili di questa svolta estetica, fenomeno ben lontano dall’essere isolato visto che il giallo che nasce nella stessa epoca in Italia è inseparabile da una riappropriazione della pittura degli anni ’60. Mario Bava e Dario Argento non hanno semplicemente inventato un nuovo genere cinematografico, ma hanno profondamente rinnovato i rapporti tra pittura e cinema. Pauline Mari ha lasciato su questa questione un saggio importante alle Presses Universitaires de Rennes (Le Voyeur et l’Halluciné, 2018). È evidente che stiamo parlando di un film-manifesto che ha sintetizzato la sua epoca, un po’ come L’inumano di Marcel L’Herbier per gli anni venti, o Passione di Godard per gli anni ’80, o ancora Visage di Tsai Ming Liang per gli anni 2000. Questi film costituiscono un evento non soltanto perché sono riusciti a pensare visualmente la loro epoca, ma anche perché hanno identificato i problemi estetici che questa si pone.

A.M.: Sotto quali aspetti gli studenti che hanno seguito i suoi corsi presso l’Università di Lyon 2 hanno ispirato “Cinema e Pittura”?
Luc Vancheri: Questo libro che le Edizioni Negretto hanno appena tradotto è assai vecchio. L’ho scritto dieci anni fa e posso dire che costituisce la prima fase di un approccio teorico che ho poi portato avanti e arricchito con un approccio figurale e iconologico dell’immagine tipico dei miei ultimi libri. Se Les Pensées figurales de l’image (2011, Armand Colin) è un’esplorazione teorica dell’apporto freudiano a una nuova analisi dell’immagine che è ormai accettata nel campo degli studi cinematografici, Psycho. La lezione di iconologia di Alfred Hitchcock (Vrin, 2013) e La Grande Illusione. Il museo immaginario di Jean Renoir (Presses Universitaire du Septentrion, 2015) sono due studi monografici condotti sulle orme di Aby Warburg, autore che Carlo Ginzburg ha diffuso in Italia ben prima che lo scoprissimo in Francia (Miti, Emblemi e Spie, 1986). Le mie ultime opere hanno cercato, quindi, di verificare negli studi cinematografici l’euristica di nozioni elaborate nel campo della psicanalisi e della storia dell’arte. Mi sono allora interessato alla figurabilità freudiana così come alle nozioni warburghiane di pathosformel e nachleben perché esse ci permettono di ripensare la relazione cinema/pittura considerando la pittura come un archivio visuale delle forme, un repertorio di motivi, di gesti e di figure delle espressioni umane che il cinema ha reinvestito e di cui ci importa riprendere la storia. Per precisare un po’meglio il senso di questa ricerca, posso rapidamente ritornare su Psycho d’Alfred Hitchcock. È un film saturato di interpretazioni al quale sembra difficile oggi aggiungere qualcosa. Tuttavia, quando ho cominciato a interessarmene, fui colpito dal fatto che il quadro che Norman Bates solleva per spiare Marion Crane non fosse mai stato identificato. Non soltanto non si sapeva ancora chi aveva dipinto questa variazione di Susanna e i vecchi, ma soprattutto non ci si era mai domandati cosa la gestualità di Susanna poteva dirci su quella di Marion Crane durante il suo assassinio nella la doccia. I due gesti non erano mai stati avvicinati, ma la soluzione di messa in scena adottata da Hitchcock è una reinterpretazione calcolata della scenografia del quadro di Willem van Mieris che dipinse la sua Susanna nel 1731. Ciò che apparentemente sembra essere solo un dettaglio di un’immagine, cioè l’artificio di un dispositivo voyeurista, è in definitiva la chiave ermeneutica di un film che si iscrive in una lunga tradizione teologica, liturgica, letteraria e iconografica. Questa tradizione rivisita il motivo di una Susanna tratta dal libro di Daniele, allo stesso tempo santa, orante e figura della Chiesa. Ma se riprendiamo la celebre scena dell’assassinio di Marion Crane sotto la doccia, ci si rende conto che la sua maniera di lottare contro l’aggressore, Norman Bates, è estremamente vicina a quella che l’iconografia di Susanna ha largamente popolarizzato. Marion si dibatte contro Norman Bates come Suzanne si difendeva dai due vecchi. Il legame tra Susanna e Marion è dunque proprio quella formula di pathos che ci è mostrata dal quadro posseduto da Norman. Alfred Hitchcock fa di Susanna il principio di una lezione morale che ci informa su Marion, che è, per dirla tutta, una cristiana alla quale la grazia è mancata. Possiamo osservare allora, come, a partire da un solo quadro, l’iconografia di Susanna e l’ermeneutica biblica sono sopravvissute nel film di Alfred Hitchcock, come queste si sono legate insieme, cosicché questa intensa retorica visuale ha giocato un ruolo in una lettura dell’America tra modernità sociale e arcaismo culturale. Lo studio delle relazioni tra cinema e pittura è entrato oggi in una fase estremamente ricca di lavori originali e eruditi che lasciano intravedere un orizzonte di ricerca appassionante. Sono felice di constatare che i nostri studenti abbiano scelto di dedicarvisi e che ci siano sempre più tesi su questo tema.

A.M.: La proiezione delle immagini. Possiamo affermare che la connessione e la contaminazione descritta nel suo libro parta dalla considerazione secondo la quale, sin dall’uomo primitivo, proiettare immagini (nelle caverne per esempio) è un fatto necessario ed indispensabile per l’essere umano per autodefinire la propria esistenza?
Luc Vancheri: Si ha l’abitudine di descrivere l’invenzione tecnica del cinema ricordando una sequenza storica che comincia grosso modo con il Taumatropio del dottor Fitton (1826) prima di trovare la soluzione con il cinematografo Lumière (1895), passando per il Fenachitiscopio di Plateau (1832), lo Zootropio di Horner (1834), il teatro ottico di Emile Reynaud (1888) e il Kinetoscopio di Edison (1981). Ma il procedimento di Edison è stato rapidamente differenziato da quello di Lumière facendo valere la proiezione cinematografica come la condizione essenziale del dispositivo. A partire da questo, ci si è interrogati sul legame tra proiezione e immagine, poiché si tratta di qualcosa che ritroviamo già al Rinascimento con la costruzione di una rappresentazione prospettica. Ci si è persino domandati se l’allegoria della caverna di Platone descritta nel Libro VII della Repubblica non sia stato il primo riferimento cinematografico. Ma una tale rilettura della storia del cinema si fonda su un malinteso. Non bisogna infatti confondere quello che chiamiamo storia del cinema con la storia degli elementi che costituiscono il suo dispositivo. Possiamo quindi scrivere due storie distinte se ci si interessa alla filiazione scientifica che adegua l’immagine cinematografica alle leggi dell’ottica e della chimica o se si ritraccia la genealogia del pensiero magico che giudica l’immagine come illusione, spettro o fantasma. La lanterna magica segna questa esitazione tra un ordine della ragione che deve tutto alla tecnica e un disordine dei sensi abbandonati a un’incertezza fenomenologica. Quando si accetta l’allegoria della caverna come “origine possibile” del cinema, ci si dimentica che per Platone l’immagine è in primo luogo sottomessa a un giudizio di verità. È sotto la condizione di verità e di ciò che la filosofia può dirne che l’immagine e la proiezione si ritrovano legati. Il problema non è quello di Edison e dei fratelli Lumière. Ciò che conta è porsi la domanda di che cosa si fa la storia quando si attribuiscono al cinema delle origini che superano largamente il momento della sua invenzione tecnica.

A.M.: Se l’indagine armonica e la connessione con la pittura è un fattore determinante per i film descritti nel suo libro, come valuta l’avvento della computer graphics?
Luc Vancheri: Come ogni evoluzione tecnologica, la computer graphics ha sconvolto l’economia delle immagini sostituendo un medium a un altro. Il passaggio dall’analogico al digitale ha profondamente turbato il modello ontologico dell’immagine fotografica – alcuni vi hanno visto una morte del cinema, prima che i cineasti stessi si siano messi a pensare i loro film a partire delle possibilità del digitale – ma ha anche liberato delle potenze plastiche fin ad ora inaccessibili. A parità di condizioni, è ciò che aveva compreso Eisenstein quando si interessava ai film d’animazione e alle produzioni Disney a partire dall’idea di plasmaticità che dà via libera a un’autonomia figurativa delle forme, comprendendo come il film d’animazione possa offrire delle risorse per riflettere sulle potenze formali del cinema. Ritroviamo una tale volontà di esplorazione figurativa presso dei cineasti assai diversi come Jean-François Laguionie (Le Tableau, 2011) o Wes Anderson (L’isola dei cani, 2018). Questa evoluzione tecnologica ci dice che la tecnica è necessariamente il luogo di un pensiero estetico, cosa che sapevano bene i primi teorici italiani della prospettiva. Con il De pictura (1435), Leon Battista Alberti non solamente scrive un trattato di pittura per i pittori, ma rinnova la retorica di Cicerone attraverso le matematiche e introduce la pittura in un’era nuova, come osservava C. Dionisotti che riconosceva in Alberti “l’impronta dell’uomo nuovo, dell’artista e dell’umanista laico, signore del suo mondo, capace di rappresentare, giudicare e modificare la realtà in ogni suo aspetto, anche umile” (Chierici e laici, 1977).

A.M.: La casa editrice Negretto Editore ha recentemente pubblicato in traduzione “Cinema e Pittura”. Ritiene che il saggio possa aver mercato anche in Italia?
Luc Vancheri: Lo spero. E ad essere sincero, lo credo. L’Italia è stata il crogiolo della nostra cultura dell’immagine. Sono dunque molto felice di poter essere letto in italiano. Ma il mio libro non è che uno dei tanti saggi dedicati alle relazioni tra cinema e pittura, e mi rallegro che queste siano ancora oggetto di lavori monografici. Penso ai libri di Moscariello Angelo, Pier Marco De Santi, Silva Marina Nironi o Mathias Balbi. Penso anche ai miei colleghi in Francia che proseguono questa riflessione, a Jacques Aumont e alla sua opera essenziale che ha aperto la via a numerose ricerche – L’occhio interminabile –, a Jean-Michel Durafour che prosegue un lavoro originale su ciò che definisce l’econologia (Cinema e cristalli. Trattato d’econologia, 2018), e ai miei dottorandi – Francesca Capasso, Sébastien David, Aurel Rotival o Pascale Deloche che ha appena terminato una formidabile tesi sul processo giudiziario sul film La Ricotta di P.P.Pasolini – che prolungano questa riflessione sull’immagine allargandola al cinema politico. La letteratura accademica sul cinema è molto cambiata in questi ultimi vent’anni. Si è notevolmente arricchita ed ha raggiunto un livello scientifico molto alto. È una bella novità per il cinema e per gli studi cinematografici in generale.

A.M.: Attualmente sta lavorando ad una nuova pubblicazione? Può anticipare qualcosa?
Luc Vancheri: Nel mio ultimo libro Il cinema o l’ultima delle arti (2018), mi sono interessato alle variazioni storiche del significante “cinema”, cosa che mi ha portato a rivedere la nostra maniera di pensare la storia del cinema sottolineando tre momenti strutturali che implicano tre concezioni del cinema molto diverse. Distinguendo la fase Lumière, la fase Canudo e la fase Youngblood, ho cercato di mostrare che il cinema, in ciascuno dei suoi momenti, è esistito secondo rapporti diversi: rapporti sociali, culturali, economici, politici che disegnano ogni volta una condizione del cinema irriducibile. La tesi che difendo è questa: riconoscere il cinema come il settimo nella sequenza delle arti, è accettare l’idea che l’arte sia la condizione storica del cinema. Ma dire ciò significa, da un lato, considerare che la cinematografia-attrazione descritta dalla scuola di Montréal designa un’alternativa al pensiero del cinematografo, dall’altro, che l’expanded cinema esiste senza dovere niente all’idea di arte come ciò che assicura la regolazione sociale del dispositivo cinematografico e propone un’altra alternativa, direttamente sottomessa al regime contemporaneo dell’arte. Il malinteso che oppone i sostenitori del dispositivo storico ai difensori del cinema allargato si basa precisamente su questo nodo: se si modifica l’idea di arte che regola il funzionamento dell’industria e delle istituzioni cinematografiche, è l’idea stessa di cinema che cambia. E questo genera il cinema di installazione dei musei e delle biennali di arte contemporanea. Ma questo tipo di cinema è ancora contestato, anche se alcuni cineasti rivendicano ciò. Mi sembra dunque importante ritornare sulla maniera di pensare il cinema e di farne la storia. Quanto al mio lavoro più recente, ho appena finito il manoscritto. Si tratta di uno studio monografico dedicato a un film di Philippe Faucon, Fatima (2015). Ho cercato di dimostrare che il film non va ridotto semplicemente al suo tema sociale, l’immigrazione e la sofferenza sociale dei suoi personaggi, perché dispiega tutto un insieme di situazioni estetiche che funzionano come occasioni per riaffermare i legami che vanno dal cinema alla filosofia, alla storia, alla politica e alla pittura. Ho dunque tentato, a partire dalla polemica scatenatesi quando il film ha ricevuto il César (2016), di descrivere la maniera in cui il cinema si introduce nella storia del pensiero, ne modifica le coordinate e le forme, ne riprende problematiche più vecchie per rileggere quelle di cui è contemporaneo. Così mi sono deciso a analizzare alcune sequenze del film ricorrendo ai frammenti filosofici di Eraclito, al De lingua latina di Varrone, al testo di Benjamin su Nicolas Leskov o ancora al Was ist Aufklarung? di Kant. Dovrebbe essere pubblicato nella primavera 2019.

A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Luc Vancheri: Bisogna immaginare Saskia morente e lui nel suo atelier, appostato su delle scale, cambiando la composizione de La ronda di Notte. Se crede in Dio? Non quando dipinge.
Ciò che è rimasto di un Rembrandt strappato in piccoli quadratini regolari, e buttato al cesso”.
Jean Genet, Rembrandt, Paris, Gallimard, 1995, p.77

Traduzione in lingua italiana a cura di Francesca Capasso (PhD student at Lyon 2 University. Her thesis focuses on the relationship between cinema and messianism)

Written by Alessia Mocci
Ufficio Stampa Negretto Editore

Info
Nella fonte dell’articolo troverete l’intervista in inglese e francese.
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Fonte
http://oubliettemagazine.com/2018/09/25/intervista-di-alessia-mocci-a-luc-vancheri-la-pubblicazione-italiana-del-saggio-francese-cinema-e-pittura/